Antonio Volpe, Liberazionismo senza liberazione?

by gabriella

Michel Foucault (im Pariser SPIEGEL-Büro am 09.12.1977)  SPIEGEL Bild-ArchivPartendo dalla teoria del potere di Foucault, ma anche mobilitando Camus e la pedagogia delle catastrofi, Volpe si chiede se sia possibile scindere vita e biopotere, se sia cioè possibile superare definitivamente il dominio e l’oppressione umana e non umana. Tratto da Asinus novus.

 

Il doppio legame fra vita e potere

Ne La volontà di sapere, com’è noto, Foucault delinea una concezione inedita del potere fissando non solo un metodo e un campo d’indagine completamente divergenti da quelli proposti fino ad allora da una lunga tradizione filosofica, ma pure una nuova “ontologia”, una nuova concezione della realtà basata su uno scontro di forze organizzate strategicamente attraverso le pratiche e i saperi che attraversa capillarmente la vita degli individui. Oltre che reticolare e continuo, il potere in Foucault non è estorsivo, come per esempio nelle teorie marxiste, ma creativo e produttivo. Non è calato dall’alto, né è l’effetto delle sole strutture economiche, ma coinvolge sullo stesso piano strategie di disciplinamento multiple, che investono ogni sfera della vita. La stessa soggettivazione del singolo è l’effetto di un processo di assoggettamento attraverso pratiche e giochi di verità senza il quale non si darebbe soggetto alcuno.

è anche la tesi di Michel de Certeau (1925 - 1986)

la resistenza degli assoggettati è descritta anche da Michel de Certeau (1925 – 1986)

D’altra parte a questa presa di un potere acefalo sulle esistenze degli individui, gli individui stessi rispondono con strategie di resistenza diversive che fanno leva sul potere stesso per invertirne segno e direzione verso una riaffermazione della vita stessa. Questa lotta di forze fra vita e ciò che Foucault chiamerà biopotere, secondo il filosofo francese somiglia più a una battaglia, con tutto il suo armamentario di strategie incrociate che coinvolgono da cima a fondo i corpi, che a una partita di scacchi. La metafora della battaglia indica anche che la posta in gioco, e i mezzi stessi con cui essa si combatte sono, fuor di metafora, la carne e il sangue, cioè la vita concreta degli individui presi in questo scontro.

Se potere disciplinare e biopotere sono cosostanziali alla modernità, le ricerche genealogiche (di ascendenza nicciana) di Foucault che cominciano con l’età classica e si spingeranno alla fine sino all’antichità, mostrano come il potere è un’istanza ineliminabile, anzi primaria, delle relazioni sociali. Non si possono pensare relazioni senza potere. A chi aveva confuso le sue ricerche sui filosofi ellenistici come una sorta di via d’uscita dal potere stesso, Foucault risponderà lapidario, in maniera inconsueta per il suo stile, che l’antichità è un gigantesco errore. Nessuna precedenza edenica dunque ai poteri dispiegati in età premoderna e moderna. In questo senso si può dire, schematizzando, che se nel marxismo il trascendentale è la storia e la sua logica la dialettica, in Foucault, senza voler affatto ridurre l’importanza dell’accuratissimo lavoro sulle discontinuità diacroniche, il trascendentale è il potere e la sua logica la strategia di guerra. Il che implica che le rivoluzioni sono prese nello stesso gioco di forze, e che ogni ideale di liberazione è un’illusione che si dà storicamente in maniere sempre diverse senza cessare di essere tale, un’illusione – in realtà Foucault direbbe un campo di veridizione – che fa da volàno a nuove configurazioni di potere.

animali

antispecismo

Mi preme a questo punto precisare una cosa: quella che sto offrendo in queste righe non è la proposta di un nuovo, ennesimo, antispecismo, né una diversa declinazione del cosiddetto “secondo”. Ma la riflessione critica e autocritica in regime di sospensione delle conclusioni, di un liberazionista radicale che tenta di fare i conti con la possibilità che la liberazione, umana e non umana, sia un’idea-guida potentissima che però non si dà nel novero delle possibilità concrete, e che quindi sia solo la potente illusione che ci trascina sul campo di una battaglia che conoscerà vittorie e sconfitte, avanzamenti e ripiegamenti, senza però mai un esito finale, tanto meno nell’alterativa binaria dominio/liberazione.

Alla posizione di Foucault, come ha fatto più volte Massimo Filippi in direzione radicalizzante, si potrebbe obiettare che solo giungendo a toccare e trasgredire il limite “animale” e tematizzando lo zoopotere che si nasconde nel biopotere e lo precede, logicamente ancor prima che cronologicamente, si tocca allo stesso tempo il limite estremo e sorgivo delle strategie di “domesticazione” che si dispiegano anche sull’umano, offrendo la possibilità di una fuoriuscita, di un’uscita di sicurezza, dal potere che si prende carico della vita. Allo stesso tempo è però proprio Filippi a far notare come la moltiplicazione dei discorsi sull’animale offre al potere le strategie per un nuovo “imbrigliamento”. Dunque, propongo come ipotesi che per quanto ci siano discorsi “migliori” di altri, forse tutti collaborano involontariamente al re-investimento dell’intera vita da parte di un potere che attraversa il singolo fin su ai singoli presi come popolazioni (umane e non umane).

D’altra parte non è detto che basti portare alla luce un problema nascosto perché esso si possa risolvere dissolvendolo. Anche in questo caso potremmo trovarci davanti ad una lotta infinita, senza esito finale. Senza liberazione, senza tempo messianico, senza rivoluzione di alcun tipo, neppure “molecolare”. Soltanto, di nuovo, uno scontro di forze senza requie in cui alle controstrategie del vivente risponderanno sempre nuove strategie del potere, dal quale la vita non si può mai disgiungere, neppure tentando, come vorrebbe Agamben, lo scioglimento di quel bando sovrano che esclude includendo attraverso la forza della Legge, perché fra Legge e vita esiste un vincolo che, se restiamo fedeli a Foucault, infranto, le abolirebbe entrambe.

Albert Camus

Albert Camus (1913 -1960)

Politica della peste

Lontanissimo per provenienza e collocazione di pensiero, possiamo immaginare, in questa breve riflessione, come una sorta di compagno di strada fantasma, stellare di Foucault un pensatore anomalo, conosciuto e stimato più per l’attività letteraria che per quella filosofica: Albert Camus. Lontanissimo dalle fini analisi dei micropoteri, dal lessico innovativo e dall’antiumanismo di Foucault, Camus è un pensatore tradizionale, che si muove nel solco del pensiero filosofico senza rotture di metodo. Ma che trova nella radicalità della sua proposta e nella capacità di raccontare – d’altra parte secondo Pareyson sul “male” non si può concettualizzare, esso si può raccontare soltanto – la sua originalità assoluta.

Dopo una prima fase di pensiero in cui delinea la figura dell’eroe assurdo, che accetta lucidamente l’insensatezza del reale («dobbiamo immaginare Sisifo felice»), Camus rovescia la prospettiva intorno all’assurdità del mondo, l’ingiustizia che altro non è se non la cecità della natura davanti ai destini umani, e, in un gesto contrario ma asimmetrico all’assurdità del reale, si scaglia contro di esso in nome di una giustizia senza giustificazioni che la precedano: è l’Uomo in rivolta. Camus non condanna la rivoluzione in quanto tale, ma ne analizza tutti i tradimenti in quanto tradimenti della rivolta iniziale che le anima e innesca, finendo per riprodurre un’assurdità ingiusta e crudele simmetrica a quella del reale, ma potenziata. La rivolta è un impulso solitario, ma che apre alla solidarietà fra tutti gli esistenti: «mi rivolto, dunque siamo». La rivolta cava fuori l’individuo dalla sua solitudine verso quel con senza il quale l’esistenza non può acquisire significato. Soltanto insieme le esistenze possono accedere a un significato che ecceda l’insensatezza del reale. È solo questa rivolta che può mantenere giuste le rivoluzioni. Ma, fatti alla mano, nessuna rivoluzione s’è mantenuta a questa altezza.

la pesteNel suo romanzo forse più celebre, La peste, Camus racconta di una città colpita dall’epidemia in cui gli abitanti, chiusi in un cordone sanitario, si organizzano per farvi fronte, formando – non senza qualche eccezione, come quella del commerciante che specula sui prezzi dei beni primari – quell’insieme non fusionale della solidarietà reciproca che, paradossalmente, dà finalmente senso a esistenze irrelate, prese dai loro affari, dai loro lavori, dalla cerchia dei propri interessi. In questo nuovo stare insieme solidale, gli uni per gli altri, ognuno sta a suo modo, secondo le proprie credenze, convinzioni, visioni del mondo. Si contrappongono allora, pur nella solidarietà reciproca, due idealtipi. Padre Paneloux, che vede nella peste un flagello divino per i peccati umani, e l’ateo protagonista del romanzo, Bernard Rieux, che vi vede un fenomeno naturale, e in quanto tale cieco e sordo ai lamenti umani. La peste colpisce con indifferenza. Il morbo passa dalla forma bubbonica alla più contagiosa e letale forma polmonare, in città si scavano ormai fosse comuni. Il siero messo a punto dall’anziano collega di Rieux, il dottor Castel, non salva un bambino innocente, e salva invece il simpatico ma grigio impiegato comunale Joseph Grand. Neanche Tarrou, scappato anni prima da Parigi per sfuggire alla carriera d’avvocato – disgustato dalla pena di morte – che durante l’epidemia diventa intimo amico di Rieux, si salva. Il siero, su di lui come sul bimbo, si rivela inefficace. La peste non fa distinzioni, tanto meno fra giusti e ingiusti. Vi scampa il commerciante speculatore, che per di più, vedendo nella fine dell’epidemia la fine dei suo vantaggi economici, “impazzito”, si mette a sparare sulla folla dei salvati, fino all’intervento della polizia. Il romanzo si chiude con Rieux che stende un rapporto, utilizzando i minuziosi taccuini di Tarrou, disegnando la figura di un’amicizia che dura oltre la morte, e lega vivi e morti in quella stessa solidarietà che può vigere fra i viventi. Nel rapporto Rieux ammonisce contro l’illusione di considerare quella con la peste una partita chiusa, dato che nella storia essa non ha fatto che sparire per poi riapparire all’improvviso, il suo germe “addormentato” negli interstizi delle nostre stesse case.

Ovviamente a un primo livello di lettura, La peste è una metafora della lotta al regime nazi-fascista, ma già, insieme, la descrizione dell’implosione totalitaria sovietica. Già anni prima Camus si era distaccato dal partito comunista. Con La peste si rompe per sempre anche l’amicizia con Sartre, che lo bersaglierà per il resto della vita (lo bollerà, fra l’altro, come «filosofo della domenica», mentre lui si reinventa maoista). Sia nel nazi-fascismo che nel socialismo reale, pur nella differenza incolmabile delle premesse (da una parte un’ideologia nazionalista e razzista, programmaticamente totalitaria, dall’altra un progetto di emancipazione dell’umanità dall’oppressione), a venire completamente negata è proprio la dimensione della rivolta che rende gli individui solidali fra di loro senza abolire la loro libertà. La peste è allora una metafora del contagio autoritario e totalitario che si può innescare sempre e dovunque, sotto ogni regime (oggi potremmo trasporla alle nostre post-democrazie) e perfino nei gangli di un tessuto sociale democratico (i “microfascismi” di altri due pensatori lontanissimi da Camus, Deleuze e Guattari). Ogniqualvolta la rivolta degli esistenti (solitaires, solidaires, dice Camus) è soffocata, a riconquistare la scena è l’assurdità del mondo, la sua ingiustizia cieca, moltiplicata dall’adesione ad essa degli umani, che, colmandola di significati e mitologie, sfuggono insieme al compito di fronteggiarne il gelo e a quello di rivoltarsi contro ad esso, sedendosi nella posizione di una sorta di comodità sanguinaria.

Per questo, e non perché sia un fenomeno astorico e realmente “naturale”, che faccia da “natura” dell’uomo (che non c’è), Rieux vi si oppone come a un fenomeno naturale e cieco. E lo fa con coraggio e pazienza, senza la certezza di poterlo battere, ma senza mai abbandonare speranza e determinazione. È la coscienza che la storia non sia predeterminata, in nessuna direzione, a spingerlo, in quella rivolta che è affermazione di una giustizia senza giustificazione, senza assicurazione provvidenziale né divina né storica. Ma questa è anche la consapevolezza che la lotta non finisce mai, perché il corso della storia non si acquieta, e le scelte degli uomini non si scioglieranno mai in una “nuova umanità”, che è un sogno edenico che si annuncia già come un incubo. La rivoluzione deve allora ricominciare sempre da capo, sempre reinnescata dalla rivolta, oppure non può che rovesciarsi in terrore e restaurazione. E saranno, secondo una famosa formula che inverte il pensiero politico tradizionale, i mezzi a giustificare il fine. La giustizia con cui si è lottato a giudicare l’esito della lotta.

Una lotta senza esito

Pur nella distanza che abbiamo già sottolineato, da punti di vista molto diversi, Camus e Foucault condividono una prospettiva per cui non si dà alcun dopo-storia, nessuna pacificazione finale. Per il primo la liberazione deve sempre ricominciare, fronteggiando sempre di nuovo la peste, per il secondo il conflitto fra vita e potere è per sua “essenza” infinito, perché essi sono annodati fra di loro in maniera indissolubile. C’è sempre, ovviamente, la possibilità di leggere il loro pensiero in direzione di un liberazionismo radicale, o di utilizzarlo in tal senso, e, soprattutto con Foucault, lo si fa già da tempo. Ma se restiamo fedeli al nucleo duro del loro pensiero – questo è il punto, la possibilità che pongo innanzitutto a me stesso – quello che entrambi ci indicano è la possibilità che la liberazione non si dia mai, se non come illusione, come acquietamento in un nuovo potere, tanto più forte quanto più inavvertito come tale.

Possiamo leggere questa impossibilità, da un’angolatura antispecista, su due livelli.

Il primo è quello che corrisponde alla possibilità che la liberazione umana e non umana possa darsi solo come lotta infinita ad un potere inestinguibile, all’interno di esso, in un gioco di avanzamenti e arretramenti, secondo strategie modulate sui mutamenti continui delle strategie del potere stesso. Se per un attimo separiamo, artificiosamente, liberazione umana e non umana, comprendere questa possibilità diventa più semplice: basti pensare a come sia i nostri spazi di libertà, sia le nostre condizioni materiali di esistenza, storicamente, non si siano dati mai come conquiste irreversibili. Negli ultimi trent’anni le conquiste raggiunte faticosamente nei trent’anni precedenti della storia del nostro paese e di tutta Europa sono state sottoposte a una compressione tale da averle ridotte al lumicino. La riorganizzazione dei poteri disciplinari da una parte, e la distruzione della soggettività operaia, con il ribaltamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro, dall’altra, hanno riconfigurato una condizione da secondo dopoguerra, se non peggiore. Certo più infida e insidiosa, dacché la sinistra italiana (ed europea) si è blairizzata, trasformandosi, parafrasando Marco Revelli, in una seconda destra, tecnocratica ed efficentista e dal volto presentabile.

Ciò che risulta terribilmente insidioso di questa trasformazione è che questa neo-destra continua a usare – a parte rari casi di, passatemi l’ossimoro, “realismo umanitario” – un certo lessico della vecchia sinistra, cortocircuitando la percezione dei vecchi e nuovi oppressi. Che finiscono per perdere perfino la percezione dell’oppressione (pensate ad esempio a come ragiona ormai la maggior parte dei lavoratori interinali, interiorizzate le regole di micro-ambienti ipercompetitivi come i call center, dove vige una lotta ineditamente spietata per il rinnovo del contratto o le micro-promozioni, alla faccia della solidarietà in rivolta di cui abbiamo scritto fino a poche righe fa: sono proprio le relazioni fra i singoli, a livello pre-politico, ad essersi invertite di segno, conquistate dalla favola capitalista della legge della jungla che vige su ogni livello dell’esistenza. È in questi nanocosmi ultrapredatòri che la povertà scivola in miseria: in cui abolita non è solo la solidarietà minima, ma anche qualsiasi “illogico” slancio altruistico, sostituiti da un cinismo egoista ed egocentrico senza limiti). Oppure pensiamo a come le prime timide apparizioni della democrazia novecentesca (o delle lotte per una sua radicalizzazione, come in Italia) siano state spazzate via dai fascismi.

berlusconi

il “presidente” antispecista

Ma gli esempi potrebbero essere infiniti. Se guardiamo alle conquiste non-umane più recenti nel nostro paese dall’ottica dell’altalenante destino storico delle conquiste umane qui sopra descritto – il progressivo rafforzamento della protezione degli “animali d’affezione”, per legge e nella pratica giuridica; e l’approvazione della legge di ricezione della direttiva europea sulla sperimentazione animale, con il divieto di allevamento di cani, gatti e primati sul territorio nazionale e il divieto di ricerca su xenotrapianti, della sperimentazione bellica, dei test sulle sostanze d’abuso, della sperimentazione didattica e dei test senza anestesia – non è difficile immaginare la loro potenziale reversibilità. Senza stare a entrare nel merito della bontà della legge e della sua storia (la forbice protezionista, gli inutili eccessi che fanno passare gli animalisti come peggiori alleati degli animali non umani, lo scippo da parte della politica istituzionale, in particolare certi politicanti arrampicatori e fascistoidi, di una lotta dal basso di trent’anni), non è un segreto per nessuno – spero – come già scienziati, medici e lobby biomedica abbiano gridato al disastro, inviando lettere di protesta a tutti i gradi istituzionali. Basterebbe il crollo dei grillini alle prossime elezioni– niente affatto difficile da immaginare – fra cui militano parecchi animalisti, perché i rapporti di forza parlamentari si ribaltino e la legge venga fatta a pezzi. Ma anche se la legge non si rivelasse la meteora di una legislatura in agonia, è difficile immaginare che nei prossimi anni essa non sarà oggetto di revisioni: in particolare il divieto di ricerca sugli xenotrapianti è affare troppo spinoso (coinvolgendo i malati e le loro associazioni, ma soprattutto il business biomedico) perché lo si possa considerare un punto senza ritorno della limitazione alla sperimentazione animale. Ma la stessa cosa vale per l’obbligo di anestesia. C’è troppa ricerca sulle neuropatie e sulle cure palliative (le terapie del dolore) per non immaginare, in un mondo strutturalmente specista, in cui la considerazione etica dei non umani è ritenuta un lusso, la ribellione (d’altra parte già avvenuta) delle associazioni dei malati prima ancora del contrattacco della lobby biomedica: considerando pure che in Italia il diritto alle terapie del dolore si è affermato con una lentezza spaventosa, rispetto al resto d’Europa che le considerava routine.

Guardando poi, come abbiamo fatto per le conquiste umane, da una prospettiva di medio-lungo periodo, dobbiamo ammettere che le variabili in gioco nei mutamenti storici, soprattutto in una società complessa e “veloce” come la nostra, sono troppe per permetterci calcoli sul futuro, sulle configurazioni che le strategie del potere possono assumere anche solo sul breve periodo: figuriamoci su tempi medio-lunghi. Potremmo avere anche un ciclo di avanzamenti simile a quelli per le condizioni umane – quei famosi trent’anni di conquiste, ma è un numero buttato lì come esempio – e poi un drammatico reflusso restaurativo. La fiducia nel progresso è la declinazione laica, secolarizzata, della fede nella provvidenza divina, a cui non sfuggono né i marxismi deterministi né tanto meno la fiducia anarchica nella sostanziale bontà dell’uomo (e della natura), con la sua fede in un contrattualismo orizzontale liberato dalle costrizioni di Stato e mercato. Insomma, la peste non dorme mai, o meglio: dorme con un occhio aperto. Possiamo riporre la nostra forza nella speranza e nella determinazione che ineriscono alla lotta, alla rivolta. Ma non sempre, appunto, l’esito è quello che si dà nella città di Orano, dove si svolge il romanzo di Camus. A volte il potere è sovrastante, la sua morsa non si allenta di fronte alla rivolta, e la schiaccia. E se questa banale constatazione vale per i fascismi novecenteschi, figuriamoci per il potere capillare in cui siamo installati oggi, dotato di tecnologie di controllo e di armi (penso in particolare alle nuove armi, non letali, ma invincibili – come quelle che sfruttano le frequenze sonore – che si sperimentano negli Stati Uniti – ma non solo – per il controllo poliziesco) che stringono le maglie fino a costituire un muro senza punti ciechi.

Benché la possibilità sia anche quella di un punto di non ritorno nei rapporti di forza fra potere e vita, in cui gli strumenti del potere aprono un gap incolmabile fra questo e i contropoteri che gli resistono (tema della distopie totalitarie, letterarie e cinematografiche), fino ad ora questa possibilità ricorrente di cui ci ammoniamo da decenni (forse da sempre) non si è mai davvero realizzata. Il motivo è forse strutturale: se come abbiamo detto la vita è (da) sempre investita dal potere, essa, simmetricamente, lo abita, conoscendone, per così dire, i “segreti” dall’interno. Ma questo implica, di nuovo, un doppio feedback continuo che impedisce a vita e potere di svincolarli l’una dall’altro.

Anche davanti all’emergere di nuove tecnologie potere e vita non fanno che inseguirsi, sfuggirsi, ingaggiare lotte dall’interno di nuovi dispositivi: un esempio sopra a tutti è Internet, con le sue lotte infinite fra polizie e Intelligence da una parte, e “banditi” (gli hackers) dall’altra. Per ogni nemico pubblico n°1 caduto, ce ne sono centinaia pronti a prenderne il posto. Come d’altra parte nella resistenza agli imperialismi globali, sul terreno del mondo reale.

L’insostenibile punteggiatura delle catastrofi

Non è detto poi che non arretrino anche le conquiste circa gli animali d’affezione, magari in un clima socio-economico mutato da un crisi di cui non vediamo affatto la fine e che potrebbe diventare strutturalmente depressione. Per non dire di tutti quegli eventi catastrofici dei quali, per quanto si possa moltiplicare il controllo dell’ingegneria economica e istituzionale, non si può mai abolire il rischio, anche perché a volte generate da quello stesso controllo, o da strategie dirette (bancarotte di Stato, super-crisi determinate dalla speculazione finanziaria, guerre civili, attacchi terroristici, conflitti regionali o su larga scala, o conseguenze globali di conflitti combattuti altrove: se per esempio India e Pakistan cominciassero a bombardarsi a suon di testate nucleari, non ci sarebbe un altro pianeta su cui fuggire. Ma gli esempi che coinvolgano l’uso della vecchia, cara, bomba atomica potrebbero essere molti, e ben peggiori di questo). Infine quegli eventi catastrofici sui quali non abbiamo nessun controllo, che fanno della stabilità di questo pianeta, secondo la formula di J. Gould, un equilibrio punteggiato: terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, meteoriti, ecc… tutti fenomeni che si possono manifestare con diversi gradi di distruttività, estensione e imprevidibilità.

eruzioneNoi umani, per tradizione, non certo per natura, cerchiamo la stabilità. E nel cercarla finiamo per vederla ovunque. Come direbbe Heidegger, sono sempre gli altri a morire. La maggior parte di noi ha un sguardo cortissimo sulla storia della Terra. I terremoti in Abruzzo e in Emilia li consideriamo catastrofi. Ma – detto con tutto il rispetto per le vittime – per la storia della Terra sono bazzecole. L’esplosione del supervulcano di Toba di 70.000 mila anni fa portò a un inverno vulcanico che ridusse a poche migliaia gli individui di homo sapiens, rasentando la loro – la nostra – estinzione. L’esplosione di un supervulcano emette da mille a tremila volte il materiale di una grande eruzione (di tipo pliniano) come quella celeberrima del Vesuvio del 79 d.c. I supervulcani in attività nel mondo sono almeno undici, fra cui quello di Yellostone negli Stati Uniti, e quello dei Campi Flegrei in Italia, la cui caldera si alza di tre centimetri sul livello del mare ogni anno, mostrando come la camera magmatica sia in fase di riempimento. Ovviamente queste esplosioni sono molto rare nella storia recente della Terra, e la fase preparatoria può durare decenni o secoli. Ma ne sappiamo talmente poco in materia che le nostre previsioni potrebbero avere l’attendibilità di quelle circa il vulcano di Mount St. Helens nello stato nordamericano di Washington, nel 1980 che eruttò quasi all’improvviso dopo 180 anni di inattività, mentre vulcanologi e geologi cercavano ancora di leggere i pochi segnali di ripresa dell’attività. Il Mount St. Helens emise circa 0,2 chilometri cubi di magma, distruggendo 27 ettari di foresta secolare, e le ceneri trasportate dal vento danneggiarono le coltivazioni fino a 2500 chilometri. Il cono vulcanico crollò, abbassando la montagna di 300 metri. Fortuna volle che quella zona degli Stati Uniti non fosse densamente popolata e fossero già disposte cautelativamente zone d’interdizione. I morti umani furono “solo” 53. Ovviamente la stessa fortuna non vale per gli animali non umani, la cui morte è considerato un danno implicito dei cicli naturali, così come dei disastri dolosi, e mai nessuno si sognerebbe di andare a salvare scoiattoli in un bosco che brucia. Se facciamo parte anche noi umani, in quanto animali, di questi imprecisati cicli naturali, non è forse quello in questione un atteggiamento antropocentrico? Lascio al lettore il giudizio in merito.

Ma poniamo il quadro appena descritto in un diverso contesto: quali sarebbero le conseguenze sul piano politico, sociale, antropologico, giuridico, di un’improvvisa eruzione di un vulcano dalla potenza simile al Saint Helen, ma dove la densità abitativa è fra le più alte d’Italia e le misure d’emergenza assomigliano più a uno sperare in Dio che a un coerente piano d’evacuazione, strutturalmente impossibile? Mi riferisco naturalmente al Vesuvio e alla cerchia dei comuni vesuviani, per i quali l’unica misura di protezione possibile sarebbe sfollarli subito, invece che aspettare un’eruzione in stile 79 d.c., con annesso rischio di onde anomale. Dove ci porterebbe la carneficina di 700.000 umani, “connazionali”? I suoi costi, come si suol dire, per Stato e società? Il suo impatto ambientale e antropologico? Temo che come coll’11 settembre i movimenti politici ora sulla cresta dell’onda (quelli animalisti/antispecisti) conoscerebbero un reflusso drammatico, causato da uno spostamento dell’attenzione della cosiddetta “opinione pubblica” di 180°. Insomma lo slogan “ma come fate a preoccuparvi degli animali, quando ci sono tanti problemi per le persone?”, diventerebbe un’ossessione parossistica, e da ossessione verità intangibile: ora ci occupiamo delle persone. E le leggi protezioniste sugli animali d’affezione comincerebbero a restare lettera morta. Non verrebbero cancellate, ma nessun giudice si preoccuperebbe seriamente di sanzionare il maltrattamento di un cane o di un coniglio.

Ma la stessa cosa varrebbe per una bancarotta di Stato in stile Grecia, pilotata da quelle istituzioni internazionali informali come le agenzie di rating, o l’entrata in un ciclo di vera e propria depressione economica. Figuriamoci allora che accadrebbe con l’esplosione di un supervulcano in una parte qualsiasi del pianeta, che porterebbe non solo l’economia globale al collasso, ma al limite dell’estinzione l’intera specie umana. Figuriamoci che ne sarebbe della considerazione degli animali non umani.

Questi sono solo alcuni scenari, taluni più catastrofici di altri, che ho ritenuto necessario illustrare brevemente per ricordare a tutti, a me stesso innanzitutto, come – ammettiamo di nuovo questa separazione artificiosa – sia la storia umana sia, tanto più, quella della Terra, non riservi alcuna sicurezza, sia aperta a mutamenti disastrosi o perfino cataclismatici. Sia insomma, mi si perdoni la rilettura della formula di Gould e la ridondanza, un equilibrio punteggiato scarsamente in equilibrio.

Ma si tratta appunto di scenari esemplari, dunque di esempi fra centinaia. E sono esempi, nella loro imprevedibilità, prevedibili, pensabili. Per quanto la fantasia, e persino la fantascienza (nella sua capacità immaginativa radicale, spesso anticipatoria, pre-veggente) possano spingersi lontano, il futuro resta per lo più imprevedibile e impensabile, evenemenziale, cioè aperto all’imprevedibilità degli eventi, come tali sempre assolutamente nuovi e inauditi.

Rispetto ad essi, noi umani siamo impreparati due volte. Una volta per quel che si è detto: non ci si può davvero preparare al futuro. Ma una seconda volta perché neghiamo continuamente il disequilibrio che ci circonda e attraversa. Lo ammettiamo scarsamente in ambito antropico, per nulla al di fuori di tale sfera. L’evoluzione e la storia della Terra sono per noi lo sfondo bloccato, congelato, di pochi millenni di civilizzazione umana, che presa la scena, dovrebbe solo proseguire e progredire. Siamo miopi e insipienti. Per abitudine umana troppo umana, per volontà di autoinganno, per la certezza autoindotta di avere questo pianeta fra le mani con il compito di manipolarlo all’infinito.

Secondo livello: un mondo liberato, denso di potere

Ci si era proposti, poco sopra, di indagare due livelli dell’impossibilità della liberazione antispecista.

Se il primo livello si mostra facilmente accessibile alla lettura, il secondo diventa assai problematico per chi spera, me compreso, e lotta per una liberazione da ciò che chiamiamo dominio. Immaginiamo una situazione di liberazione minima. In cui gli animali umani e non umani non siano più sfruttati e comandati. Più nessun macello, allevamento, laboratorio di vivisezione, circo e via dicendo. Ma neppure divisione del lavoro e stratificazione sociale. Immaginiamo umani che lavorino a turno in fabbrica, o si occupino di mansioni fisiche, 2 o 4 ore al giorno, e per il resto si dedichino ai propri interessi. E immaginiamolo a livello planetario. Immaginiamo dunque la fine dello sfruttamento neo-colonialista globale e la fine di ogni neo-imperialismo e delle guerre. Immaginiamo un’umanità che abbia uguale accesso a farmaci e beni primari. Immaginiamola in una condizione di decrescita felice in cui agli imperativi della produzione e del consumo si sostituisca la libertà (e il piacere) di un gioco senza partite.
Un livello, appunto, minimo, di liberazione.

E già, se non abbiamo gli occhi appannati dall’euforia, appaiono evidenti una serie di problemi. Anche ammettendo, banalizzando parecchio, che questa condizione si sia prodotta attraverso la risoluzione pacifica dei conflitti in cui vi sarebbe implicata una transizione epocale inaudita, poniamoci delle semplici domande. Abbiamo parlato di istruzione: chi deciderà il nuovo livello minimo di un’istruzione sufficiente? Ci sarà bisogno che qualcuno decida? Oppure ognuno deciderà per sé? E chi sarà questo ognuno? Il singolo? La famiglia? Ma avremmo ancora famiglie? E di che tipo? E l’istruzione passerà ancora per istituzioni? Ma avremmo ancora istituzioni? E in che forma? Avremmo ancora degli Stati, uno Stato Planetario? Oppure? Forse comunità informali federate? Ma come farebbe un sistema informale a garantire le nuove regole? Avremo ancora bisogno di sanzioni e forse pene? E quindi del Diritto e di un sistema penale? Insomma ci saranno ancora galere e punizioni? Oppure… cosa?

a_passeggio_con_il_canemiciaE chi, Stato, comunità, assemblea, e di che ordine di grandezza, di che ampiezza giurisdizionale, deciderebbe che rapporto – separatismo, interazione, mescolamento – dovrebbe intercorrere fra animali umani e non umani? E secondo che graduazione, a seconda dell’umana classificazione – domestici, ex da reddito, selvatici – dei non umani? Sarà ancora giusto “avere” un cane, un gatto, un criceto, per compagno? Oppure questa sarebbe ancora considerata proprietà, schiavitù: e dunque liberazione animale significherebbe una qualche forma di interazione plurale, o, addirittura, di reinselvatichimento? E da chi? Sessantamila anni (almeno) di “amicizia” con il Canis lupus familiaris e diecimila con il Felis silvestris catus sarebbero da considerare un errore, un’ingiustizia, una mera domesticazione, un assoggettamento? E secondo chi? E nessuna possibilità di redenzione per i rapporti con i non umani ora direttamente sfruttati, come d’altra parte avviene – ora – nei sanctuaries? Più nessun contatto con mucche, maiali, capre, pecore, galline? E per decisione di chi?

Queste domande, benché gettate un po’ alla rinfusa, aprono un immenso campo di problematicità, e ci interrogano su che fine, che forma, che redistribuzione toccherà a quell’ossessione che chiamiamo sovranità in un “mondo liberato”. Se Derrida pensando in termini altermondisti, decostruisce questo moloch proprio in direzione di una sua redistribuzione, fermandosi sul limite di un futuro pensato nei termini di una “messianicità senza messianesimo”, in Agamben è proprio la messa in arresto di tutti i dispositivi della sovranità ad aprire lo spazio per un tempo messianico liberato. Quale pensiero, quale possibilità, ci può orientare, ci orienterà, a rispondere?

Eppure, se riprendiamo l’autore con cui abbiamo cominciato queste righe, ci sorprendiamo a considerare tutte le domande che abbiamo posto come, quantomeno, secondarie. Anche un mondo che definiremmo “liberato” sarebbe strutturato da quella rete di disciplinamenti che, dal basso, costituiscono ciò che chiamiamo potere. Un dominio dolce, proprio parafrasando Foucault, forse un inedito autodominio, ma ineliminabile, inaggirabile. In effetti da tempo, da parte di autori pur molto diversi come per esempio Toni Negri e l’ultimo Roberto Esposito, si tenta di pensare un biopotere positivo, affermativo, che riconnetta il potere alla potenza intesa nell’accezione di una capacità creativa inesauribile in grado di trasformare l’ordine dal suo interno, liberando così il bìos (noi forse diremmo la zoé) come norma-di-vita mobile ed eccedente, contrapposta (sebbene interna) a quelle forze – Stato, mercato, Diritto – che pur continuando a pensarsi tradizionalmente sono da decenni – se non secoli – ormai orientate dalla cattura del bìos stesso (della stessa zoé).

Queste prospettive, che si articolino lungo linee rivoluzionarie o riformiste (ma queste parole sono già insufficienti perché si mantengono in un lessico tradizionale che ne trattengono il potenziale innovativo), hanno il pregio non solo di mostrare, ancora una volta, il doppio legame che corre fra vita e potere, proponendone un’ottica rovesciata, affermativa appunto, ma anche che il potere non è una sorta di escrescenza eliminabile con un’azione o una serie di azioni di taglio. Ciò che conta è piuttosto l’uso che si fa di questo potere che corre aderente alle stesse linee di fuga e agli stessi intrecci della vita.

Liberazionisti senza liberazione?

Possiamo naturalmente, com’è corretto, affrettarci a distinguere fra potere e dominio, fra potere e sovranità, fra sovranità e forza. Ma questo distinguere non ci distolga dal legame che continua a trascorrere fra gli elementi che distinguiamo. Perché ogni potere contiene una forza in potenza, ogni forza istituisce una qualche sovranità, e ogni sovranità impone una qualche forma di dominio. Che la possibilità che fino ad ora abbiamo trattato sia quella di un mondo conflittuale in cui la lotta non può avere fine, o quella di una liberazione da un sistema fondato s’una sconfinata violenza istituzionalizzata, il potere, (insieme alla sovranità, e perfino a forza e dominio) sarà quella “cosa” (difficile dopo tutte queste righe darne una definizione netta ed esclusiva) di cui è difficile immaginarci potersi liberare.

Ovviamente la possibilità che più ci inquieta è quella di un conflitto senza esito finale. Potrebbe essere una possibilità concreta, fondata su una necessità strutturale con cui ci piace poco fare i conti, a noi liberazionisti, radicali o meno. Il senso di questo testo non vuole affermare alcunché di certo – lo si è già detto e ripetuto – né tanto meno invitare allo scoraggiamento o alla rinuncia. Ma solo porre una questione che a questo punto della riflessione antispecista è – o dovrebbe essere – matura per essere affrontata. Il mondo potrebbe essere la culla di possibilità infinite, oppure no. Potrebbe invece offrire solo l’avaro spazio che la lotta riesce ad aprire fra le varie addentellature di parti di un meccanismo, la piegatura e ripiegatura infinita delle linee e delle correnti del potere che ci attraversa e ci costituisce contro il potere stesso, in direzione divergente e dislocante. In ogni caso, mi pare, dobbiamo essere pronti. Pronti a non smettere di lottare. Anche una lotta senza esito.

Postilla: salvezza dalle catastrofi?

Sarebbe facile immaginare che qualcuno dei cataclismi naturali enumerati sopra possano aprire la strada ad un nuovo inizio, riportare questo pianeta ad un fertile eden, in cui l’uomo cesserebbe il suo esorbitante dominio sugli altri viventi e su se stesso. Ma sarebbe rincorrere favole, di quelle favole che sono solo illusioni superstiziose e insegnano solo la loro stessa pericolosità. Un evento cataclismatico spazzerebbe via gran parte della vita, umana e non umana, dalla terra, se non la vita intera. E già questo non mi parrebbe un gran vantaggio. Ma se anche si limitasse a mettere in scacco la potenza tecnoscientifica dispiegata attraverso l’uomo liberando, umani e non umani, dai più materiali dispositivi del dominio, resta difficile immaginare come tratterrebbe umani disperati, abitanti di un pianeta devastato ed avvelenato, dal commettere violenze, in proporzione, più dirette ma solo poco meno sistematiche. Non si sta – di nuovo – favoleggiando del bellum omnis contra omnia che inerirebbe ad un fantasmatico stato di natura. Si sta invece parlando del collasso improvviso di un mondo, caratterizzato dall’esondare della civilizzazione umana, della sua violenza, ma anche dal suo radicamento degli umani in esso. Una catastrofe planetaria non è né una rivoluzione né una restaurazione, né una rottura direzionata del corso della storia né il ripristino di una condizione originaria. Piuttosto un’apocalisse senza rivelazione di alcunché. Qualcosa di più simili agli scenari post-atomici del cinema che all’ottimistico Cronache del dopobomba di Dick.

In un altro senso, spostandoci lungo la linea dove le azioni umani s’intersecano in maniera disastrosa con la natura in cui l’umano è radicato, non mi pare che neppure alcuna pedagogia delle catastrofi (avvenute) rappresenti un qualsiasi appiglio su cui far leva per un cambiamento. Dalle esplosioni sperimentali e belliche delle armi atomiche e i loro effetti anche a lungo termine, ai prodromi disastrosi del global warming, da Chernobyl a Fukushima, dal disastro petrolifero della Exxon Valdez (Alaska, 1989) a quello della Deepwater Horizon (Golfo del Messico, 2010), sembra che fatta salva qualche miglioria tecnologica (evidentemente non sufficiente), le nostre classi dirigenti se ne siano sempre fregate della radice del problemi. Ma quel che è peggio è che la cosiddetta “opinione pubblica” non sia stata scalzata dalle proprie poltrone neppure da emozioni semplici come la paura. Non dico l’indignazione o il “furor civile”. Ma la semplice paura di venire avvelenata, irradiata, sfollata dalla desertificazione, ammazzata in un momento dal dissesto idrogeologico. Se in Italia il referendum sul nucleare non fosse caduto pochi giorni dopo Fukushima, in piazza saremmo scesi i soliti quattro personaggi un po’ folklorici. La spiegazione di questa vacanza ormai perenne dalla realtà sta nel fatto che se dobbiamo parlare di pedagogia delle catastrofi dobbiamo farlo nel senso di un’educazione graduale alla tolleranza allo stesso modo in cui si fa con una medicina dagli effetti collaterali devastanti. Pedagogia delle catastrofi sta, al contrario dell’ottimismo con cui è stata coniata la formula, per: insegnare a tollerare il sempre peggio, insegnare a legittimare, anche indirettamente, la megamacchina energivora che ha trasformato il pianeta intero in un latifondo dell’Occidente, e noi stessi umani, insieme a tutti i viventi, in risorsa dello stesso inarrestabile, processo. Imparare a tollerare la devastazione del pianeta è imparare a tollerare e legittimare la schiavitù umana e non umana.

La strada, insomma, non illudiamoci sia questa. Ci vuole ancora lotta e conflitto.

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