Ilva, non di sola morte

by gabriella

Il ricatto e l’oppressione quotidiana dentro e fuori la fabbrica, nell’intervista realizzata da David Cobbe, Devi Sacchetto e Luca Cobbe, a un operaio dell’Ilva di Taranto. In coda l’articolo del Fatto quodiano sulle intercettazioni e il coinvolgimento della Regione Puglia nella costruzione del silenzio sul disastro.

Cataldo Ranieri ci dà appuntamento in un piazzale, alle otto di sera, in uno dei tanti baracchini in cui si mangiano le pucce tarantine. La nostra intervista dovrebbe svolgersi prima della riunione del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, ma ben presto si tramuta in una sorta di chiacchierata collettiva con circa trenta persone che, a nostro avviso, mostrano bene le diverse sfaccettature di questo movimento ancora in fasce. L’incontro avviene il 9 agosto, cioè il giorno prima che il giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, notificasse all’Ilva che il risanamento va fatto a fuoco spento. Colpisce come l’onnipotente governo tecnico sia messo in crisi dalla decisione tecnica di una funzionaria burocratica. Improvvisamente la decisione politica torna a essere occasionale e in deroga alle regole. E’ persino divertente che il provvedimento di ieri esautori Bruno Ferrante, scelto affinché la sua faccia tecnico-burocratica nascondesse quella del padrone interessato solo al profitto. Ma più che sulle sventure tecniche dei vari livelli di governo tecnico della crisi, o sul ruolo della magistratura che, immaginiamo, abbia ancora molto altro da indagare, ci interessava cominciare a ragionare sulla condizione operaia in Italia, a partire da quanti sembrano esprimere nuove forme di soggettività dentro e fuori le fabbriche.

La rottura consumata durante lo sciopero della settimana scorsa sembra aver fatto da detonatore per le diverse esperienze di militanza che fino ad allora si esprimevano nel chiuso dei piccoli gruppi politici tarantini. Ora, invece, si coglie l’esigenza di «fare sintesi», confrontandosi collettivamente. Non che manchino i tentativi di monopolizzazione, ma sembrano resti di un passato che questo Comitato cerca di superare. Lo slancio messo in campo oscilla tra la decisione di rovesciare le contraddizioni esplose all’interno dei rapporti lavorativi, con i sindacati e gli altri operai, e quella di volgersi verso l’esterno, per rafforzare le relazioni costruite in quest’ultimo periodo tra pezzi di società coinvolti direttamente dal disastro ambientale e sanitario dell’Ilva. Un’oscillazione che, tuttavia, lungi dall’essere espressione particolare del «caso» tarantino, emerge come una costante delle prese di parola nella precarietà e ne scandisce tanto i limiti quanto la forza.

All’Ilva, la precarietà si manifesta con il volto feroce dell’alternativa tra lavoro e morte. Non indossa le vesti apparentemente legali di un contratto atipico, ma è la scelta imposta nella «città industriale», un modo di organizzare il territorio che impedisce ogni alternativa possibile e costringe la forza lavoro a una piena disponibilità. Persino chi commercializza i residui del ciclo produttivo dopo averli rubati sta dentro alla «città industriale», che fagocita ogni cosa. Perciò, la «città industriale» entra in crisi quando il suo corpo operaio rifiuta questa coazione, quando esce dalla fabbrica per incontrare coloro che vivono e vogliono quella crisi, e con ciò diventa esso stesso l’alternativa anche per quanti dentro alla fabbrica non ci sono. I comportamenti di questi proletari indicano possibilità impreviste nello stagno di collusione tra padronato e sindacati. La divisione operaia non è quella tra produttivisti e ambientalisti, ma è il risultato del ricatto e della logica del «favore», che produce non solo endemica corruzione, ma anche e soprattutto estrema individualizzazione. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che questa classe operaia gridi vendetta tanto rispetto agli scioperi generali, che retoricamente cercano di mantenere in vita e riprodurre il ceto sindacale, quanto rispetto agli scioperi contro gli infortuni proclamati dal sindacato per ricordare ai vivi l’estrema precarietà della loro esistenza. Contro queste rappresentazioni di impotenza, i facinorosi dell’«u tre rote» hanno espresso la pretesa di esercitare una forza. Hanno cominciato in pochi – e lo rivendicano con orgoglio – ma sono stati capaci di affermare un senso di possibilità che non è rimasto isolato.

Il rifiuto di continuare a essere una «città industriale» con cui i membri di questo Comitato chiudono la chiacchierata, mostra che i comportamenti del proletariato rimangano, almeno in parte, autonomi dalle scelte obbligate imposte dall’economia politica. Non si tratta qui di glorificare la precarietà di chi mette insieme a fatica il pranzo con la cena, passando dal legale al cosiddetto illegale senza soluzione di continuità. Si tratta piuttosto di cogliere che in questa classe emerge un senso di giustizia molto lontano da quello della magistratura. «La città industriale» come modo di organizzare il territorio sperimentato anche altrove – a Torino, per esempio – è in crisi da almeno 30 anni. Movimenti imprevisti e imprevedibili di forza lavoro s’incaricano in continuazione di impedire la sincronizzazione del tempo e dello spazio del capitale. Forse gli operai dell’Ilva non «sono» il cambiamento, ma certamente sono espressione di quei movimenti imprevisti e imprevedibili che possono far conflagrare questa crisi.

Iniziamo chiedendo a Cataldo quali sono le prossime mosse.

Che cosa ha intenzione di fare adesso il Comitato?

Noi abbiamo intenzione di proseguire; il Comitato nasce perché c’è l’esigenza di essere rappresentati da qualcuno, perché noi a Taranto abbiamo una classe sindacale e politica che non rappresenta nessuno, quindi c’è l’esigenza di autorappresentarci. La città ha un tasso di disoccupazione altissimo e chi ha il lavoro se lo deve tenere anche a costo di sacrificare se stesso e la propria famiglia. Le amministrazioni comunali e i sindacati fino a oggi hanno campato sulle mazzette al fine di darci il pane avvelenato pur di farci stare zitti; hanno permesso che questa condizione perdurasse. Noi stiamo continuando una serie di iniziative in tutte le piazze, autofinanziandoci per farci conoscere e per fare capire alla gente chi siamo e cosa vogliamo, per chiedere di sostenerci perché realizzare quello che vorremmo è difficile, ma non impossibile. Un pensiero nuovo che viene dal basso non dall’alto. Non ci arroghiamo la presunzione di essere noi il cambiamento, però noi vogliamo essere partecipi di questo cambiamento. Questa città è addormentata sulla rassegnazione perché chi la rappresenta è lo specchio di se stesso.

Forse questo lo si può dire di tutta l’Italia…

Diciamo che Taranto è lo specchio di quello che avviene a livello nazionale in tutti i sensi, sin dagli anni novanta, abbiamo avuto Cito a Taranto e Berlusconi a livello nazionale.

Questo comitato com’è nato?

L’elemento di novità estremamente importante, anche esemplificativo, è il fatto che questo comitato, nato in solo tre giorni, è stato capace di far scappare senza colpo ferire Angeletti, Bonanni e la Camusso. Io credo sia un fatto epocale per quello che abbiamo combinato all’interno di quel luogo di lavoro, ma in più in generale per quanto riguarda la svendita dei diritti dei lavoratori che sono avvenuti in questi anni e la svendita dei cittadini, della salute dell’ambiente. Per tanti anni in questa città sono state fatte manifestazioni per l’ambiente, manifestazioni per la salute, però erano abbastanza deboli, in parte perché parcellizzate e in parte perché ognuno provava a mettere il cappello. C’era un senso di scoramento perché tu sapevi che la gente moriva di tumore, sono anni che ci sono le devastazioni. Ovviamente c’è stato il detonatore che ha fatto scoppiare il tutto, cioè la chiusura dell’Ilva e questa reazione scomposta di Cgil, Cisl e Uil che hanno preso per le orecchie i lavoratori. L’altra parte della città, compresi i lavoratori dell’Ilva, invece ha provato a ribaltare il concetto. Ci siamo trovati in 50 persone che se vuoi non sono poche in un’assemblea autoconvocata e con un piccolo tam tam siamo aumentati. Tutti con le proprie esperienze anche diversificate, ma con un obiettivo comune. L’ambizione è questa: noi dobbiamo effettuare un controllo dal basso su tutte le scelte, assolutamente non mettere più in contraddizione quella che è l’occupazione con l’elemento ambientale e della salute. Questo lo dicono in tanti ma bisogna praticarlo. È inutile che qui ci prendiamo per fessi perché quest’Ilva chiuderà da sé perché è un impianto che ha più di 50 anni. Quando ha acquistato nel 1995, Riva aveva un obiettivo chiaro: sfruttare l’Ilva per 20 anni, una gallina dalle uova d’oro, ha fatto sette miliardi di utile. Non ha mai badato né a mettersi in regola su quanto era previsto rispetto alle norme ambientali e alla salute, né all’anti-infortunistica. Allora la differenza oggi è che questo problema lo pongono cittadini e lavoratori in carne e ossa che in tre giorni hanno costruito una presenza di piazza che è partita da 500 persone e che si è decuplicata durante il percorso. Se tu vedi la piazza, durante lo sciopero, alla fine ci siamo solo noi e tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici che disobbedendo palesemente all’ordine dato dal palco di andare nella piazza adiacente sono rimasti là. Andiamo a fare le assemblee nei quartieri così ti vengono tre, quattrocento persone. Ieri è nato un altro Comitato spontaneo di ragazzi di 30-40 anni del quartiere Tamburi che ci hanno chiesto di lavorare insieme. È venuta per la prima volta ufficialmente una donna della città vecchia in rappresentanza dei mitilicoltori, per dirci che dobbiamo fare iniziative insieme. Commercianti ci hanno fermati dicendoci che vogliono fare delle cose con noi. L’elemento di novità è che nasce tutto dal basso e si sta entrando nella logica che solo in questo modo, non delegando più, si possono scompaginare le scelte su questo territorio. Questa decisione del riesame è solo una bombola d’ossigeno per due, tre anni, che consente a Riva di sfruttare gli ultimi anni e poi caricare la collettività dei costi, senza per altro cagare di suo. Ecco noi non ci stiamo a questo. Abbiamo le idee chiare su come può essere lo sviluppo. Qua chi è tarantino lo sa: la mitilicoltura è distrutta, la pescicoltura è distrutta, il turismo è distrutto, l’agricoltura è distrutta.

Torniamo in fabbrica. Che tipo di composizione c’è in fabbrica?

In fabbrica c’è una logica aziendale che già nasce sbagliata, perché per riuscire a fare profitti si è risparmiato su tutto, salvo i premi di fine anno che sono divisi tra tutti quelli che contano in fabbrica. Ad esempio il fumo rosso che si vede uscire: l’acciaieria ha un sistema di cappe di aspirazione che è tarato ad assorbire tutti i fumi nel caso in cui tu quando arrivi con la siviera sul convertitore di ghisa la sversi lentamente e rispetti i tempi previsti. È come versare un bottiglia di birra nel bicchiere: se tu la versi velocemente tutta la schiuma sale sopra e fuoriesce, se tu la versi lentamente la schiuma non la fai o quel poco che fai viene captata dall’aspirazione. Non si fa perché si deve produrre velocemente. Un altro esempio. Se per quell’impianto è prevista una fermata di tre giorni perché bisogna fare dei lavori, lo si fa in un giorno sovrapponendo tutti i lavori senza definizione, perché si deve fermare il meno possibile perché si deve fare produzione. Ci sono delle figure, i cosiddetti «fiduciari», che non hanno nessuna responsabilità giuridica e penale nei confronti dei lavoratori ma che girano nella fabbrica come dei capò a dare disposizione ai capi reparti, a chi è realmente responsabile. Impartiscono ordini che loro devono eseguire pur non capendo che sono loro i responsabili se succede qualche cosa.

Questi cosiddetti capò chi sono?

Con noi non parlano; è gente di qua come di altre parti d’Italia. Ci sono quelli che magari hanno avuto esperienze a Brescia e nelle altre fabbriche e ci sono quelli che vengono qua con lo scopo di controllare e magari non hanno competenze a livello tecnico d’impianti. Fungono solo da controllori a vantaggio dell’azienda. Questa situazione nasce da una strategia che si è vista anche nel ricambio occupazionale; le leggi sull’amianto hanno favorito la fuoriuscita di tante persone dal 1996 al 2003, e lì si è scelto di assumere parenti di dipendenti in uscita. Mano a mano che quelli che avevano il beneficio dell’amianto uscivano, hanno fatto entrare i familiari i nipoti, i figli, in modo da tenerne uno per la gola e l’altro per le palle. Anch’io sono un parente di un dipendente per questo sono entrato, avevo mio zio che lavorava; prima di entrare all’Ilva avevo lavorato solo a nero. I lavoratori vecchi sono pochissimi, la forza lavoro è di 35-40 anni. In questo lasso di tempo l’azienda è diventata padrona, e il sindacato l’ha fatta diventare padrona un po’ perché non c’erano le condizioni per poter contrastare, e un po’ perché essendo tutti quanti in un certo senso ricattabili si è arrivati a quel punto. Una volta usciti da questa condizione sono rimasti soltanto i compromessi e un sindacato senza armi perché ormai è assoggettato a quello che dice l’azienda. Questa è la situazione. Io per esempio sono stato raggiunto da un provvedimento disciplinare perché sono obbligato a partecipare alle riunioni di sicurezza in cui mi spiegano come devo fare il lavoro e l’azienda vuole che firmi che ho appreso come si deve fare. Quando mi trovo nella situazione di lavoro e chiedo che venga applicato, io sono un problema, perché sono uno che non può andare a lavorare là. Da allora io non ho più firmato le riunioni di sicurezza. Sono stato raggiunto da un provvedimento disciplinare, in tre pagine ho espresso le mie ragioni, così come è previsto, di che cosa è successo, ma non hanno accettato la giustificazione. Sono andato all’Ufficio provinciale del lavoro per dire che voglio che l’azienda venga qui per vedere chi ha ragione. L’ufficio provinciale mi ha detto che, se non hai il sindacato che ti porta, tu autonomamente non lo puoi fare, per cui sono andato dal primo sindacato che ho trovato che non poteva essere la Fiom e sono andato dalla Fim. Ho detto che ho bisogno di una assistenza legale, mi sono iscritto tre settimane fa, ma adesso alla luce di come sono andate le cose non mi serve il sindacato.

Tu sei stato a lungo iscritto alla Fiom. Ci spieghi come mai te ne sei andato?

Io sono un ex dirigente della Fiom, sono andato via, ho rinunciato, ho dato le dimissioni. È una storia che dura da troppo tempo; nel novembre 2007 ho dato le dimissioni, perché non volevo essere come loro. Ho provato a cambiare quel mondo ma con i sotterfugi mi hanno fatto perdere. Nel 2007 nella Fiom avevo la maggioranza e abbiamo scritto una lettera firmata da 53 persone e l’abbiamo mandata a Rinaldini, che allora era il segretario della Fiom e che è venuto a Taranto. Ha indetto un attivo a cui ha partecipato anche l’allora segretario provinciale della Fiom, Franco Fiusco, che a nostro avviso non ci rappresentava più. Poi invece di rimuovere Franco Fiusco così come previsto se non ha la maggioranza, si è preso un po’ di giorni e nel frattempo hanno cominciato a venir meno le firme con i classici sistemi. Quando mi sono trovato in minoranza sono andato dall’azienda e ho detto: io rinuncio a tutte le mie carte [cioè al distacco sindacale]. Mi hanno detto: «dove vuoi andare?» «A lavorare»; e sono andato a lavorare. Non che prima non lavorassi. Prima ero sempre in fabbrica ma non ero assoggettato alla marcatura del cartellino. Sono sempre stato sugli impianti, i lavoratori mi conoscono e lo possono dire. Sono rimasto sempre iscritto alla Fiom fino al marzo di quest’anno, non avevo motivi di vendetta, come dicono adesso che questo sarebbe un movimento di vendetta verso la Fiom. I cinque anni successivi io sono rimasto iscritto, mi sono cancellato quando si sono permessi di espellere Massimo Battista. Io gli ho fatto una lettera alla Fiom in cui dicevo che fino a oggi sono rimasto in silenzio ma siccome so cosa ha fatto Massimo Battista insieme a me per la Fiom e per i lavoratori allora gliel’ho scritto tutto in una lettera.

Ci spieghi il ruolo della Uilm?

L’unico diritto che riesce ottenere in quella fabbrica è «il favore»: «per favore posso avere le ferie, per favore posso essere spostato», e chi si occupa di questo monopolio è la UILM. Ecco perché in quella fabbrica la UILM ha 2500 iscritti derivanti dal periodo d’oro delle assunzioni, non so come abbia potuto fare 2500 deleghe, però deriva da lì. Lo sponsor dell’azienda è la Uilm , questo lo metterei anche per iscritto.

La Fiom ha subito un processo progressivo di erosione. Anche a gennaio di quest’anno 400 iscritti e sei Rsu se ne sono andati.

La Fiom quando c’eravamo noi cinque anni fa ce aveva 2300-2400 iscritti, era la seconda forza, da quando ce ne siamo andati noi se ne sono andati in 1000 e sono diventati la terza forza. La Fim sono tipo 1200-1300.

Quindi è una fabbrica sindacalizzata?

Per il 50% , ma comunque dopo le ultime vicissitudini la vedo dura.

Quanti lavoratori ci sono dentro all’Ilva tra diretti e indiretti?

I diretti sono circa 11-12 mila, quelli degli appalti sono intorno ai 6-7 mila persone, e la maggior parte sono tutte ditte esterne non di Taranto, gli appalti vengono da fuori.

Che rapporto c’è tra gli operai esterni e interni?

Solidarietà più che altro, non siamo uno contro l’altro, assolutamente, anzi si socializza. Però loro fanno dei lavori diversi dai nostri; fanno la manutenzione più specializzata, più precisa, più tecnica. Ci sono delle ditte che vengono in prestazione per tre mesi, ci sono soprattutto lavoratori precari nelle ditte di appalto. Sono assunti dalle agenzie interinali; quelle se non ti comporti bene il contratto non te lo rinnovano mica.

Mentre in Ilva qual è il rapporto fra precari e stabili?

Nel reparto in cui siamo noi ce ne stanno 4 su 200 persone, non è una cifra alta. Dall’azienda non viene assunto più nessuno. Le assunzioni sono terminate già da un pezzo, anzi adesso la gente che va via per l’amianto non viene rimpiazzata, la gente che va in pensione non viene rimpiazzata. Adesso con dodicimila persone si fa il doppio della produzione rispetto ai 40 mila dipendenti che c’erano alla metà degli anni Novanta, quando era dello Stato, prima che arrivasse Riva, e si chiamava Italsider.

Com’è andata quando siete ritornati in fabbrica dopo lo sciopero, dopo il botto?

Io ti posso dire la mia esperienza personale. A me si sono avvicinate tante persone, tantissimi lavoratori che mi hanno detto bravo avete fatto bene, finalmente, e sono per la gran parte del luogo che hanno le famiglie che respirano questi veleni, ma ci sono anche tanti non del luogo e hanno capito che non possono essere così egoisti da pensare che pur di lavorare si possa sacrificare una comunità come quella di Taranto. Ci sono delle persone che ragionano in un certo modo e ci sono delle persone che sono chiuse dentro la loro voglia di preservare il posto di lavoro a qualsiasi costo, anche sapendo e vedendo i veleni che noi per primi respiriamo. Noi li conosciamo questi veleni.

Tutti gli operai secondo te sono consapevoli della questione ambientale? Lo erano anche cinque anni fa?

Chi vive quegli impianti è impossibile che non si accorga dei veleni che ci sono. Là basta che passa una macchina che si alzano i veleni. La questione è che non c’erano alternative. Un sindacato che non risultava, un’azienda che li sfrutta, una città che non ti offre alternative, cosa devi pensare? Tanto che stai almeno ci lavoro, almeno porto lo stipendio a casa. Se ci fosse alternativa chi lavorerebbe in quella fabbrica? Domandalo a uno qualsiasi di quei 12.000. Ecco perché ti parlavo di quella condizione a cui siamo stati sottoposti meschinamente.

Tu stai parlando quindi di una solitudine operaia, di un isolamento, un posto dove ognuno deve pensare a se stesso e basta.

Ti faccio un esempio. Il sindacato dice di tenerci all’ambiente e alla sicurezza. Io sto in quella fabbrica da quasi 15 anni, non è mai stato fatto uno sciopero sull’ambiente e sulla sicurezza, mai. Si fanno scioperi nazionali e scioperi per i morti. Scioperi per la sicurezza, per i diritti dei lavoratori, in quella fabbrica ci sono chiare mancanze! Perché non si è mai fatta nemmeno un’ora di sciopero. Noi quando stavamo nel sindacato abbiamo fatto le denunce alla magistratura, alla procura della repubblica, all’Asl abbiamo fatto fermare convertitori, abbiamo fatto mettere sotto sequestro gli impianti, noi l’abbiamo fatto. Io Battista e anche [Francesco] Rizzo che eravamo i tre rompicoglioni. Stavamo nella Fiom, noi ci rivediamo ancora nei valori che rappresenta, ma la Fiom è fatta di uomini e gli uomini non sono quei valori per cui questa è la fine che abbiamo fatto.

Prima di questa vicenda, qual era il tasso di adesione agli scioperi?

Era molto basso, perché se tu devi fare uno sciopero nazionale o uno sciopero per qualsiasi altra cosa che non deriva da Taranto e sai che i tuoi diritti sono sempre calpestati, tanto vale che ti affidi all’azienda che continui a essere uno che almeno si fa lo straordinario, che può fare carriera e può avere il livello. Perché il livello non lo hai sulla professionalità, lo hai se non fai malattia, se non partecipi agli scioperi, lo fai se lecchi il culo, sono pochi che vanno avanti per meritocrazia.

Chi riesce ad ottenere un posto di lavoro all’Ilva di solito lo tiene stretto?

Chi ottiene il lavoro a Taranto, all’Ilva, è disposto a rinunciare alla dignità, all’orgoglio, all’essere uomo perché in quella fabbrica ti annullano. Quella è una fabbrica di repressione, persecuzione, lo dimostra la palazzina LAF. Battista per esempio è un esiliato, lui sta fuori dalla fabbrica, è un indesiderato dall’azienda. Lui sta in una zona gestita dal sindacato; sta lì lui, seduto alla sua scrivania senza un bagno, non ha una mensa dove mangiare.

Gli operai che lavorano all’Ilva hanno qualche altro introito, hanno un secondo lavoro?

Ci sta chi viene dalla provincia che ha ancora la terra e magari durante il periodo di vendemmia prende le ferie. Però a Taranto dove vai? Potevi andare a pescare una volta, ma ora non ci sono alternative.

È tutta gente che proviene da famiglie in cui lavora solo una persona?

Nel mio caso io lavoro all’Ilva e mia moglie in un call center, però se tu ti compri una casa e paghi 700 euro di mutuo, quello che prende tua moglie se ne va per il mutuo, con quello che ti rimane devi pagare tutto il resto. Io mi ritengo fortunato ma c’è gente che deve andare avanti con 1300 euro al mese, ecco perché è importante tenersi il posto di lavoro a costo di qualsiasi cosa, perché se esci dall’Ilva non c’è nulla, perché qualcuno ha deciso così. C’è da dire che anche la politica tarantina non dà alternative; anche i giovani che non vogliono andare a lavorare all’Ilva non possono. Se io ad esempio mi invento un lavoro come ambulante e vorrei un posto, e sono disposto a pagare anche la luce e il suolo pubblico, non mi danno la possibilità perché non c’è niente che regoli il livello economico di Taranto. Qui non creano proprio l’alternativa e se ti crei qualcosa ti mettono i bastoni tra le ruote perché non vogliono che tu sviluppi il tuo cervello e trovare alternative a quello che tu hai. Quelli che non lavorano all’Ilva come i mitilicoltori, o gli allevatori sono stati distrutti dall’Ilva stessa, e i lavoratori dell’Ilva pensano al loro lavoro e non pensano al lavoro che hanno perso gli allevatori, i mitilicoltori, i pescatori, di coloro che hanno deciso di non andare a lavorare all’Ilva. Tutti pensano che basta che ti trovi un lavoro sicuro con un posto a tempo indeterminato, ma oggi non esiste più il posto a tempo indeterminato. L’Ilva non assume più, e che facciamo? Che dobbiamo fare? Dobbiamo andare a rubare? Se qualcuno ha la voglia di cambiare la situazione non te la fanno cambiare, c’è sempre qualcuno che ti mette i bastoni tra le ruote. Come le denunce che ci hanno dato per i casi di piazza, perché abbiamo rovinato un’organizzazione sindacale, abbiamo rovinato una loro festa dove chiedevano e facevano pressioni alla magistratura per non far prendere delle decisioni pesanti anti-Riva. Come si fa un decreto legge in due giorni solo per Taranto? Un tavolo tecnico per Taranto?

Lo spezzone di 500 persone come era composto?

C’erano precari, disoccupati, studenti. I precari sono di vari settori o nei meccanismi dell’ illegalità. Parliamo anche di persone che fanno dell’illegale, diciamo le cose con molta chiarezza, è evidente. Ti faccio un esempio, è notizia di qualche giorno fa che due padri di famiglia di una cooperativa di mitilicoltori si sono visti distrutti tonnellate e tonnellate di cozze e dopo manco una settimana sono stati trovati a rubare. Ma qui è la normalità. L’illegalità è normale. Quando parliamo di precariato qui parliamo dell’arte dell’arrangiarsi! L’arte dell’alzarsi la mattina e dire oggi vado a rubare per esempio il rame rosso e me lo vado a vendere. Si va anche alla discarica dell’Ilva che butta del materiale di risulta delle colate e alcuni ragazzi vanno a raccogliere quello che rimane dei pezzi di ferro e poi lo vanno a vendere. Molti vengono fermati e denunciati, chi ha tentato di coltivarsi un pezzettino di terra per poi vendere quello che ha prodotto in mezzo alla strada non gli viene permesso. Qui ti fanno 5000 euro di verbale per non aver chiesto permessi o autorizzazioni che costano parecchi soldi. Qui non danno la possibilità di alzare la testa! C’è un grosso lavoro a nero sommerso soprattutto nei servizi, parliamo di gente che lavora due ore al giorno, ma non ragazzini padri e nonni. Questa è la realtà nei grandi enti tipo l’Arsenale, l’ospedale dove si lavora nelle ditte di pulizia.

Da qua si è emigrato spesso, una parte di questa parte di operai che lavorano all’Ilva sono emigrati prima di entrare?

No, a Taranto nei tempi d’oro c’erano 335 mila abitanti. Da quando si è passati da 40.000 a 12.000 lavoratori il tasso di disoccupazione è diventato altissimo. E molti sono andati via da Taranto e oggi in città siamo 175.000.

L’Ilva storicamente è stato un blocco dell’emigrazione, addirittura di immigrazione, oggi qual è lo stato d’animo tra i lavoratori, la spinta a emigrare sta aumentando?

I tarantini vogliono tornare a essere padroni del proprio territorio, e quindi del proprio destino. Noi vogliamo un’economia diversa non una città industriale.

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Ilva, Riva al telefono: “Ho visto Vendola, vendiamo fumo”

Nel luglio 2010 dopo un nuovo e preoccupante rilevamento ambientale, i vertici dell’acciaieria incontrano il presidente della Regione. Una volta fuori si accordano sulla strategia: dire che tutto va bene e che l’azienda collabora con le istituzioni. Nell’indagine emerge la rete di contatti per “tenere tutto sotto coperta” e “distruggere” i dirigenti Arpa che non collaborano

ilva fumi interna

“Siamo stati da Vendola… e con Vendola avevamo concordato… però non sapevamo di quest’azione… avevamo concordato un certo discorso, in pratica che dovevamo fare con questo tavolo tecnico… ehm… che aveva più obiettivi. Uno di quelli in ordine di tempo, uno di quelli, il primo, sconfessare i lavori di ehm dell’Arpa Puglia”. È il 16 luglio 2010, Girolamo Archinà, ex dirigente dell’Ilva, silurato dopo il deposito delle intercettazioni della Procura nell’udienza di riesame per il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento tarantino, manifesta al telefono il suo disappunto per la nuova iniziativa della magistratura.

La Procura ha infatti aperto un nuovo fascicolo dopo i dati sul monitoraggio del benzo(a)pirene realizzato da Arpa Puglia. I livelli di emissione nel periodo gennaio-maggio sono triplicati. Archinà lo sapeva: “in via confidenziale” è stato il capo di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, a inviargli con una mail con i dati ancora ufficiosi. Forse l’ex collaboratore della siderurgia ionica sperava che rimanessero tali. La notizia, però, trapela: il sindaco Ippazio Stefàno emana un’ordinanza, l’onda ambientalista cresce, l’opinione pubblica chiede misure. L’ex capo delle relazioni istituzionali dell’Ilva attiva il “sistema Archinà”: il giorno seguente, con Fabio Riva, vice presidente del gruppo dell’acciaio, è già in riunione con Vendola. All’uscita Riva chiama il figlio Emilio e gli comunica che il nuovo piano d’azione è basato sul “vendere fumo”: l’azienda comunicherà di essere disposta a collaborare con la Regione e questa spiegherà che il rapporto instaurato con l’Ilva è l’esempio da seguire anche con le altre grandi realtà industriali del territorio. Intanto Archinà ha raggiunto anche un obiettivo esemplare: “…convocato Assennato… Assennato è stato fatto venire al terzo piano però è stato fatto aspettare fuori…”.

Quell’attesa, secondo lui, è “come un segnale forte” che poi si manifesta chiaramente nelle parole che, secondo il racconto di Archinà, Vendola avrebbe rivolto al dirigente Antonicelli: “Esci fuori vai a dire ad Assennato… vai a dire ad Assennato che lui i dati non li deve utilizzare come bombe di carta che poi si trasformano in bombe a mano!”. Il sistema Archinà non conosce sfumature: i nemici vanno distrutti. È lui stesso a dirlo senza timore di chi lo ascolta. Anzi è una dimostrazione di forza. Come quando nello studio del consigliere regionale del Pd Donato Pentassuglia, appena nominato presidente della commissione ambiente, risponde alla chiamata di Alberto Cattaneo, responsabile della comunicazione dell’Ilva, e detta legge: “…Non ho timore di dirti, che mi trovo in ferie, ma mi trovo nell’Ufficio del presidente della commissione Ambiente della Regione, il Dott. Pentassuglia, per cui mi sta sentendo in diretta che dobbiamo distruggere Assennato”.

Così tesseva la rete di protezione della fabbrica. Con rapporti non proprio istituzionali che permettevano, come lui stesso spiega, di “tenere tutto sotto coperta”. Trema oggi la politica tarantina e pugliese. Trema anche la stampa: nell’informativa completa che appartiene all’indagine denominata “ambiente venduto” la rete di contatti dell’ex braccio destro di Emilio Riva potrebbe trasformarsi in un vero e proprio terremoto.

INTANTO a Taranto la tensione non si allenta. L’Ilva ha depositato il ricorso per annullare i due ultimi provvedimenti del gip Patrizia Todisco che «nega la realtà» dato che il Riesame ha convertito “la cautela reale in un sequestro con facoltà d’uso”. L’azienda attacca a testa bassa il gip Todisco che sarebbe intervenuto “sua sponte” perchè non avrebbe “digerita la profondissima riforma del Riesame” che avrebbe ribaltato il suo provvedimento di sequestro “incontrovertibilmente concepito per conseguire” in fretta “la chiusura definitiva dello stabilimento”. Ma proprio in quel provvedimento lo stesso gip Todisco scrive che “solo la compiuta realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo individuate dai periti chimici e l’attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni” potrebbe permettere all’azienda di produrre ancora. Un passaggio che sembra essere sfuggito a tutti: azienda e sindacati, avvocati e politici. Forse il sistema Archinà l’avrebbe sfruttato meglio.

da Il Fatto Quotidiano del 15 agosto 2012

 
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