Una lettura del Decreto Minniti tratta da Internazionale.
Quando ho saputo della morte di quest’uomo avevo appena letto il decreto sicurezza emanato dal governo, quello che recita all’inizio:
Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale.
E prosegue con:
I patti per la sicurezza urbana perseguono, prioritariamente, i seguenti obiettivi: […] b) promozione del rispetto della legalità, anche mediante mirate iniziative di dissuasione di ogni forma di condotta illecita, comprese l’occupazione arbitraria di immobili […] nonché la prevenzione di altri fenomeni che comunque comportino turbativa del libero utilizzo degli spazi pubblici.
E poi con:
Fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300. Contestualmente alla rilevazione della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato […] l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto.
Ho pensato che con questo decreto sarebbe stata spazzata via anche quella minima dignità che loro due hanno potuto conservare in questi venticinque anni, contando sull’umanità delle persone che gli hanno dato un riparo: alle volte ospitandoli in casa (capita, sì), alle volte accompagnandoli in ospedale, alle volte trovandogli un lavoro. Persone che non li hanno denunciati perché “minacciavano il decoro”, che li hanno a loro modo aiutati anche solo comprandogli da mangiare, seguendoli nelle situazioni più difficili (per esempio, i volontari della Comunità di sant’Egidio che sono andati a trovarli due volte a settimana, da sempre).
Due storie, due destini
Il primo è un signore polacco a cui da giovane dicevano che somigliava a Steve McQueen. In Polonia faceva il boscaiolo, la crisi degli anni novanta l’aveva portato qui in Italia. Non è riuscito mai ad ambientarsi, dopo trent’anni parlava ancora male l’italiano. Ha sempre vissuto in strada campando di elemosina: qualcuno era più generoso con lui perché viveva con dei cani. Un carattere terribile, distrutto dall’alcol, i suoi tentativi di rientrare in Polonia, anche semplicemente a morire a casa delle figlie, erano andati tutti a vuoto: era tornato sempre qui, è morto in ospedale da solo.
Il secondo è anche lui polacco. Si era trasferito in Russia prima della caduta del comunismo, lavorando come fabbro. Aveva una famiglia e non se la passava male, era riuscito a mettere da parte l’equivalente di centomila euro di oggi; poi, con l’arrivo di Boris Eltsin e la svalutazione del rublo, si era ritrovato povero e senza lavoro ed era venuto in Italia, la famiglia sfasciata. Si è fatto un po’ di galera perché l’avevano sorpreso a rubare una macchina: tre anni e mezzo (tre anni e mezzo per il tentato furto di un’auto!), non parlava bene l’italiano e non sapeva nemmeno come scegliersi un avvocato e non si era presentato all’udienza il giorno giusto.
Ha abitato ovunque: spesso ha dormito semplicemente in un prato con una tenda o una coperta. Per qualche anno è stato in un casale abbandonato del comune che non si decidevano a risistemare. Poi in un edificio di proprietà di un importante gruppo immobiliare romano, mai completato perché la magistratura aveva bloccato i lavori – i tetti erano più bassi rispetto all’altezza prevista dal contratto, con l’evidente intenzione di cambiare destinazione d’uso da uffici ad appartamenti.
Dentro questo scheletro di palazzo si era creato una baracca che era una specie di minuscola casa; fa il fabbro, ma sa lavorare bene anche altri materiali oltre il ferro. Una baracca tenuta bene, pulita, ci viveva con una nuova compagna anche lei polacca e anche lei senza fissa dimora da anni, e un cane. Ogni tanto ha lavorato costruendo cancelli, ringhiere; quando era senza niente si metteva a chiedere soldi davanti a una chiesa. Si è salvato la vita per un pelo non so quante volte, da risse con i coltelli per qualche futile motivo, da aggressioni notturne, dalle malattie di chi vive per strada (broncopolmoniti, infezioni). Molti suoi amici sono morti, alcuni in modo terribile – uno di febbre petecchiale seduto sulla panchina davanti a una chiesa, un altro di freddo nei giardinetti poco vicino, uno carbonizzato sotto un viadotto (beveva moltissimo e aveva cominciato a bere alcol denaturato a 90 gradi; un pomeriggio gli si è rovesciato sul materasso mentre aveva una sigaretta accesa e ha preso fuoco).
Da sei mesi quest’uomo ha smesso di bere: è la cosa più straordinaria che mi sia capitato di vedere ultimamente. È alcolizzato da quando lo conosco, e a suo dire beveva da quando aveva sedici anni. La sanità pubblica, la straordinaria sanità pubblica italiana che ancora non è stata smantellata e funziona, gli ha consentito di fare un percorso di disintossicazione che sta seguendo pedissequamente: prende i medicinali con regolarità, va all’incontro con il medico ospedaliero che lo segue due volte a settimana, da settembre non beve nemmeno un goccio. Ha cominciato a lavorare di più, da quasi dieci giorni vive con la compagna e il cane in una stanza in affitto a cinquecento euro vicino al raccordo anulare.
Da quale cultura politica nasce un decreto sicurezza del genere? Com’è possibile che un partito come il Pd l’abbia concepito?
Mettere insieme storie di questo tipo – la maggior parte resta sconosciuta, anche se qualcuno le conosce o le immagina – con il testo del decreto legge sicurezza produce una sensazione di spiazzamento prima ancora che di rabbia. Da quale cultura politica nasce una normativa del genere? Com’è possibile che il ministro dell’interno Marco Minniti la difenda? Com’è possibile che un partito come il Pd, che si dichiara di sinistra, l’abbia concepita? Quale stupida infatuazione per una demagogia di infimo livello ha voluto al centro di un’azione politica il fantasma del “decoro urbano”?
Se le guardiamo con un po’ di distanza, le faticosissime vite di questi due uomini incrociano storie di cattiva urbanistica, di corruzione amministrativa, di criminalità organizzata, di abusivismo edilizio: stare per strada è una scelta tanto quanto una condizione determinata da cattive e inefficaci politiche urbane strutturali, che non solo non la contrastano ma la creano, questa marginalizzazione sociale. Lo spiega bene Tamar Pitch in Contro il decoro, e i cento dibattiti che ne sono seguiti.
Chi si vuole colpire allora? Chi sono le vittime di sgomberi e multe che regalano un potere arbitrario a sindaci-sceriffi, autoparodie di Rudolph Giuliani all’italiana? Davvero l’unico immaginario a cui attingere per chi vuole progettare le città del futuro è quello di un leghismo impaurito dai senza fissa dimora o dai conflitti che esistono nelle realtà urbane? Già negli anni settanta Richard Sennett – in Declino dell’uomo pubblico e soprattutto in Usi del disordine – ragionava su come le persone che vivono nelle aree metropolitane e nei centri di grande disordine (culturale, sociale, etico) spesso assumono un carattere adolescenziale anche nella vita adulta, inseguendo il mito di una comunità purificata.
A partire dalle analisi di Talcott Parsons, Sennett riconosceva che in molte politiche urbane il “noi comune” – che non è una comunità, ma un feticcio di comunità – è utilizzato per permettere agli individui di difendersi dal disordine, dal famigerato degrado. Questi desideri di coerenza, di esclusione strutturata e di un’identità interna vengono messi in pratica se è possibile dividere intere regioni urbane per classe, razza, appartenenza etnica, o se si possono punire i trasgressori di questo progetto distopico, ossia i poveri.
Gli individui protetti possono così ritirarsi nelle loro case, indipendenti e autonome, case dotate di allarme, appartamenti in comprensori protetti dalla vigilanza privata. Una vita domestica che si mangerà l’intero spettro della vita sociale. E così le città, i quartieri si svuoteranno, di significato e di vita, e lasceranno il campo a un meraviglioso spazio inerte e vuoto, una morbida apocalisse del decoro [per approfondire l’evoluzione della socialità contemporanea, vedi Giuseppe Nicolosi, Ponti di barche e architettura della simpatia, nota mia].
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