Un estratto del film del 1973 ispirato a La società dello spettacolo (La société du spectacle, 1967), La Prefazione scritta da Debord per la quarta edizione italiana e il primo capitolo.
Nel video, che ho sottotitolato in italiano, Debord illustra le caratteristiche dello spettacolare diffuso e concentrato, concludendo con importanti osservazioni sul senso delle mode e sul turismo.
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Nella Prefazione che Debord ha scritto per la quarta edizione italiana de La società dello spettacolo (1979) e nel primo capitolo sono contenuti i concetti fondamentali dell’opera (seguono entrambi). Anticipo la frase con cui Debord chiude la Prefazione: “I giorni di questa società sono contati; le sue ragioni e i suoi meriti sono stati pesati e trovati leggeri; i suoi abitanti si sono divisi in due partiti, uno dei quali vuole che essa scompaia”.
Traduzioni di questo libro, pubblicato a Parigi verso la fine del 1967, sono già apparse in una decina di paesi; e spesso diverse ne sono state prodotte nella stessa lingua, da editori in concorrenza; e quasi sempre sono cattive traduzioni. Le prime sono state dappertutto infedeli e scorrette, tranne che in Portogallo e, forse, in Danimarca. Le traduzioni pubblicate in olandese e in tedesco sono buone a partire dal secondo tentativo, per quanto l’editore tedesco abbia trascurato, in questo secondo caso, di correggere una mole di errori di stampa. In inglese e in spagnolo, bisogna aspettare la terza edizione per sapere cosa ho scritto.
Niente è stato peggiore, tuttavia, di ciò che ho visto in Italia dove, nel 19689, l’editore De Donato ha pubblicato la più mostruosa di tutte, solo parzialmente migliorata dalle due edizioni rivali che l’hanno seguita. All’epoca, comunque, Paolo Salvadori era andato a trovare nei loro uffici i responsabili di un simile affronto e, dopo averli colpiti, avevo loro letteralmente sputato in faccia: perché tale è naturalmente il modo di agire dei buoni traduttori, quando ne incontrano di cattivi. E’ inutile dire che la traduzione per la quarta edizione italiana, fatta da Salvadori, è finalmente eccellente.
Le gravi carenze di molte traduzioni che, ad eccezione delle quattro o cinque migliori, non mi sono state sottoposte, non significano che questo libro sia più difficile da comprendere di qualsiasi altro che abbia mai realmente meritato di essere scritto. Non è vero nemmeno che questo trattamento sia particolarmente riservato alle opere sovversive, dal momento che in tal caso i falsificatori non avrebbero almeno da temere di essere trascinati in tribunale dall’autore; o perché l’eventuale assurdità aggiunta al testo favorirebbe alquanto le velleità di confutazione da parte degli ideologi borghesi o burocratici.
Non si può fare a meno di constatare che la grande maggioranza delle traduzioni pubblicate negli ultimi anni, in qualunque paese, e anche quando si tratta dei classici, sono trattate allo stesso modo. il lavoro intellettuale salariato tende normalmente a seguire la legge della produzione industriale della decadenza, in cui il profitto dell’imprenditore dipende dalla rapidità di esecuzione e dalla cattiva qualità del materiale impiegato. Questa produzione – così fieramente liberata da ogni forma di riguardo per il gusto del pubblico, concentrata finanziariamente e dunque sempre meglio attrezzata tecnologicamente, detentrice del monopolio, in tutto lo spazio del mercato, sulla presenza non-qualitativa dell’offerta – ha potuto speculare con un’impudenza crescente sulla sottomissione forzata della domanda e sulla perdita del gusto che ne è momentaneamente la conseguenza nella massa della sua clientela.
Che si tratti di un alloggio, della carne di bue d’allevamento o del frutto dello spirito ignaro di un traduttore, la considerazione che s’impone sovrana è che si può ormai ottenere molto rapidamente, a costo minore, ciò che prima esigeva un tempo abbastanza lungo di lavoro qualificato. E’ ben vero, del resto, che i traduttori hanno poche ragioni di pensare sul senso di un libro, e soprattutto, preliminarmente, di apprendere la lingua in questione, visto che quasi tutti gli autori attuali hanno essi stessi scritto con fretta così manifesta dei libri che saranno fuori moda in un tempo così breve. Perché tradurre bene ciò che era già inutile scrivere e che non sarà letto? E’ per questo aspetto della sua speciale armonia che il sistema spettacolare è perfetto: esso crolla da altri lati.
Tuttavia, questa pratica corrente della maggior parte degli editori è inadeguata nel caso de La società dello spettacolo, che interessa un pubblico del tutto diverso, per un diverso uso. Esistono, in maniera nettamente più marcata di una volta, diversi tipi di libri. Molti non vengono neppure aperti; e pochi sono ricopiati sui muri. Questi ultimi devono la loro popolarità e il loro potere di persuasione proprio al fatto che le istanze disprezzate dello spettacolo non ne parlano, o accennano di sfuggita qualche misera banalità.
Gli individui che dovranno giocare le proprie vita a partire da una certa descrizione delle forze storiche e del loro impiego desiderano, ovviamente, esaminare di persona i documenti sulla base di traduzioni rigorosamente esatte. Senza dubbio, nelle condizioni attuali di produzione ipermoltiplicata e di diffusione iperconcentrata dei libri, i titoli, nella loro quasi totalità, conoscono il successo, o più spesso l’insuccesso, solo durante le poche settimane che seguono la loro uscita. Qualunque mezza calzetta dell’editoria attuale fonda su questo la propria politica dell’arbitrio precipitoso e del fatto compiuto, che conviene abbastanza bene ai libri di cui non si parlerà che una sola volta e non importa come. Questo privilegio manca qui, ed è perfettamente inutile tradurre il mio libro in modo sommario, poiché il compito sarà sempre ricominciato da altri; e le cattive traduzioni saranno invariabilmente soppiantate da altre migliori.
Un giornalista francese che, recentemente, aveva composto un grosso volume, annunciato come l’evento in grado di rinnovare l’intero dibattito delle idee, qualche mese dopo spiegava il suo fiasco con il fatto che gli sarebbero mancati i lettori, piuttosto che le idee. Egli dichiarava quindi che siamo in una società in cui non si legge; e che se Marx pubblicasse oggi Il Capitale, andrebbe una sera a spiegare le sue intenzioni in una trasmissione letteraria della televisione, e l’indomani non se ne parlerebbe più. Questo divertente equivoco risente bene dell’ambiente d’origine. Evidentemente, se qualcuno pubblica ai giorni nostri un vero libro di critica sociale, si asterrà certamente dall’andare in televisione, o di partecipare ad altri colloqui dello stesso genere; di modo che, dieci o vent’anni dopo, se ne parlerà ancora.
A dire il vero, credo che non esista nessuno al mondo capace di interessarsi al mio libro, al di fuori di coloro che sono nemici dell’ordine sociale esistente, e che agiscono effettivamente a partire da questa situazione. La mia certezza a questo riguardo, ben fondata in teoria, è confermata dall’osservazione empirica delle rare e indigenti critiche o allusioni che esso ha suscitato fra coloro che detengono, o si stanno ancora sforzando di acquisire, l’autorità di parlare pubblicamente nello spettacolo, davanti ad altri che tacciono. Questi diversi specialisti delle apparenze di discussioni che si usa chiamare ancora, ma abusivamente, culturali o politiche, hanno necessariamente allineato la loro logica e la loro cultura a quelle del sistema che può impiegarli; non soltanto perché sono stati selezionati da esso, ma soprattutto perché sono stati istruiti mai da nient’altro.Di tutti coloro che hanno citato questo libro per riconoscergli qualche importanza, non ne ho visto finora uno solo che si sia arrischiato a dire, anche sommariamente, di che si trattasse: in effetti non si trattava per loro che di dare l’impressione di non ignorarlo. Contemporaneamente, tutti quelli che gli hanno trovato un difetto sembrano non avergliene trovati altri, poiché non ne hanno detto nient’altro. Ma ogni colta il difetto preciso aveva qualcosa di sufficiente per soddisfare il suo scopritore. L’uno aveva visto questo libro non abbordare il problema dello Stato; l’altro non tenere contro alcuno dell’esistenza della storia; un altro l’ha respinto perché elogio irrazionale e incomunicabile della pura distruzione; un altro ancora l’ha condannato quale guida segreta della condotta di tutti i governi costituiti dopo la sua apparizione. Cinquanta altri sono immediatamente pervenuti ad altrettante conclusioni singolari, nello stesso sonno della ragione. E che essi lo abbiano scritto su dei periodici, dei libri, o in pamphlet composti ad hoc, lo stesso tono dell’impotenza capricciosa è stato impiegato da tutti, in mancanza di meglio. Di contro, a mia conoscenza, è nelle fabbriche d’Italia che questo libro ha trovato, per il momento, i suoi migliori lettori. Gli operai italiani, che possono essere oggi portati come esempio ai loro compagni di tutti i Paesi per il loro assenteismo, per i loro scioperi selvaggi che nessuna concessione particolare riesce a placare, il loro lucido rifiuto del lavoro, il loro disprezzo della legge e di tutti i partiti statalisti, conoscerono abbastanza il soggetto nella pratica per aver potuto trarre profitto dalle tesi de La società dello spettacolo, anche quando non ne leggevano che delle mediocri traduzioni.
I commentatori hanno spesso fatto finta di non comprendere a quale uso poteva essere destinato un libro che non può essere classificato in alcuna delle categorie riguardanti le produzioni intellettuali che la società ancora dominante è pronta a prendere in considerazione, e che non è scritto dal punto di vista di alcuno dei mestieri specializzati che essa incoraggia. Le intenzioni dell’autore sono dunque apparse oscure. Non vi è là tuttavia niente di misterioso. Clausewitz, in La campagna del 1815 in Francia, ha osservato:
In ogni critica strategica, l’essenziale è di mettersi esattamente dal punto di vista degli attori; è vero che questo è spesso molto difficile. La grande maggioranza delle critiche strategiche scomparirebbe completamente, o si ridurrebbe a delle leggerissime distinzioni di comprensione, se gli scrittori volessero o potessero mettersi col pensiero in tutte le circostanze in cui si trovavano gli attori.
Nel 1967, volevo che l’Internazionale Situazionista avesse un libro di teoria. L’I.S. era in quel momento il gruppo estremista che più si era dato da fare per riportare la contestazione rivoluzionaria nella società moderna; ed era facile vedere che questo gruppo, avendo già imposto la propria vittoria sul terreno della critica teorica, e avendola abilmente proseguita su quello dell’agitazione pratica, si avvicinava allora al punto culminante della propria azione storica. Si trattava di fare dunque in modo che questo libro fosse presente nei sommovimenti che presto sarebbero arrivati, e che lo avrebbero trasmesso dopo di loro, al vasto seguito sovversivo cui avrebbero sicuramente dato vita.
E’ nota la tendenza forte tra gli esseri umani a ripetere inutilmente dei frammenti semplificati delle vecchie teorie rivoluzionarie, la cui usura è nascosta loro dal semplice fatto che essi non provano ad applicarle a qualche lotta effettiva per trasformare le condizioni nelle quali realmente si trovano; di modo che quasi non comprendono neppure come queste teorie si siano potute impiegare, con fortune diverse, in conflitti di altri tempi.
Malgrado ciò non vi è il minimo dubbio, per chi esamini freddamente la questione, che coloro i quali vogliono scuotere realmente una società costituita devono formulare una teoria che spieghi fondamentalmente tale società; o almeno che abbia tutta l’aria di darne una spiegazione soddisfacente. Dal momento in cui questa teoria è un po’ divulgata, a condizione che lo sia in scontri che perturbino il riposo pubblico, e anche prima che essa giunga ad essere esattamente compresa, il malcontento dovunque in sospeso sarà aggravato e inasprito, dalla semplice conoscenza vaga dell’esistenza di una condanna teorica dell’ordine delle cose. E dopo, sarà cominciando a condurre con collera la guerra della libertà che tutti i proletari potranno divenire strateghi.
Senza dubbio, una teoria generale calcolata per tale scopo deve anzitutto evitare di apparire come una teoria visibilmente falsa; e dunque non deve esporsi al rischio d’essere contraddetta dal seguito dei fatti. Ma bisogna anche ch’essa sia una teoria perfettamente inammissibile. Essa deve poter dichiarare cattivo, davanti allo stupore indignato di tutti coloro che lo trovano buono, il centro stesso del mondo esistente, avendone scoperto l’esatta natura. La teoria dello spettacolo risponde a queste due esigenze.
Il primo merito di una teoria critica esatta è di far apparire immediatamente ridicole tutte le altre. Così, nel 1968, mentre tra le correnti organizzate che, nel movimento di negazione con cui era cominciata la degenerazione delle forme di dominio di questo tempo, vennero a difendere il proprio ritardo e le proprie corte ambizioni, nessuna disponeva di un libro di teoria moderna, né riconosceva niente di moderno nel potere di classe che si trattava di rovesciare, i situazionisti furono in grado di porre in campo la sola teoria della temibile rivolta di maggio; e la sola che rendeva conto di nuove clamorose esigenze che nessuno aveva fino ad allora proclamato. Chi piange sul consenso? Noi l’abbiamo ucciso. Cosa fatta capo ha [2].
Quindici anni prima, nel 1952, quattro o cinque persone poco raccomandabili di Parigi decisero di cercare il superamento dell’arte. Risultò che, come felice conseguenza di una marcia audace lungo tale percorso, le vecchie linee di difesa che avevano spezzato le precedenti offensive della rivoluzione sociale si trovavano superate e aggirate. Si scopri a quel punto l’occasione di lanciarne un’altra. Questo superamento dell’arte non è altro che il “passaggio a nordovest” della geografia della vera vita, che era stato cosÏ spesso cercato durante più di un secolo, specialmente a partire dall’autodistruzione della poesia moderna. I precedenti tentativi, in cui tanti esploratori si erano perduti, non erano mai approdati direttamente su una tale prospettiva. E probabilmente perché avevano ancora qualcosa da bruciare della vecchia provincia artistica, e soprattutto perché la bandiera delle rivoluzioni sembrava tenuta da altre mani, più esperte. Mai però questa causa aveva subito una disfatta cosi completa e lasciato il campo di battaglia cosi deserto, come nel momento in cui noi venimmo a schierarci dalla sua parte. Credo che il richiamo di tali circostanze costituisca il miglior chiarimento che si possa apportare alle idee e allo stile de La società dello spettacolo. E a questo riguardo, se la si vuole ben leggere, si vedrebbe che i quindici anni che ho trascorso a meditare sulla rovina dello Stato, non li ho passati né a dormire né a giocare.
Non c’è una parola da cambiare a questo libro in cui, a eccezione di tre o quattro errori tipografici, nulla è stato corretto nel corso della dozzina di ristampe che ha visto in Francia. Mi lusingo d’essere uno dei rarissimi esempi contemporanei di qualcuno che ha scritto senza essere immediatamente smentito dagli avvenimenti, e non voglio dire smentito cento volte o mille volte, come gli altri, ma nemmeno una sola volta. Non dubito che la conferma che incontrano tutte le mie tesi debba continuare sino alla fine del secolo, e anche al di là. La ragione è semplice: ho compreso i fattori costitutivi dello spettacolo «nel corso del movimento e dunque anche dal loro lato effimero», vale a dire considerando l’insieme del movimento storico che ha potuto edificare questo ordine, e che ora comincia a dissolverlo. Sulla scala di questo movimento, gli undici anni che sono passati dal 1967 e dei quali ho potuto conoscere abbastanza da vicino i conflitti, non sono stati che un momento del seguito necessario di ciò che era scritto; benché, nello spettacolo stesso, siano stati riempiti dall’apparire e dal susseguirsi di sei o sette generazioni di pensatori più definitivi gli uni degli altri. Durante questo tempo, lo spettacolo non ha fatto che raggiungere più esattamente il suo concetto, e il movimento reale della sua negazione non ha fatto che espandersi per estensione e per intensità.
In effetti, era compito della stessa società spettacolare aggiungere qualcosa di cui questo libro non aveva, io credo, bisogno: delle prove e degli esempi più pesanti e più convincenti. Si è potuta vedere la falsificazione intensificarsi e scendere sino alla fabbricazione delle cose più banali, come una nebbia appiccicosa che si accumuli a livello del suolo di tutta l’esistenza quotidiana. Si è potuto veder pretendere all’assoluto, sino alla follia “telematica”, al controllo tecnico e poliziesco degli uomini e delle forze naturali, controllo i cui errori proliferano proprio allo stesso ritmo dei mezzi. Si è potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il proprio legame conflittuale con la verità e con la verosimiglianza, in modo tale da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora. L’Italia ha avuto recentemente l’occasione di contemplare questa tecnica a proposito del rapimento e della messa a morte di Aldo Moro, al punto più alto che essa abbia mai raggiunto, e che tuttavia sarà ben presto sorpassato, qui o altrove. La versione delle autorità italiane, aggravata piuttosto che migliorata da cento ritocchi successivi, e che tutti i commentatori si sono fatti un dovere di ammettere in pubblico, non è stata credibile un solo istante. La sua intenzione non era d’essere creduta, ma d’essere la sola in vetrina; e dopo d’essere dimenticata, esattamente come un cattivo libro.
Fu un’opera mitologica con grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi trasformisti diventano volpi per prendere in trappola la loro preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la sorvegliano, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare. Ci viene detto che essi hanno la fortuna di avere a che fare con la più incapace delle polizie, e che inoltre si sono potuti infiltrare senza problemi nelle sue più alte sfere. Questa spiegazione è poco dialettica. Un’organizzazione sediziosa che mettesse alcuni dei suoi membri in contatto con i servizi di sicurezza dello Stato, a meno di non averveli introdotti vari anni prima per svolgervi lealmente il loro compito in attesa che giunga una grande occasione di servirsene, dovrebbe aspettarsi che gli stessi propri manipolatori vengano a loro volta manipolati: e sarebbe dunque privata dell’olimpica assicurazione d’impunità che caratterizza il capo di stato maggiore della «brigata rossa». Ma lo Stato italiano dice di meglio, con l’approvazione unanime di coloro che lo sostengono. Esso ha pensato, come qualsiasi altro, di infiltrare degli agenti dei propri servizi speciali nelle reti terroristiche clandestine, dove è poi così facile per loro assicurarsi una rapida carriera tino alla direzione, facendo cadere in primo luogo i loro superiori, come fecero, per conto dell’Ochrana zarista, Malinowskij che ingannò anche l’astuto Lenin, o Azev che, una volta alla testa dell’organizzazione di combattimento del Partito socialista-rivoluzionario, spinse la virtù sino a far egli stesso assassinare il primo ministro Stolypin.
Una sola sventurata coincidenza è venuta ad ostacolare la buona volontà dello Stato: i suoi servizi speciali erano appena stati dissolti. Un servizio segreto, fino a quel momento, non era mai stato dissolto come, ad esempio, il carico di una petroliera gigante in acque costiere, o una frazione della produzione industriale moderna a Seveso. Conservando i propri archivi, gli informatori o l’organico degli ufficiali, cambiava semplicemente di nome. E’ così che in Italia il Sim, militari del regime fascista, così celebre suoi omicidi all’estero, era divenuto il Sid, Servizio Informazioni della difesa, sotto il regime democtatico-cristiano. D’altra parte, quando si è programmata su un calcolatore una specie di dottrina-robot della «brigata rossa», lugubre caricatura di ciò che si riterrebbe dover pensare e fare se si preconizzasse la scomparsa di questo Stato, un lapsus del calcolatore – a tal punto è vero che queste macchine dipendono dall’inconscio di coloro che le informano – ha fatto sì che venisse attribuita questa stessa sigla di Sim (che vuol dire questa volta “Stato imperialista delle multinazionali” [3]), all’unico pseudoconcetto ripetuto automaticamente dalla «brigata rossa».
Questo Sid, bagnato di sangue italiano, ha dovuto essere recentemente dissolto perché, come lo Stato confessa post festum, è esso che, dal 1969, ha eseguito direttamente – il più delle volte, ma non sempre alla dinamite – questa lunga serie di massacri che sono stati attribuiti, secondo le stagioni, agli anarchici, ai neofascisti o ai situazionisti. Ora che la «brigata rossa» fa esattamente lo stesso lavoro, e per una volta almeno con una capacità operativa molto superiore, esso non può evidentemente combatterla dato che è dissolto. In un servizio segreto degno di questo nome, la dissoluzione stessa è segreta. Non si può dunque distinguere quale proporzione degli effettivi sia stata ammessa ad un’onorevole pensione; quale sia stata assegnata alla «brigata rossa», o prestata magari allo scià d’Iran per incendiare un cinema ad Abadan; quale altra sia stata discretamente sterminata da uno Stato probabilmente indignato di apprendere che qualche volta si erano oltrepassate le sue istruzioni, e del quale si sa che non esiterà mai ad ammazzare i figli di Bruto pur di far rispettare le proprie leggi, dal momento in cui l’intransigente rifiuto ad accettare la benché minima concessione per salvare Moro ha finalmente dimostrato che esso possedeva tutte le ferme virtù della Roma repubblicana.
Giorgio Bocca, che passa per il miglior analista della stampa italiana e che fu nel 1975 la prima vittima del Rapporto veridico di Censor, trascinando subito nel suo errore tutta la nazione, o almeno lo strato qualificato che scrive sui giornali, non è stato scoraggiato dal mestiere a causa di questa disgraziata dimostrazione della sua stupidaggine. E può anche darsi che sia un bene per lui che essa sia stata provata allora da una sperimentazione così scientifica perché, altrimenti, si potrebbe essere pienamente convinti che è per venalità, o per paura, che nel maggio 1978 egli ha scritto il suo libro Moro: una tragedia italiana, nel quale si fa premura di trangugiare, senza perderne una, tutte le mistificazioni messe in circolazione, per rivomitarle dichiarandole eccellenti. Un solo istante egli è indotto ad evocare il centro della questione, ma beninteso all’inverso, quando scrive: «Oggi le cose sono cambiate; con il terrore rosso alle spalle, le frange operaie estremiste possono opporsi o tentare di opporsi alla politica sindacale. Chi ha assistito a un’assemblea operaia in una fabbrica come l’Alfa Romeo di Arese ha potuto vedere che il gruppo degli estremisti, non più di cento persone, è però in grado di stare in prima fila e di urlare accuse e insulti che il Pci deve sopportare» [4]
Che degli operai rivoluzionari insultino degli stalinisti, ottenendo il sostegno di quasi tutti i loro compagni, non c’è niente di più normale, poiché vogliono fare una rivoluzione. Non sanno essi forse, istruiti da una lunga esperienza, che la condizione preliminare è quella di scacciare gli stalinisti dalle assemblee? E’ per non aver potuto farlo che la rivoluzione fallì in Francia nel 1968 e in Portogallo nel 1975. Ciò che è insensato e odioso è di pretendere che queste «frange operaie estremiste» possano giungere a questo stadio necessario perché avrebbero, «alle spalle», dei terroristi. Al contrario, è proprio perché un gran numero di operai italiani è sfuggito all’inquadramento della polizia sindacal-stalinista che ha dovuto essere lanciata la «brigata rossa», il cui terrorismo illogico e cieco non può che dar loro fastidio; mentre i mass media coglievano l’occasione per riconoscervi senza l’ombra di un dubbio il loro distaccamento avanzato, e i loro inquietanti dirigenti.
Bocca insinua che gli stalinisti siano costretti a sopportare le ingiurie, che hanno così largamente meritato dovunque da sessant’anni in qua, perché sarebbero fisicamente minacciati da dei terroristi che l’autonomia operaia terrebbe in riserva. E’ una fesseria particolarmente ignobile perché nessuno ignora che a quella data, e anche molto oltre, la «brigata rossa» si era ben guardata dal prendere di mira gli stalinisti personalmente. Qualunque sia l’immagine che vuole offrire di se stessa, essa non sceglie a caso i periodi di attività, né a piacere le sue vittime.
In tale clima, si constata inevitabilmente l’allargamento di uno spazio periferico di piccolo terrorismo sincero, più o meno sorvegliato e tollerato momentaneamente, come un vivaio in cui si può sempre pescare su ordinazione qualche colpevole da mostrare su un vassoio; ma la force de frappe degli interventi centrali non poteva che essere composta da professionisti, come conferma ogni dettaglio del loro stile.
Il capitalismo italiano, e il suo personale governativo con lui, è molto diviso sulla questione, in effetti vitale ed eminentemente incerta, dell’impiego degli stalinisti. Certi settori moderni del grande capitale privato sono o sono stati risolutamente a favore; e altri, che sono appoggiati da molti degli amministratori del capitale delle imprese semistatali, sono più ostili. Il personale statale elevato gode di una larga autonomia di manovra, perché le decisioni del capitano prevalgono su quelle dell’armatore, quando la nave affonda, ma è esso stesso diviso. L’avvenire di ogni clan dipende dalla maniera in cui saprà imporre le proprie ragioni, provandole nella pratica. Moro credeva nel «compromesso storico», vaie a dire nella capacità degli stalinisti di spezzare finalmente il movimento degli operai rivoluzionari. Un’altra tendenza, quella che è per il momento in condizione di controllare i comandanti della «brigata rossa», non vi credeva; o almeno riteneva che gli stalinisti, per i deboli servizi che possono rendere e che renderanno in ogni modo, non debbano essere trattati con troppo riguardo, e che bisogna bastonarli più duramente perché non diventino troppo insolenti.
Si è visto che quest’analisi non era priva di valore poiché, rapito Moro a guisa di affronto inaugurale al «compromesso storico» infine autenticato da un atto parlamentare, il partito stalinista ha continuato a fingere di credere all’indipendenza della «brigata rossa». Si è tenuto il prigioniero in vita finché si è creduto di poter prolungare l’umiliazione e l’imbarazzo degli amici, che dovevano subire il ricatto facendo nobilmente finta di non comprendere che cosa si aspettassero da loro certi sconosciuti barbari. Dopodiché la si è ugualmente fatta finita non appena gli stalinisti hanno mostrato i denti, facendo pubblicamente allusione a delle oscure manovre: e Moro è morto deluso.
In effetti, la «brigata rossa» ha un’altra funzione, di interesse più generale, che è di sconcertare o screditare i proletari che si ergono realmente contro lo Stato, e forse un giorno di eliminarne qualcuno dei più pericolosi. Quest’ultima funzione gli stalinisti l’approvano, poiché essa li aiuta nel loro faticoso compito. Del lato invece che danneggia loro stessi, limitano gli eccessi con delle insinuazioni velate in pubblico nei momenti cruciali, e con minacce precise e urlate nei loro costanti negoziati intimi con il potere statale. La loro arma di dissuasione è che essi potrebbero improvvisamente dire tutto ciò che sanno della «brigata rossa», fin dal principio. Ma nessuno ignora che essi non possono usare quest’arma senza infrangere il «compromesso storico»; e che dunque sperano sinceramente di potersi mantenere al riguardo tanto discreti quanto lo furono, a suo tempo, sulle imprese del Sid propriamente detto. Cosa diverrebbero gli stalinisti in una rivoluzione? Quindi si continua a tenerli sotto pressione, ma non troppo. Quando, dieci mesi dopo il rapimento di Moro, la stessa invincibile «brigata rossa» abbatte per la prima volta un sindacalista stalinista, il partito cosiddetto comunista reagisce immediatamente, ma sul solo terreno delle forme protocollari, minacciando i suoi alleati di obbligarli a considerarlo ormai come un partito, certo sempre leale e costruttivo, ma che sarà a fianco della maggioranza, e non più al loro fianco nella maggioranza.
Come il barile sa sempre di aringa, cosi uno stalinista sarà sempre nel proprio elemento ovunque si respiri un odore di crimine occulto di Stato. Perché questi si offenderebbero per l’atmosfera delle discussioni al vertice dello Stato italiano, con il coltello nella manica e la bomba sotto il tavolo? Non era forse nello stesso stile che si regolavano le controversie fra, per esempio, Kruscev e Beria, Kadar e Nagy, Mao e Lin Piao? E d’altra parte i dirigenti dello stalinismo italiano hanno fatto anch’essi i macellai nella loro gioventù, al tempo del loro primo compromesso storico, quando si erano incaricati, insieme agli altri impiegati del «Comintern», della controrivoluzione al servizio della Repubblica democratica spagnola nel 1937. All’epoca fu la loro «brigata rossa» che rapì Andrés Nin, e lo uccise in un’altra prigione clandestina.
Queste tristi verità numerosi italiani le conoscono da molto vicino, e altri ben più numerosi se ne sono immediatamente resi conto. Ma esse non sono rese pubbliche da nessuna parte, perché gli uni sono privati dei mezzi per farlo, e gli altri della voglia. E’ a questo livello dell’analisi che è fondato parlare di una politica «spettacolare» del terrorismo, e non, come ripete volgarmente la finezza subalterna di tanti giornalisti o professori, perché dei terroristi siano talvolta mossi dal desiderio di far parlare di sé. L’Italia riassume le contraddizioni sociali del mondo intero e tenta, nel modo che si sa, di amalgamare in un solo paese la Santa Alleanza repressiva del potere di classe, borghese e burocratico-totalitario, che già funziona apertamente su tutta la superficie della Terra, nella solidarietà economica e poliziesca di tutti gli Stati: sebbene, anche lì, non senza qualche discussione e qualche regolamento di conti all’italiana. Essendo per il momento il paese più avanzato nello slittamento verso la rivoluzione proletaria, l’Italia è anche il laboratorio più moderno della controrivoluzione internazionale. Gli altri governi sorti dalla vecchia democrazia borghese prespettacolare guardano con ammirazione al governo italiano per l’impassibilità che esso sa conservare al centro tumultuoso di tutte le degradazioni, e per la tranquilla dignità con la quale siede nel fango. E’ una lezione che dovranno applicare a casa propria per un lungo periodo.
In effetti, i governi, e le numerose competenze subordinate che li assecondano, tendono dappertutto a divenire più modesti. Essi si accontentano già di far passare per una tranquilla e abitudinaria pratica degli affari correnti la loro gestione, funambolesca e spaventata, di un processo che diviene senza posa più insolito, e che essi disperano di poter dominare. E come loro – l’aria del tempo apportando tutto ciò – anche la merce spettacolare è stata portata a un sorprendente rovesciamento del suo tipo di giustificazione menzognera. Essa presentava come beni straordinari, come la chiave di un’esistenza superiore, e magari anche d’élite, cose del tutto normali e banali: un’automobile, delle scarpe, una laurea in sociologia. Essa è oggi costretta a presentare come normali e familiari cose che sono divenute, di fatto, del tutto straordinarie.
Questo è del pane, del vino, un pomodoro, un uovo, una casa, una città? Certamente no, poiché una concatenazione di trasformazioni interne, a breve termine economicamente utile a coloro che detengono i mezzi di produzione, ne ha conservato il nome e buona parte dell’apparenza, ma ritirandone il gusto e il contenuto. Ciò nonostante si assicura che i vari beni consumabili rispondano indiscutibilmente a queste denominazioni tradizionali e si presenta come prova il fatto che non esiste più niente d’altro e che dunque non c’è paragone possibile. Come si è fatto in modo che molta poca gente sappia dove trovare cose autentiche là dove ancora esistono, così il falso può rilevare legalmente il nome del vero che si è estinto. E’ lo stesso principio che regola l’alimentazione o l’habitat del popolo e si estende dappertutto, fino ai libri o alle ultime apparenze del dibattito democratico che ci si degna di mostrargli.
La contraddizione essenziale del dominio spettacolare in crisi è che esso ha fallito nel punto in cui era il più forte, in certe piatte soddisfazioni materiali che escludevano ben altre soddisfazioni, ma che si presumevano sufficienti per ottenere l’adesione reiterata delle masse di produttori-consumatori. Ed è precisamente questa soddisfazione materiale che esso ha inquinato e ha cessato di fornire. La società dello spettacolo era cominciata ovunque nella costrizione, nell’inganno, nel sangue; ma essa prometteva un seguito felice. Credeva di essere amata. Ora non promette più nulla. Essa non dice più: «Ciò che appare è buono, ciò che è buono appare». Dice semplicemente: «E’ così». Essa riconosce francamente di non essere più, per l’essenziale, riformabile; benché il cambiamento costituisca la sua stessa natura, per tramutare in peggio ogni cosa particolare. Essa ha perduto tutte le illusioni generali su se stessa.
Tutti gli esperti del potere, e tutti i loro calcolatori, sono riuniti in permanenti consultazioni pluridisciplinari, se non per trovare il modo di guarire la società malata, almeno per conservare fino al limite del possibile, anche in coma irreversibile, un’apparenza di sopravvivenza, come per Franco e Boumedienne. Un vecchio canto popolare toscano conclude in modo più rapido e più saggio: La vita non è la morte,/e la morte non è la vita./La canzone è già finita.
Chi leggerà attentamente questo libro vedrà che esso non dà alcuna sorta di assicurazioni sulla vittoria della rivoluzione, né sulla durata delle sue operazioni, né sulle aspre vie che dovrà percorrere, e meno ancora sulla sua capacità, talora vantata alla leggera, di dare a ciascuno la perfetta felicità. Meno di ogni altro, il mio punto di vista, che è storico e strategico, può ritenere che la vita debba essere, per il solo fatto che questo ci sarebbe gradito, un idillio senza pena e senza male; né dunque che la malvagità di qualche proprietario e qualche capo crei da sola l’infelicità di tutti gli altri. Ciascuno è figlio delle proprie opere, e come la passività si fa il letto, così dorme, li più grande risultato della decomposizione catastrofica della società di classe è che, per la prima volta nella storia, il vecchio problema di sapere se gli uomini, nella loro massa, amino realmente la libertà, è ormai superato: perché ora si troveranno costretti ad amarla.
E’ giusto riconoscere la difficoltà e l’immensità dei compiti della rivoluzione che vuole instaurare e mantenere una società senza classi. Essa può abbastanza semplicemente cominciare ovunque, là dove delle assemblee proletarie autonome, non riconoscendo al di fuori di se stesse alcuna autorità o proprietà di chicchessia, ponendo la propria volontà al di sopra di tutte le leggi e di tutte le specializzazioni, aboliranno la separazione degli individui, l’economia mercantile, lo Stato. Ma essa non trionferà che imponendosi universalmente, senza lasciare una parcella di territorio ad alcuna forma residua di società alienata.
Allora si rivedrà un’Atene o una Firenze da cui nessuno sarà respinto, estesa sino ai confini del mondo; e che, avendo abbattuto tutti i propri nemici, potrà infine dedicarsi gioiosamente alle vere divisioni e alle rivalità senza fine della vita storica.
Chi può ancora credere a qualche esito meno radicalmente realistico? Sotto ogni risultato e ogni progetto di un presente infelice e ridicolo, si vede ormai iscritto il Mane, Tekel, Fares [5] che annuncia la caduta infallibile di tutte le città d’illusione.
I giorni di questa società sono contati; le sue ragioni e i suoi meriti sono stati pesati e trovati leggeri; i suoi abitanti si sono divisi in due partiti, uno dei quali vuole che essa scompaia.
1. CAPITOLO
LA DIVISIONE PERFETTA
E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.
(Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’essenza del Cristianesimo).
1. L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione.
2. Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un unico insieme, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si dispiega nella propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto di sola contemplazione. La specializzazione delle immagini del mondo si ritrova, realizzata, nel mondo dell’immagine resa autonoma, in cui il mentitore mente a se stesso. Lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente.
3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza; e l’unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione generalizzata.
4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini.
5. Lo spettacolo non può essere compreso come l’abuso di un mondo visivo, il prodotto delle tecniche di diffusione massiva di immagini. Esso è piuttosto una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata.
6. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente. Non è un supplemento del mondo reale, il suo sovrapposto ornamento. Esso è il cuore dell’irrealismo della società reale. Nell’insieme delle sue forme particolari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto dei divertimenti, lo spettacolo costituisce il modello presente della vita socialmente dominante. E’ l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo ne è corollario. Forma e contenuto dello spettacolo sono ambedue l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
7. La separazione fa parte essa stessa dell’unità del mondo, della prassi sociale globale, che si è scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si pone lo spettacolo autonomo, è anche la totalità reale che contiene lo spettacolo. Ma la scissione in questa totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come il suo scopo. Il linguaggio dello spettacolo è strutturato con i segni della produzione imperante, che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.
8. Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in se stessa l’ordine spettacolare, offrendogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio all’opposto: la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l’essenza e il sostegno della società esistente.
9. Nel mondo falsamente rovesciato, il vero è un momento del falso.
10. Il concetto di spettacolo unifica e spiega una gran diversità di fenomeni apparenti. Le loro diversità e i loro contrasti sono le apparenze di quest’apparenza socialmente organizzata che dev’essere essa stessa riconosciuta nella propria verità generale. Considerato secondo i suoi veri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come semplice apparenza. Ma la critica, che coglie la verità dello spettacolo, lo scopre come la negazione visibile della vita; come negazione della vita che è divenuta visibile.
11. Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni e le forze che tendono alla sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inseparabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, in quanto si passa sul terreno metodologico di questa stessa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo. E’ il momento storico che ci contiene.
12. Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza.
13. Il carattere fondamentalmente tautologico dello spettacolo, deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono nel contempo anche i suoi scopi. E’ il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna. Esso ricopre tutta la superficie del mondo e si bagna indefinitamente nella propria gloria.
14. La società basata sull’industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, essa è fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso.
15. In quanto indispensabile parure degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, in quanto settore economico avanzato, che manipola direttamente una crescente moltitudine di immagini-oggetto, lo spettacolo è la principale produzione della società attuale.
16. Lo spettacolo sottomette gli uomini viventi nella misura in cui l’economia li ha totalmente sottomessi. Esso non è altro che l’economia sviluppantesi per se stessa. E’ il riflesso fedele della produzione delle cose e l’oggettivazione infedele dei produttori.
17. La prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva originato, nella definizione di ogni realizzazione umana, un’evidente degradazione dell’essere in avere. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia, conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni “avere” effettivo deve desumere il proprio prestigio immediato e la propria funzione ultima. Nello stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale da essa plasmata. Le è permesso di apparire solo in ciò che essa non è.
18. Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente percepibile, trova normalmente nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto; il senso più astratto, più mistificabile, corrisponde all’astrazione generalizzata della società attuale. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice sguardo, anche se combinato con l’ascolto. Esso è ciò che sfugge all’attività degli uomini, alla riconsiderazione e alla correzione della loro opera. E’ il contrario del dialogo. Dovunque c’è una rappresentazione indipendente, là lo spettacolo si ricostituisce.
19. Lo spettacolo è l’erede di tutta la debolezza del progetto filosofico occidentale, che costituì pure una comprensione dell’attività, dominata dalle categorie del vedere; così come si fonda sull’incessante dispiegamento della precisa razionalità tecnica che è derivata da questo pensiero. Esso non realizza la filosofia, filosofizza la realtà. E’ la vita concreta di tutti che si è degradata in un universo speculativo.
20. La filosofia, in quanto potere del pensiero separato, e pensiero del potere separato, non ha mai potuto da se stessa andare oltre la teologia. Lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa. La tecnica spettacolare non ha dissipato le nubi religiose, in cui gli uomini avevano collocato i propri poteri distaccati da se stessi: essa li ha semplicemente ricongiunti a una base terrena; così è la vita più terrena che diviene opaca e irrespirabile. Essa non rigetta più nel cielo, ma alberga in sé il proprio rifiuto, il proprio fallace paradiso. Lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri umani in un al di là; scissione realizzata all’interno dell’uomo.
21. Più la necessità viene ad essere socialmente sognata, più il sogno diviene necessario. Lo spettacolo è il cattivo sogno della moderna società incatenata, che non esprime in definitiva se non il proprio desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sonno.
22. Il fatto che la potenza pratica della società moderna si sia staccata da se stessa, e si sia edificata un impero indipendente nello spettacolo, non può spiegarsi che con quest’altro fatto, che questa potente pratica continuava a mancare di coesione ed era rimasta in contraddizione con se stessa.
23. E’ la più vecchia specializzazione sociale, la specializzazione del potere, che è alla radice dello spettacolo. Lo spettacolo è quindi un’attività specializzata che parla per l’insieme delle altre. E’ la rappresentazione diplomatica della società gerarchica innanzi a se stessa, dove ogni altra parola è bandita. Il più moderno qui è anche il più arcaico.
24. Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E’ l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza. L’apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra uomini e tra classi: una seconda natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali. Ma lo spettacolo non è un prodotto necessario dello sviluppo tecnico visto come sviluppo naturale. La società dello spettacolo è al contrario la forma che sceglie il proprio contenuto tecnico. Se lo spettacolo, esaminato sotto l’aspetto ristretto dei “mezzi di comunicazione di massa”, che sono la sua manifestazione superficiale più soggiogante, può sembrare invadere la società come una semplice strumentazione, questa non è concretamente nulla di neutro, ma la strumentazione stessa è funzionale al suo auto-movimento totale. Se i bisogni sociali dell’epoca, in cui si sviluppano simili tecniche, non possono trovare soddisfazione se non tramite la loro mediazione, se l’amministrazione di questa società e ogni contatto fra gli uomini non possono più esercitarsi se non mediante questa potenza di comunicazione istantanea, è perché questa “comunicazione” è essenzialmente unilaterale; di modo che la sua concentrazione consente di accumulare nelle mani dell’amministrazione del sistema esistente i mezzi che gli permettono di continuare questa amministrazione determinata. La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, vale a dire dalla forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe.
25. La separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo. L’istituzionalizzazione della divisione sociale del lavoro, la formazione delle classi avevano elevato una prima contemplazione sacra, l’ordine mitico di cui ogni potere si ammanta fin dalle proprie origini. Il sacro ha giustificato l’ordinamento cosmico e ontologico che corrispondeva agli interessi dei padroni, ha spiegato e abbellito ciò che la società non poteva fare. Ogni potere separato è dunque spettacolare, ma l’adesione di tutti a una simile immagine immobile non significava altro che il comune riconoscimento di un prolungamento immaginario alla povertà dell’attività sociale reale, ancora largamente avvertita come una condizione unitaria. Lo spettacolo moderno al contrario esprime ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si oppone in modo assoluto al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni d’esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le sue regole: si tratta di uno pseudo-sacro. Esso mostra ciò che è: la potenza separata sviluppatasi in se stessa, nella crescita della produttività realizzata mediante il raffinamento incessante della divisione del lavoro nella parcellizzazione dei gesti, allora dominati dal movimento indipendente delle macchine, al lavoro per un mercato sempre più esteso. Ogni comunità e ogni senso critico si sono dissolti nel corso di questo movimento, nel quale le forze che hanno potuto crescere separandosi non si sono ancora ritrovate.
26. Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario dell’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il progresso dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo della direzione del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo.
27. Per la riuscita stessa della produzione separata in quanto produzione del separato, l’esperienza fondamentale, legata nelle società primitive a un lavoro principale, sta spostandosi al polo dello sviluppo del sistema, verso il non-lavoro, l’inattività. Ma questa inattività non è per nulla liberata dall’attività produttiva: dipende da essa, è una sottomissione inquieta e ammirativa alle necessità e ai risultati della produzione: è essa stessa un prodotto della sua razionalità. Non ci può essere libertà al di fuori dell’attività, e nell’ambito dello spettacolo ogni attività è negata, esattamente come l’attività reale è stata integralmente captata per l’edificazione globale di questo risultato. Così l’attuale “liberazione dal lavoro”, l’aumento dei divertimenti, non costituiscono in alcun modo liberazione nel lavoro, né liberazione di un mondo modellato da questo lavoro. Nulla dell’attività rubata nel lavoro può ritrovarsi nella sottomissione al suo risultato.
28. Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare dell’isolamento. L’isolamento fonda la tecnica, e il processo tecnico isola a sua volta. Dall’automobile alla televisione, tutti i beni selezionati dal sistema spettacolare sono anche le sue armi per il rafforzamento costante delle condizioni d’isolamento delle “folle solitarie”. Lo spettacolo ritrova sempre più concretamente i propri presupposti.
29. L’origine dello spettacolo è la perdita dell’unità del mondo; e l’espansione gigantesca dello spettacolo moderno esprime la totalità di questa perdita: l’astrazione di ogni lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo di essere concreto è giustamente l’astrazione. Nello spettacolo, una parte del mondo si rappresenta davanti al mondo, e gli è superiore. Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che lega gli spettatori non è che un rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato ma lo riunisce in quanto separato.
30. L’alienazione spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della propria attività incosciente) si esprime così: più esso contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo, in rapporto all’uomo agente, si manifesta nel fatto che i suoi gesti non sono più suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. Questo perché lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte, perché lo spettacolo è dappertutto.
31. Il lavoratore non produce più se stesso, egli produce una potenza indipendente. Il successo di questa produzione, la sua abbondanza, ritorna al produttore come abbondanza dell’espropriazione. Tutto il tempo e lo spazio del suo mondo gli divengono estranei con l’accumulazione dei suoi prodotti alienati. Lo spettacolo è la mappa di questo nuovo mondo, mappa che copre esattamente lo spazio del suo territorio. Le forze stesse che ci sono sfuggite si mostrano a noi in tuta la loro potenza.
32. Lo spettacolo nella società corrisponde a una fabbricazione concreta dell’alienazione. L’espansione economica è principalmente l’espansione di questa produzione industriale precisa. Ciò che cresce con l’economia, muovendosi autonomamente per se stessa, non può essere che l’alienazione che era propriamente insita nel suo nucleo originario.
33. L’uomo separato dal proprio prodotto sempre più potentemente produce esso stesso tutti i dettagli del proprio mondo. Quanto più la vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla propria vita.
34. Lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.
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