Parigi, Maggio 1994
La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare “dolce” e quasi invisibile. E’ una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni [umane]. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie la relazione pedagogica è vista come un’azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo ad elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. E’ una visione non falsa, ma che maschera [l’aspetto di violenza]. [La relazione pedagogica, per quanto possa] essere attenta alle attese del ricevente, implica un’imposizione arbitraria di un arbitrio culturale. Basti paragonare, per esempio – come si sta incominciando a fare oggi- gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede allora che il Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi [nazionali] di insegnamento impone [ai discenti] è estremamente diverso; e una parte dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all’epoca della loro prima iniziazione, ad una certa arbitrarietà culturale. E’ a questo proposito che ho elaborato la nozione di “violenza simbolica”, la quale mi è apparsa importante…
D. A proposito della filosofia, può darci degli esempi di diversità da paese a paese? Evidentemente, il fatto che ogni paese abbia i suoi filosofi preferiti – come i suoi scrittori o musicisti preferiti – mi pare alquanto normale e banale. In che senso le particolarità culturali nazionali si traducono in una violenza sugli allievi?
[Le particolarità nazionali] si traducono nel fatto che gli allievi ricevono con il crisma della necessità, universalità e quindi legittimità qualcosa che invece è particolare e storicamente condizionato. La nozione di violenza simbolica diventa importante quando essa legittima appunto questo qualcosa di particolare e di storicamente condizionato. Agli allievi viene quindi mutilata la loro coscienza, le loro conoscenze, ecc.: e questa mutilazione, siccome non appare in quanto tale, proprio in quanto è disconosciuta viene tacitamente riconosciuta. Quei ragazzi e ragazze credono di accedere alla filosofia nella sua universalità, mentre accedono ad una sua forma del tutto particolare. Si potrebbe andare anche oltre. E poi, un professore particolare preleverà, all’ interno di questo Pantheon costituito su piano nazionale, questo o quel filosofo, in funzione, spesso, del tipo di posizione che egli occupa nello spazio filosofico, quindi del tipo di filosofia che ha ricevuto, e con il quale è legato strettamente, ecc. Ecco l’ esempio.
Detto questo, mi rendo conto che il mio discorso è davvero molto rozzo, e molto generale, per cui potrebbe apparire un po’ riduttivo e semplicista. Ma possiamo entrare anche più nei dettagli. Ad esempio, prendiamo il pensiero di Austin.
D. Austin, il filosofo inglese del 900…
Bisogna dirne qualcosa per presentarlo… Sì, il filosofo inglese. Austin era – ed è, credo – uno dei filosofi più importanti della contemporaneità. Egli fu presentato in Francia non molto tempo fa, appena quindici anni or sono, con una prefazione nella quale il presentatore si scusava di presentare un autore così triviale – se ovviamente filtrato attraverso i canoni della filosofia germanica, che erano dominanti nell’insegnamento francese. Austin, insomma, appariva un po’ pedestre, e tutte le raffinatezze del pensiero austiniano – che sono spesso delle civetterie di Cambridge o di Oxford – sfuggivano ai lettori francesi. Del resto oggi Austin è diventato una moda…
D. Una moda in Francia, suppongo.
In Francia, certo. Ecco quindi un esempio. Allo stesso tempo, molte conquiste del pensiero universale non sono cumulabili. E perciò si continuano ad opporre le filosofie continentali e le filosofie [anglosassoni]… Si tratta solo di un piccolo esempio, e bisognerebbe sviluppare di più questo tema comparativo. Quindi, penso che il sistema educativo – come altre istanze, tipo le istanze statuali, ecc. – eserciti sulle persone che gli sono affidate delle forme di violenza che possiamo chiamare dolci, impercettibili, insensibili, infinitesimali: esse consistono nell’ imporre, per esempio, certe categorie del pensiero. Molto tempo fa scrissi un articolo, non molto buono a dire il vero, si tratta di un lavoro giovanile. Ma l’intuizione centrale di quell’articolo era abbastanza vera, credo. Si chiamava Sistemi di insegnamento e sistemi di pensiero. Qui dicevo grosso modo quel che Durkheim e Mauss dicevano a proposito delle forme primitive di classificazione nelle società primitive, [accade anche oggi]. Ricordavo quel che anche Lévi-Strauss evoca, molto rapidamente, nell’Introduzione a Il pensiero selvaggio (oppure in qualche altro suo libro, ora non ricordo bene): nel sistema di insegnamento nel quale egli era stato formato, gli avevano insegnato a fare delle “dissertations”, dei temi, in tre punti. Penso che sia la stessa cosa oggi. Nelle nostre società differenziate, il sistema scolastico è uno dei luoghi dove si trasmettono le forme di classificazione, i princìpi classificatori, le tassonomie – e le tassonomie dei filosofi – i concetti che usiamo per classificarli -uno empirista, uno positivista, ecc. E queste tassonomie diventano delle strutture mentali attraverso le quali, ovviamente, percepiamo il mondo intellettuale per il quale spesso esse sono state formate, ma anche il mondo sociale. Questo io chiamo violenza simbolica: vale a dire l’inculcazione di forme mentali, di strutture mentali arbitrarie, storiche – l’inculcazione che plasma, in qualche modo, gli spiriti e che li rende, poi, disponibili ad effetti di imposizione fondati sulla riattivazione di queste categorie. Tutto questo appare alquanto astratto, ma lo dirò più concretamente, prendendo le mosse da un esempio. In fondo la violenza simbolica è una violenza che potremmo chiamare cognitiva: è una violenza che può funzionare solo appoggiandosi sulle strutture cognitive di chi la subisce.
D. Dunque, appoggiandosi sul sapere di chi subisce?
Sì, proprio cosí. Il problema è: “Che cosa sono queste strutture cognitive?”. Si potrebbe dire che è una violenza che si esercita con la complicità della coscienza di chi la subisce. Allora, secondo me, è la parola “coscienza” ad essere di troppo. E cioè, se, per esempio, dico “la forma per eccellenza della violenza simbolica è la dominazione maschile”, a quel momento si sarà indotti a dire “ma lei sta rimproverando la vittima”.
D. Parli di questo…
Dunque, parlare di coscienza mi pare pericoloso, nella misura in cui si può pensare che la vittima della violenza simbolica abdichi coscientemente alla propria libertà di dissidenza.
D. Lei si sta riferendo alla donna, evidentemente.
Certo. Mentre, in realtà, penso che la violenza simbolica si eserciti con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, che sono delle strutture profondamente incorporate, le quali – per esempio, nel caso della dominazione maschile – si apprendono attraverso la maniera di comportarsi, la maniera di sedersi – gli uomini non si siedono come le donne, per esempio. Ci sono molti studi di questo tipo: sulle maniere di parlare, sulle maniere di gesticolare, sulle maniere di guardare [a seconda dei sessi, e dei ceti sociali]. Nella maggior parte delle società, si insegna alle donne ad abbassare gli occhi quando sono guardate, per esempio. Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l’alto e il basso, tra il diritto e il curvo. Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell’onore delle società mediterranee si riassume nella parola “diritto” o “dritto”: “tieniti dritto” vuol dire “sii un uomo d’ onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel viso”; la parola “fronte” è assolutamente centrale, come in “far fronte a”. In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei principi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche: le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell’ ordine maschile, ecc. Dunque, è sempre grazie a questa sorta di complicità [che l’ ordine si impone]…
D. Complicità tra l’ uomo e la donna, anche?
Sì. Allora, a proposito della complicità, siamo talmente abituati a pensare in una logica della coscienza invece di pensare a logiche di disposizione, che… Invece, metto in gioco una filosofia disposizionale.
D. Coscienza in che senso? Forse lei sta pensando a certi testi femministi, i quali dicono che per sfuggire alla violenza simbolica maschile le donne devono prendere coscienza della loro inferiorità, della loro sottomissione. In apparenza lei contesta questa idea secondo cui la soluzione della questione della violenza simbolica consisterebbe in una presa di coscienza delle donne? E in che senso?
Proprio così. Penso che la nozione di “presa di coscienza” non sia stata oggetto di sufficiente riflessione, ed è abbastanza comune in un certo tipo di femminismo. E’ vero che un altro tipo di femminismo si avvicina maggiormente alle analisi da me proposte e alla tradizione marxista… Insomma, questa nozione di presa di coscienza dal mio punto di vista è molto ingenua, in quanto lascia supporre che i dominati – si tratti dei proletari nella tradizione marxista o delle donne nella tradizione femminista – potrebbero liberarsi dalla dominazione attraverso una presa di coscienza dei meccanismi della dominazione. Mentre in realtà questi meccanismi di dominazione sono, allo stesso tempo, nell’oggettività (sotto forma di differenziazione nella divisione del lavoro, ecc.), ma sono anche in quel che possiamo chiamare la soggettività: nelle strutture mentali (sotto forma, appunto, di categorie di percezione, di valutazione, ecc.). Queste categorie di percezione e di valutazione sono aldilà o aldiquà, poco importa, della presa di coscienza. In fondo la dominazione maschile è una costrizione attraverso il corpo: la dominazione è fatta di forme o catene logico-pratiche, delle disposizioni corporee che sono in fondo dell’ ordine di quel che la filosofia classica cartesiana includeva sotto la parola “passione”; vale a dire che le disposizioni sono maniere di essere permanenti, inscritte in noi attraverso l’ apprendimento, attraverso le ingiunzioni insensibili del mondo sociale, della famiglia, ecc., e molto difficili da trasformare.
D. Si tratta di quel che i greci chiamavano ethos ed ethoi, vale a dire i caratteri?
Sì, ethos allora. Ma io direi piuttosto che si tratta dell’exis nella tradizione aristotelica, o dell’habitus nella tradizione tomista. Habitus è la traduzione [latina] dell’exis aristotelica. Lo dico per ricordare che si tratta di qualcosa di acquisito: exis viene da echein, avere; habeo è qualcosa di acquisito attraverso l’apprendimento, quindi qualcosa di costituito storicamente; il che implica che è storicamente decostituibile. Infatti, qualcosa di storicamente costituito può sempre essere decostituito, trasformato dalla storia. Semplicemente si opera un lavoro storico, e questo non può operarsi attraverso il miracolo di una presa di coscienza. Una cosa anche importante per differenziare questa nozione di violenza simbolica dal semplice effetto di imposizione, per esempio quando si parla dell’influenza dei media si pensa in maniera quasi magica. E’ vero che la violenza simbolica è una violenza di tipo magico…
D. Secondo lei i media esercitano una violenza simbolica? E la esercitano tutti i media?
Sì. E’ una cosa complicata. Penso che si possa capire l’azione dei media unicamente nella logica della violenza simbolica. E cioè, i media esercitano un effetto proporzionato alle loro capacità di manipolare quelle strutture precostituite nella mente delle persone. Allora, uno dei problemi è sapere che queste strutture precostituite hanno delle condizioni sociali di possibilità: esse sono costituite, alla lunga, da tutta una serie di azioni. C’ è un lavoro di fabbricazione delle categorie mentali, e allo stesso tempo ci può essere un lavoro di decostruzione, di trasformazione di queste categorie. Per questo la nozione di presa di coscienza è così inadeguata.
Prendo un esempio semplice, tra gli esempi classici di Austin: quello di un ufficiale che dà un ordine ad un soldato. E’ una cosa estremamente misteriosa. Perché qualcuno obbedisce ad un ordine? Dal momento che ci si pone la domanda, si vede bene che quel che sta dietro all’esecuzione di un ordine è l’ordine militare, è la disciplina. Ma la disciplina è un concetto molto molto esterno, molti sistemi sociali fanno a meno della disciplina. Le forme più potenti di dominazione sono dominazioni senza disciplina, ed è il caso, per esempio, dell’ordine familiare, dell’ordine domestico, è il caso dell’ordine religioso, almeno in gran parte… Certo, abbiamo [la disciplina] di Loyola. C’è disciplina [anche nella religione], ma una parte considerevole del funzionamento di un ordine religioso si fa sulla base di disposizioni dell’habitus religioso. La questione diventa dunque di sapere come questo ordine militare incorporato, questa sottomissione che rende possibile l’obbedienza immediata, sono costituiti; in altri termini, come sono fabbricate le disposizioni permanenti alla sottomissione. Allora, per esempio, per capire le disposizioni femminili alla sottomissione, bisogna prendere in conto l’insieme dell’ordine sociale strutturato sulla divisione maschile-femminile, che è pieno di ingiunzioni, di richiami all’ ordine.
D. Perché le donne sono sottomesse in quasi tutte le società umane a noi note, salvo forse in alcune eccezioni di società matriarcali? Secondo lei, c’è a questo una ragione sociologica, o biologica, o di altro tipo?
Questo è un problema davvero complicato. Di fatto, è vero, constatiamo che praticamente in tutte le società le donne sono nella posizione di dominate, e che la dominazione che esse subiscono è tipicamente illustrativa di quel che chiamo violenza simbolica. Ma una delle ragioni, mi pare, è [connessa a] quel che chiamo il mercato dei beni simbolici, vale a dire al mercato dove circola un genere di beni che hanno valore soltanto per persone che abbiano certe categorie di percezione per apprezzarli. Prendo l’esempio dell’opera d’arte: l’opera d’ arte è un oggetto grezzo per chiunque non abbia le categorie di percezione [adeguate]. Abbiamo dei bellissimi esempi…
D. Lei dice “grezzo”. Ci può dire perché? Qualcuno potrebbe essere un po’ sorpreso da questo termine a proposito dell’arte.
Sì, prendo un esempio semplicissimo. Un mio amico, Dario Gamboni, ha fatto uno studio aneddotico, ma allo stesso tempo rivelatore. Potremmo prendere anche le analisi di [un filosofo], Danto; in verità Danto non ha inventato la luna, non fa che leggere -come fanno spesso i filosofi- quel che i sociologi hanno detto da tempo; ma la cosa diventa filosofica solo quando viene ripresa da un filosofo; e questo dovrebbe far riflettere su una forma di violenza simbolica legittima [dei filosofi sui sociologi]. Ma l’esempio dell’ iconoclasmo che sto per citare è più interessante. Si tratta di una cittadina della Svizzera, la cui municipalità aveva avuto l’ idea di esporre nei giardini pubblici degli oggetti d’ arte moderna di avanguardia. Un giorno degli spazzini hanno portato via un oggetto d’arte moderna prendendolo per un rifiuto, e l’hanno sbattuto nell’immondizia. Questo è evidentemente un caso-limite. Allora Gamboni ha analizzato come le cose si sono svolte, chi ha preso posizione pro, chi ha preso posizione contro. Avevamo là un caso estremo di scarto tra l’oggetto in quanto costruito in un universo dove circolano degli agenti che hanno categorie di percezione capaci di costituire questi oggetti come oggetti d’ arte, e gli universi sociali ordinari, dove ci sono anche persone per le quali, in assenza di categorie di percezione adeguate, quell’ oggetto ridiventa un oggetto grezzo, un oggetto qualsiasi.
D. Certe persone – le quali sono in linea di principio, suppongo, persone di classe sociale più bassa – non capiscono le forme di avanguardia. In che senso lei può dire che queste persone allora sono dominate?
Perché si potrebbe dire il contrario. Per esempio, in Italia ci sono molti canali televisivi che programmano degli spettacoli commerciali tradizionali molto seguiti, e questo ne fa dei canali molto potenti; mentre i programmi di avanguardia e di élite sono molto poco seguiti – come ARTE in Francia e in Germania – quei canali sono quindi deboli. In che senso lei può dire, al contrario, che avere dei gusti tradizionali è una forma di sottomissione? La dominazione non è numerica. E cioè, si può essere maggioritari numericamente e minoritari simbolicamente. Questo è il caso, precisamente, di tutti i campi dell’ arte. Allora, questo relativismo che lei suggerisce, l’idea che dopo tutto le forme più popolari di arte hanno altrettanto valore perché sono plebiscitarie, in qualche modo, dalla maggioranza, ebbene, questa forma di relativismo è relativizzabile. Cioè, vediamo molto bene che ci sono dei mercati importanti: il mercato scolastico, il mercato mondano, ecc., nei quali certe opere valgono e altre non valgono. E cioè, per dire le cose in maniera molto semplice, consideriamo il linguaggio, un campo nel quale la dominazione simbolica si esercita nella maniera più visibile: per esempio, le disuguaglianze di accento sono estremamente potenti nella maggior parte delle società; intendo le disuguaglianze connesse all’accento.
D. Parlare con un accento regionale, per lei, è in sé e per sé un fatto di sottomissione o di inferiorità?
No, è un indizio a partire dal quale il linguaggio viene sperimentato nella sottomissione, nella vergogna, nell’ insicurezza linguistica. Prendiamo degli esempi, dei testi di Kafka, o di Joyce. E’ per prendere esempi di autori nobili, ma possiamo ottenere la stessa cosa, domani, in un colloquio con un locutore della Francia del Sud-Ovest; anche in Italia, penso, ci sono dei problemi di accento. Ci sono delle pronunce legittime e tacitamente riconosciute come tali dai locutori delle lingue dominate, o delle pronunce dominate; uno degli indizi del riconoscimento [della dominazione], in questo caso, è il fatto che si tenda a correggere il proprio accento. Ci sono migliaia di montaggi sperimentali che mostrano proprio questo. Prendete un locutore con una certa pronuncia, che appartiene ad una lingua dalla pronuncia dominata, ed esponetelo in una situazione ufficiale, formale: inconsciamente tenderà a correggere il proprio accento il meglio che potrà, il che rischia però di svalutarlo ancora di più, perché, una volta scomparso il tratto pittoresco del suo accento iniziale, si troverà allora nella situazione tipicamente piccolo-borghese della ricerca della distinzione, in una situazione di pretenziosità. La cosiddetta volgarità consiste spesso nel fatto che uno che non è naturalmente distinto, cioè non plasmato in modo da esserlo spontaneamente, assume gli atteggiamenti di chi è distinto. E’ una cosa che sarebbe molto lungo dimostrare.
D. Se può darci quell’ esempio dell’Africa, forse capiremo meglio.
Sì, si tratta di un esempio molto semplice. Un sociologo o linguista originario del Ghana ha scritto un articolo pubblicato in una rivista americana, a proposito della traduzione del mio libro su Il linguaggio della dominazione simbolica. Qui egli dice che nel Ghana dopo l’indipendenza, dopo l’autonomia, gli africani continuano a sforzarsi di adottare l’inglese standard; egli descrive in maniera abbastanza fine come questi sforzi si segnalino con posture corporee; insomma, ci sono maniere di tenere la testa, di portare il corpo, di tenere la bocca, ecc., che si impongono a chi vuol mimare la pronuncia nasale dell’accento britannico. Dunque, si vede come in questo caso delle strutture di dominazione legate ad un certo mercato linguistico nel quale la lingua inglese è dominante possano perpetuarsi oltre la perpetuazione di queste strutture; c’è una sorta di inerzia delle strutture.
Dunque, per tornare all’ esempio del relativismo: penso che le persone che possono avere pratiche culturali numericamente dominanti restano culturalmente dominate, e simbolicamente dominate, quindi sottoposte ad una forma di violenza simbolica. Questo accade perché precisamente, e in primo luogo, ci sono una quantità di situazioni nelle quali i loro gusti, preferenze, ecc., sono automaticamente svalutati; e queste situazioni sono, in generale, delle situazioni dominanti. Il sistema scolastico è una delle vie di accesso alle posizioni dominanti. D’altro canto le loro stesse pratiche manifestano questo, anche se possono fare i fanfaroni e dire “ma io preferisco le canzonette del mio paese!”; le loro stesse pratiche, nelle situazioni difficili, formali nel senso anglo-sassone, ufficiali, mostrano che essi riconoscono [la loro inferiorità], anche loro malgrado. E il loro corpo riconosce [questa inferiorità], proprio come i ghaneani non possono evitare di sentire il loro brutto accento, di soffrirne, di sentirsi in una situazione di insicurezza quando si trovano con un locutore dominante, o in una situazione difficile, dominati dalla norma dominante.
D. Quindi la sua idea di “violenza simbolica” non si sovrappone ad una idea economicista, marxista, o simili, insomma ad una idea che identificasse i dominati con i poveri, o con i più poveri in una società. In effetti, secondo lei, si può essere allo stesso tempo simbolicamente dominati e ricchi sul piano economico?
Certo, assolutamente. Secondo me, una delle funzioni della nozione di violenza simbolica è stata quella di rendere intelligibili certe forme di dominazione che l’economicismo della tradizione marxista, e tutte le teorie prima disponibili sul fenomeno della dominazione, lasciavano inesplicate.
I due terreni su cui la violenza simbolica si vede meglio che in altri sono la dominazione linguistica e la dominazione maschile. In questi due casi, l’economicismo brutale cerca di rendere conto degli effetti di dominio attraverso la logica della dominazione materiale, dicendo “i rapporti uomini/donne sono rapporti di sfruttamento e si possono misurare in tempi di lavoro, o nel rapporto tra il lavoro e i salari, ecc.” Ma tutte le analisi di questo tipo sono fondamentalmente viziose, perché, credo, esse sono del tutto incapaci di rendere conto della pratica, del fatto che la dominazione maschile, per esempio, possa esercitarsi in assenza di qualsiasi costrizione economica; effetto di questo, del resto, è che la liberazione economica, nella misura in cui viene realizzata, è lungi dall’essere compiuta nella maggior parte delle società sviluppate, in quanto la donne guadagnano sempre meno degli uomini, ecc. Ebbene, la liberazione economica non comporta affatto la liberazione simbolica; e ci sono in posizioni [economicamente] del tutto dominanti delle donne che continuano a subire la dominazione maschile. Prenderò un esempio.
Abbiamo pubblicato da poco un libro collettivo dal titolo La miseria del mondo, nel quale studiamo soprattutto forme non convenzionali di miseria. Studiamo, certo, le forme estreme, la disoccupazione di lunga durata, ecc., ma studiamo anche delle forme di miseria piccolo-borghese. Qui, fino all’ ultimo momento, sono stato tentato di pubblicare il colloquio che ho avuto con una donna dirigente – ma una dirigente di un livello molto alto – la quale mi ha detto [delle cose molto interessanti]. La violenza esiste spesso in conversazioni private che sono difficilissime da ricostituire in situazione di indagine. Il suo confrontarsi con situazioni di potere che doveva esercitare, in parte, su uomini le risultava talmente penoso che doveva farsi massaggiare tutte le mattine, e compiere tutto un lavoro corporeo, per poter sopportare qualcosa di molto più pesante di uno stress: una specie di tensione strutturale legata al fatto che era indotta a vivere un’inversione sociale della relazione di dominazione, un’inversione sociale che il suo corpo non seguiva. In altre parole, tutta la situazione le diceva “sei una dirigente, sei Presidentessa, stai nell’ ufficio del presidente, hai l’ autorità del Presidente e la tua firma è quella del Presidente, hai tutti i titoli del Presidente, lo stato ti consacra come Presidente”, eppure il suo corpo dice “sono donna e ho paura.”
Prendo un altro esempio: la timidezza. Per esempio, più in un certo senso io sono consacrato socialmente, più sono timido, e più il mio corpo, come dire?, si rifiuta di intendere quel che dice la situazione sociale. La situazione sociale dice “tu hai tutti i titoli per essere un’autorità, sei autorizzato a parlare con autorità”, ebbene, proprio in quel momento scatta la timidezza. E’ uno degli indizi di quella specie di décalage tra una specie di conoscenza attraverso il corpo, di conoscenza corporea, e [la conoscenza intellettuale]. L’intellettualismo è comunque dominante, esso è la filosofia implicita di tutti gli intellettuali; purtroppo l’ intellettualismo fa dimenticare che il corpo è là, con la sua logica, e che ci sono delle conoscenze che si fanno solo attraverso il corpo. Penso che le forme di conoscenza di cui sto parlando, che sono il fondamento dei rapporti tra i sessi, ad esempio, oppure dei comportamenti sportivi, sono forme di conoscenza corporea: si conosce col proprio corpo, non necessariamente con la propria coscienza.
D. Ma dunque, sulla base di quel che lei dice, si può pensare che questa violenza simbolica si eserciti molto presto, cioè nella prima infanzia. Tutti gli esempi che sta portando dicono che anche se nella vita adulta si acquisisce una posizione dominante, le esperienze di acculturazione nella prima infanzia restano decisive. Dunque, si tratta di qualcosa che passa attraverso i genitori, o il quartiere o gli amici della prima infanzia?
Penso che sia così. E’ qui che deve farsi l’articolazione tra l’analisi sociologica e l’analisi psicoanalitica. E cioè, penso che le prime esperienze del mondo sociale si facciano all’ interno di quel microcosmo sociale che è la famiglia: in essa ci sono differenziazioni, c’è una divisione del lavoro e gerarchie politiche, ci sono rapporti di dominio, rapporti di dominazione simbolica, e c’ è una polizia simbolica. In certi casi può essere la violenza fisica che gli uomini esercitano sulle donne, e può essere anche violenza simbolica, ad esempio il fatto che ci siano delle precedenze: uno si siederà prima dell’ altro; ci sono degli sguardi, ci sono ingiunzioni. Dunque c’è tutto un sistema politico già all’interno della famiglia, un sistema politico sessuato e sessuale; e questo non vuol dire che l’analisi psicoanalitica sia nulla e non avvenuta. Mi piace citare sempre una frase di Karl ????, il grande storico della Vienna fin di secolo che dice “Freud dimentica che Edipo era un figlio di re”. Il padre è un padre socialmente costituito, e il rapporto con il padre è socialmente costituito, e tutto quel che si impara nel mondo, nel microcosmo familiare, è strutturante in modo molto potente perché, appunto, tutto è doppiamente codificato, e cioè, le relazioni sociali sono codificate sia sessualmente che socialmente. Allora, per portare un esempio, altrimenti entreremmo in uno sviluppo interminabile: quando si dice sottomissione, con questo termine si vuol dire sotto-mettersi, mettersi sotto. Per esempio, ho appena finito un lavoro sui Kabili, ho raccolto dei rituali, delle mitologie (i Kabili hanno ben poche mitologie)…
D. Chi sono?
I Kabili, un popolo berbero dell’Africa del Nord. Hanno pochissime mitologie. Per esempio, uno dei rari discorsi che assomigli ad un mito, ad un discorso giustificatore dell’ordine sociale, dice press’a poco che in origine gli uomini e le donne erano eguali. Le donne andavano alla fontana – la fontana, nel mito, è il luogo femminile per eccellenza. E un giorno la donna ha avuto l’idea di far l’amore con l’uomo; perché nella visione maschile è la donna ad essere perversa, è lei l’iniziatrice della perversione sessuale. Allora la donna ha detto all’uomo: “Vieni, e vedrai, faremo qualcosa di veramente straordinario”, e così lei ha fatto l’amore con lui, mettendosi sopra di lui, a cavalcioni. Poi l’uomo ha voluto ricominciare, ma ha detto: “Da ora in poi, la cosa non succederà più alla fontana – nel luogo femminile – la cosa avverrà in casa, e sarò io a mettermi sopra di te”. In altri termini, c’è un mito che giustifica questa opposizione sopra/sotto, la quale è fortemente strutturante. Alto/basso, sopra/sotto, ecc. sono princìpi di percezione del mondo sociale. Si dirà allora “una posizione elevata”, “un discorso nobile cioè elevato”, un accento volgare è “un accento basso”, rozzo, ecc. Così queste opposizioni fondamentali sono doppiamente connotate.
D. Comunque le si potrebbe obiettare – e sono convinto che l’obiezione le è stata già fatta – che quel che lei chiama violenza simbolica è semplicemente il fatto che ci sono delle culture. E cioè, possiamo supporre che qualsiasi cultura, anche nel Borneo, anche tra i selvaggi come nelle società industriali, determina dei dominanti e dei dominati. Infatti, ogni cultura prescrive leggi o regole, e in rapporto a queste leggi o a queste regole ci sono alcuni che risultano più adatti o adattabili, e altri meno. E dunque c’ è comunque una gerarchia che viene a formarsi, in qualsiasi cultura, anche nella più “comunista”. Ma allora, il concetto stesso di cultura non implica che ogni cultura comporti comunque violenza? E se questa violenza è connaturale al fatto stesso della cultura, perché connotarla negativamente come violenza?
Il fatto che la violenza sia universale non implica che non sia violenza. Certo, la violenza simbolica è una forma universale di violenza. Penso che un aspetto interessante, appunto, della nozione consista nel ricordarci un aspetto di questa nozione di cultura, nella quale si accentua di solito la funzione di comunicazione. Si è soliti dire che possiamo pensare una cultura in analogia con la lingua saussuriana. La cultura è una specie di codice comune a due locutori, che fa sì che i due locutori associno lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso senso; dunque la cultura è un medium di comunicazione, perché il linguaggio è un medium di comunicazione. Si può dire che a partire da una teoria della cultura o del linguaggio, o di qualsiasi altro strumento simbolico, si può elaborare una filosofia del consenso. Il consenso è il fatto di essere d’ accordo sul codice di comunicazione. Allora, penso che la nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza simbolica è una dominazione che suppone un codice comune. E questo è importantissimo: la dominazione all’ interno di una società si compie sulla base di un codice comune. E’ nella misura in cui, attraverso il sistema di insegnamento, i dominati più dominati acquistano un minimo di accesso al codice culturale comune, che una forma di dominazione può esercitarsi su di loro. In altre parole, avviene qualcosa di molto paradossale. Ad una visione semplice della cultura si sostituisce quindi una definizione bifaccia: d’accordo, la cultura è uno strumento di comunicazione ma, allo stesso tempo, è uno strumento di dominazione che suppone la comunicazione. Dunque, non si può dire “è un bene, è un male”. Usciamo dalle dicotomie ordinarie.
Allora qui, per esempio, a proposito del ruolo dello stato, riprendo la definizione weberiana classica: lo stato detiene il monopolio della violenza legittima; ed io dico che è proprio così, che ha anche il monopolio della violenza simbolica legittima. Cioè, lo stato è il grande produttore di codici comuni, [e la lingua è in opposizione a quei codici].
D. Lei pensa che le società o le culture che hanno lo stato siano più violente, simbolicamente, delle società senza stato?
Il paragone è molto difficile da farsi. Se posso permettermi di dirlo, si tratta di un paragone da filosofi. Clastres, infatti, ha avuto un successo straordinario tra i filosofi francesi…
D. Clastres è l’ antropologo francese di idee anarchiche…
Sì, proprio lui. Ha avuto molto successo perché riportava ai filosofi francesi di una certa epoca certi problemi che erano anche i loro a quell’ epoca. Mi permetto di dire questo perché credo che sia importante…
D. Comunque bisogna che lei dica quello che diceva Clastres. Si suppone che il nostro pubblico non lo conosca affatto.
Clastres diceva “la società di fronte allo stato, la distanza…” Io credo che l’importante sia riconoscere che lo stato è una realtà profondamente ambigua dal punto di vista proprio del problema che stiamo ponendo. Insomma, lo stato impone delle categorie di percezione comuni all’insieme degli agenti di una società. Può essere il Pantheon dei filosofi di cui ho parlato all’ inizio, possono essere le strutture dell’ortografia per le quali un certo numero di intellettuali francesi oggi si battono come se fosse in gioco il destino dell’umanità, possono essere le strutture della grammatica, può essere qualsiasi tipo di cosa. Ebbene, lo stato attraverso la potenza della scuola pubblica può imporre tutte queste cose alla totalità di una popolazione. Questo ci permette di direre che nessuno – come vien scritto sulle bottiglie di acqua minerale in Francia – sia supposto ignorare la legge; nessuno è supposto ignorare la legge culturale. Ogni ragazzino o ragazzina di Francia conosce un certo numero di cose in materia di cultura. Allora questa universalità storica, all’interno dei limiti di una nazione, è estremamente importante perché essa fonda un consenso, dei riflessi comuni, ecc. Allo stesso tempo, essa è parzialmente fittizia, vale a dire il fatto che nessuno è autorizzato ad ignorare la legge vuol dire che chiunque la ignori sarà punito; ma non siamo mai sicuri che tutti coloro che saranno puniti la conoscevano, perché non siamo sicuri di aver dato a tutti l’ accesso a quella conoscenza. Allora bisognerebbe prendere degli esempi, ma ancora una volta è difficile sceglierne uno….
D. Si, dia un esempio, giusto un esempio.
Prenderò allora un esempio giuridico. Oggi si sa molto bene che nei processi legali l’ineguaglianza sociale si manifesta fondamentalmente nel fatto che gli agenti sociali più svantaggiati culturalmente non sanno costituire il loro caso come caso giuridico. Non sanno fare quel lavoro linguistico-politico richiesto dal sistema giuridico. Il sistema giudiziario richiede che un querelante sappia costituire un contenzioso tra vicini, o passionale, ecc. ecc., in caso raccontabile, suscettibile di essere raccontato, in modo calmo, in forma di querela, o di denuncia, di fronte ad un tribunale. Occorre fare un lavoro di conversione.
Un altro esempio: nelle inchieste per sondaggio, si chiede alla gente “Lei pensa che il governo Rocard sia stato migliore o peggiore del governo Mauroy? Lei pensa che Berlusconi porterà verso un regime neo-liberale o al contrario un regime neo-fascista?” Ecc. Questo tipo di domande possono essere oggetto di risposte solo per soggetti sociali che conoscono la legge politica; e cioè, si [suppone che occorra] porre i problemi politici in termini politici, che si possano porre questo tipo di domande; in apparenza “si suppone che nessuno ignori la legge”, e che qualsiasi persona interrogata in occasione di una elezione o in occasione di un sondaggio abbia gli strumenti per rispondere ad una domanda di quel tipo; invece di fatto questi strumenti sono ripartiti in modo molto diseguale. E questo lo si vede, per esempio, da chi si rifiuta di rispondere, da chi risponde “Non so” a domande del tipo di quelle che ho posto poco prima. Si sa già da prima che la percentuale delle donne che diranno “Non so, non posso rispondere” sarà molto più elevata della percentuale degli uomini. Si sa già che la percentuale delle persone che risponderanno crescerà in proporzione con l’ elevarsi nella gerarchia sociale, crescerà in proporzione con l’ elevarsi nella gerarchia del livello di istruzione, ecc. A fortiori, se si interroga la gente, si vedrà che la parte delle persone dotate degli strumenti che permettono loro di porre i problemi politici nei termini in cui sono loro posti dagli intervistatori, la quota delle persone capaci quindi di effettuare questo lavoro di trasformazione, cresce in modo molto forte man mano che cresce l’ accesso all’ istruzione e al linguaggio che si impara a scuola.
D. A questo proposito, perché coloro che sono sottoposti a questa violenza simbolica non sono organizzati politicamente? Allora, il fatto che si sia sottomessi implica anche delle scelte politiche, ad esempio di rinuncia ad organizzarsi? Esistono dei partiti, o delle forze o tendenze politiche, che vengono preferiti dall’élite dominante, e altri o altre dalle masse dominate? A livello dei partiti politici, in particolare, possiamo dire che le preferenze si mescolano, e che in ogni simpatia politica dominanti e dominati si associano?
No, per fortuna solo in parte. Un lato interessante di questo mio genere di analisi… Quel che sono riuscito a fare qui, oralmente, è molto ma molto imperfetto, e superficiale; ma spero per lo meno di aver dato un’ idea di queste forme di dominio. In questo caso, penso che la sua domanda è molto interessante, da questo punto di vista: e cioè, i partiti politici stessi sono degli strumenti di esercizio della violenza simbolica.
D. Tutti i partiti?
In forme diverse, tutti.
D. Anche i partiti cosiddetti populisti?
Appunto, il populismo è particolarmente interessante, perché esso ha due modi di sfruttare la dominazione simbolica, ovvero gli effetti della dominazione simbolica. Si possono sfruttare questi effetti in modo innocente, come fanno i partiti comunisti, o socialisti, tradizionali; questi partiti richiedono che il loro portavoce si esprima nella lingua standard, in conformità alle norme linguistiche ufficiali, che parli politicamente di politica, e cioè gli chiedono di “parlare politicamente” al posto di coloro che non hanno gli strumenti per parlare politicamente della politica, contrariamente a quel che ho detto poco fa. E certo questi portavoce esercitano una violenza proprio in quanto danno voce alla gente, quindi non si sa se usano le parole che pronuncerebbero quelle persone comuni se avessero la parola. In altri termini, nel migliore dei casi il delegato, chi si presenta come porta-parola della gente che non ha la parola, commette una usurpazione, più o meno importante, approfittando del silenzio provocato dalla violenza simbolica – del silenzio delle donne della classe dominata, per esempio. Si può parlare al posto di, sostituirsi a, sostituirsi al discorso di [altri]… Ma allora la soluzione populista è terribilmente viziosa, perché essa consiste nel mimare la parola popolare, e dunque a dare una soddisfazione -ma una soddisfazione a mio parere del tutto illusoria- alla parola popolare.
D. Perché questa soddisfazione è illusoria?
Illusoria perché essa non poggia su un ascolto reale della parola popolare, oppure poggia su un ascolto superficiale. Per esempio, si sa molto bene che, oggi, tutti i libri che si chiamano “La miseria del mondo” vertono su questo: che al giorno d’ oggi ci sono delle miserie sociali molto profonde. In una società come la Francia -ma credo nella maggior parte delle società europee- esiste una miseria sociale che è legata, per esempio, alla coabitazione, nei quartieri multietnici e nelle scuole, tra persone che hanno visioni del mondo, abitudini, ecc., molto diverse tra loro. E queste sofferenze non si accompagnano necessariamente ad un discorso costituito, esse si esprimono con collere, violenze, razzismo, espressioni brutali, impulsi padroneggiati male.
Allora, nella visione democratica tradizionale, ci sono dei portavoce che vogliono il bene del popolo, ma che vogliono la felicità del popolo senza di lui. Costoro possono dire “bisogna assolutamente sradicare il razzismo da quella gente, ecc.ecc.”, e si fa una sorta di predicazione che non giunge mai alla comprensione delle cause reali: “che cosa è [il razzismo], che cosa esso vuol dire?” D’altro canto, si possono sfruttare molto bene quelle pulsioni in un linguaggio che dia un’espressione in apparenza giustificata alle sofferenze palesi, in un linguaggio che sfrutti quelle sofferenze senza darsi minimamente i mezzi per investire le cause.
Ma allora che cosa bisogna fare? I filosofi fanno sempre delle analogie con Socrate, ma per una volta sarà un sociologo a servirsi della analogia socratica. Infatti penso che occorra una funzione tipicamente socratica – ed è quel che abbiamo cercato di fare in questo libro, La miseria del mondo. Penso che nel mondo sociale, sotto l’ effetto della violenza simbolica, molte persone sono spossessate di ogni mezzo di espressione. E’ così: sono spossessati degli strumenti simbolici di espressione delle proprie esperienze, delle proprie sofferenze; e uno dei grandi problemi oggi è quello di restituire loro questi strumenti di espressione. Allora, su scala globale è molto difficile. Sulla scala di una relazione di scambio, di dialogo, tra un sociologo o un ricercatore da una parte e una persona comune dall’ altra, si può fare un lavoro di tipo socratico, vale a dire dare alla persona spossessata [la possibilità di esprimersi]. E’ il postulato di Socrate. Infatti, Lachete sa molto bene che cosa è il coraggio, ma non ha gli strumenti per dirlo. Eutifrone sa molto bene che cosa è la pietà religiosa, ma non ha gli strumenti per dirlo. Bisogna quindi aiutarli a partorire dalla loro sofferenza; e, se è possibile, dalle strutture sociali che sono al principio della sua sofferenza, delle costrizioni, delle tensioni, delle violenze, e bisogna assisterlo con una specie di intervento ad un tempo coercitivo e liberatorio. E questa, ovviamente, è una funzione che i politici oggi non assolvono affatto, e nemmeno i demagoghi che sfruttano i discorsi apparenti…
D. Sia che il demagogo sia di destra, sia di sinistra?
Proprio così.
D. Lei sa che Roland Barthes, nel suo discorso inaugurale al Collège de France, ha detto che la lingua stessa in fondo è fascista. Possiamo dire questo di tutte le culture, dato che in tutte le culture si esercitano forme di violenza simbolica e di fascismo? Lei ora proprone una specie di metodo socratico. Dunque, è possibile sognare una società, dedita alla maieutica socratica, dove la violenza simbolica sarebbe assente? E’ possibile sognare una società che non sia fascista, se lei è d’ accordo con questa provocazione verbale mutuata da Barthes?
In verità non mi piace molto quella formula di Barthes… Rispetto molto la provocazione, che svolge delle funzioni estetiche, politiche, ecc., importanti, che riesce a svegliarci. Ma in certi casi l’eccesso di provocazione è pericoloso perché derealizza; e cioè, credo, dire delle cose così eccessive è proprio una maniera di occultare quel che chiamo la violenza simbolica. Quando si dicono certe cose in una maniera talmente esagerata, così eccessiva, significa che non ci si crede, almeno non ci crede chi lo dice, e anche coloro che lo ascoltano non ci credono, e quindi si può applaudire senza pensare a nulla. Invece il lavoro di tutta la mia vita è consistito nel prendere sul serio queste forme dolci, impercettibili, insensibili di violenza, di andare a cercare la violenza là dove nessuno si aspetterebbe di vederla, nel rapporto pedagogico, ecc., dove essa è. La mia idea di fondo è che scovando la violenza simbolica, rendendola visibile, manifestandola, si può mettere in moto la ricerca dei mezzi per combatterla.
Allora, per esempio, perché la violenza pedagogica, con la quale abbiamo iniziato, è particolarmente perversa? E’ che la violenza pedagogica consiste nell’imporre dei saperi, delle conoscenze che si pensano come universali; l’esempio più tipico è quello della matematica. Ma le culture si pretendono universali. Ogni professore che insegna filosofia oppure letteratura in Francia, in Italia, negli Stati Uniti, ecc., ha l’impressione di dare l’occasione ai suoi ascoltatori di avere accesso all’universale. Di fatti penso che questa violenza attraverso l’universale sia particolarmente perversa, e che è importante dire alla gente “è universale, è un po’ particolare, è italiano, è francese, ha una storia, ha una genealogia”; e per essere in stato di libertà nei confronti anche di questo [preteso] universale bisogna sapere che ha avuto una genesi, cosa che non gli toglie nulla della sua importanza. E persino la matematica non è caduta dal cielo, non è caduta dentro la nostra coscienza: essa è il prodotto di una storia, il prodotto della storia di un universo particolare, ecc. ecc. Per questo credo che, tra gli strumenti di liberazione dalla violenza simbolica, certi strumenti specifici degli intellettuali, e penso in particolare alla genealogia foucauldiana [siano utili]…
D. “Foucauldiana” cioè di Michel Foucault…
Sì, di Foucault. Penso che la sua storia sociale dei concetti, la storia sociale delle nozioni universali, vissute come universali, è estremamente importante, non per relativizzare questi concetti, e quindi il concetto stesso di violenza simbolica, ma per mostrare che si sono avute certe condizioni sociali di possibilità di queste nozioni. Allora, per dire una cosa estremamente importante, si può imporre l’ universale universalmente. Si può dire “Tutti i francesi devono sapere questo o quello”, oppure “tutti i cittadini del mondo devono rispettare i diritti dell’uomo“, è un problema del tutto concreto, a condizione di universalizzare le condizioni di accesso all’ universale. Insomma, da una parte si dice “nessuno è supposto ignorare la legge”, ma quando si dà solo ad una piccolissima parte l’accesso alla conoscenza della legge, l’universale è uno strumento di oppressione particolarmente perverso. E in fondo la forma per eccellenza della violenza simbolica -è terribile dirlo- è proprio un certo uso dei diritti dell’ uomo. Il che sembra paradossale.
Tratto da http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=388
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