Diego Angelo Bertozzi, Il primo maggio durante il fascismo

by gabriella

Il 19 aprile del 1923 Mussolini, dall’ottobre a capo di un governo di coalizione tra forze cosiddette nazionali, annuncia:

il giorno 21 aprile dedicato alla memoria della fondazione di Roma sarà celebrata in tutto il Regno d’Italia la Festa Nazionale del lavoro e saranno passati in rassegna i reparti della Milizia volontaria” [1]. Il capo del governo giustifica così la decisione alla Camera dei Deputati: “La grande guerra, che ha valorizzato ogni manifestazione di attività, ha sviluppato anche in tutte le classi una più profonda coscienza delle energie e del lavoro individuale. Celebrare, in un giorno all’anno, queste energie e questo lavoro è sprone ad una più fervida, proficua attività collettiva e nazionale; ed è bene che ciò sia formalmente riconosciuto in una legge dello Stato. E perché la celebrazione si ricongiunga ai ricordi della nostra storia e del genio della stirpe, il Governo ha voluto farla coincidere con la data del 21 aprile: la fondazione di Roma, data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia.

Tutta la retorica fascista, che per un ventennio coprirà e silenzierà il Paese, è qui utilizzata per cancellare dal calendario la manifestazione del Primo Maggio, che solo l’anno prima il presidente del Consiglio Facta aveva riconosciuto come giornata festiva, e per sostituirla con una di regime. Così, alle spedizioni punitive e alle efferate violenze contro le organizzazioni operaie socialiste e comuniste, tollerate quando non sostenute dagli organi statali, segue con puntualità l’attacco finale al simbolo per eccellenza del movimento dei lavoratori: quel Primo Maggio che dal 1890 ne seguiva sviluppi, vittorie e sconfitte.

Già negli anni precedenti in questa occasione lo squadrismo fascista aveva fatto sentire la sua presenza, tanto che nel 1921 per l’Avanti! ci si trovava di fronte al Primo Maggio

“il più tragico, il più tempestoso, il più significativo tra quanti ne ha solennizzati la classe lavoratrice d’Italia”.

In quasi tutto il Paese, nonostante l’astensione del lavoro sia stata ancora considerevole a Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze e Roma, la manifestazione si era svolta senza bandiere, senza musiche, canti e apparati festivi e organizzare comizi costituiva una intollerabile insolenza di fronte alla mobilitazione fascista.

“Volete la salute? Lavorate il 1° Maggio”,

recitava perentoriamente un avviso. A Torino, impedito il corteo e lo sfoggio di bandiere rosse, si era sfilato davanti alle rovine della Casa del Popolo devastata nei giorni precedenti, a Firenze si erano svolte riunioni al chiuso mentre a Mantova il terrore nero aveva costretto alla amara decisione di evitare qualsiasi manifestazione pubblica.

Portare il classico garofano rosso all’occhiello o un fazzoletto rosso intorno al collo significava – e continuerà a farlo per molto – diventare in automatico un bersaglio della violenza. Nel 1922 nel Bolognese si sono contati tre morti e una cinquantina di feriti, mentre a Milano, alla fine dei comizi, una caccia all’uomo dei fascisti ha causato un morto e il ferimento di due persone. A Mantova le coraggiose operaie filatrici che, vestite di rosso e adornate di coccarde, nastrini e di garofani, hanno deciso di attraversare la principale via della città sono state insultate e percosse dalle squadre di Farinacci. Come ricorda lo storico Francesco Renda nel 1922

«solo nella giornata del 1° maggio in 26 centri furono effettuale aggressioni, sparatorie, scontri vari con 6 morti e 25 feriti; fra le città violentate c’erano Milano, Reggio Emilia, Bologna, Rovigo, Alessandria, Brindisi, Perugia, Vercelli» [2].

La decisione mussoliniana di abolire definitivamente la Festa dei lavoratori è la conseguenza di un potere che si va sempre più stabilizzando sulle macerie della sconfitta del movimento operaio e che si avvia a passi decisi verso la definitiva torsione autoritaria. Un decisione che, a conti fatti e con il senno di poi, si rivelerà controproducente. Gli altri regimi di derivazione fascista, e più di tutti il nazismo tedesco, non cancelleranno il Primo Maggio, non gli opporranno una giornata ufficiale senza robuste radici storiche, preferendo, invece, sfruttarne la tradizione di mobilitazione e la forza evocativa declinandola in senso nazionalista o castrandola in generica glorificazione del lavoro[3]. Considerazione, questa, che leggiamo anche sull’Avanti:

«Quel duce o viceduce che escogitò la originale pensata di far Primo Maggio […] il 21 aprile, non fu buon psicologo come deve essere un demagogo, ossia un conduttore di popolo. In questa faccenda del 21 aprile, non l’hanno imbroccata bene. Regola generale, non toccate alla gente le sue feste, non toccatele certe tradizioni, certi nomi. […] Così, e peggio, delle feste, siano esse antiche, o siano, come il Primo Maggio, entrate nell’uso da tempo e accolte da simpatie sempre più larghe. È il Primo Maggio, la festa, o la giornata, del Lavoro, della fede socialista, della aspirazione proletaria. Voler celebrare qualcosa di simile, in un altro giorno, significa voler contrapporre, voler dividere, e voler dividere è indebolire, e ogni cosa che divide è, per definizione, krumira” [4].

Fin da subito comunisti e socialisti sottolineano l’inutilità di questa decisione perché un simbolo come il Primo Maggio non si cancella – e neppure si concede – per decreto anche perché la sua natura è internazionalista e come tale è sempre stata vissuta [5]. Netta è, inoltre, la contrapposizione, perché antitetici sono ideali e valori, alla nuova giornata celebrativa introdotta dal nascente regime fascista. La manifestazione operaria ha ora un nuovo nemico, per quanto sclerotizzato nella sua ufficialità di parata di graduati e gallonati. Due stralci tratti da articoli de L’Unità sono esemplificativi a questo proposito:

«Nel 21 aprile i capitalisti e i proprietari terrieri festeggiano i tempi dell’Impero, i tempi in cui i proprietari romani tenevano sotto il loro tallone di ferro il mondo allora noto e, soprattutto, tenevano stretti i lavoratori alle catene della schiavitù. Il 21 aprile i nostri capitalisti risognano il sogno di ridurre alla schiavitù antica il proletariato italiano. 21 aprile e fascio littorio sono i simboli storici della schiavitù nei rapporti di classe. […] I proletari d’Italia, ridotti a schiavitù dal fascismo, nel Primo Maggio, sentono di rivivere in loro la tradizione di Spartaco» [6]; e ancora: «Il fascismo, che ha combattuto e vinto il proletariato per conto dei capitalisti, dei padroni, della monarchia, ha soppresso la data del 1° Maggio, e con tutte le libertà popolari ha tolto anche ai lavoratori quella di celebrare questa giornata di fede e di lotta. Il fascismo ha sostituito il 1° Maggio rosso con il 21 aprile nero. Ma il 21 aprile non dice ai lavoratori ciò che dice il 1° Maggio. […] Il 21 aprile è un giorno di esaltazione della potenza militare, della guerra, del fascismo. È la giornata dell’oppressore. In ogni casa di lavoratori, il 21 aprile, si fa questo bilancio: cosa eravamo noi prima del fascismo, cosa siamo noi oggi, dove andiamo a finire» [7]. Nel 1933 su Battaglie Sindacali, organo della CGL, si può leggere l’articolo «Contro il 21 Aprile degli affamatori del popolo! Per il Primo Maggio proletario!»

nel quale gli operai sono invitati a trasformare la manifestazione fascista in manifestazione di massa contro il regime.

Ad accettare, invece, in qualche modo la calata del sipario sulla giornata operaia sono i popolari che, per bocca della Confederazione italiana dei lavoratori, invitano a seguire le indicazioni delle autorità e degli industriali in vista del 21 aprile e i repubblicani che parlano ormai di una solennità proletaria che ha

«perduto irrimediabilmente gran parte del suo fascino antico» e per la quale «non valga più la pena ormai di impegnare su di essa una grande battaglia».

Tutt’altra è la posizione del Partito comunista d’Italia: la strenua difesa dei diritti dei lavoratori e la lotta al fascismo passano attraverso la difesa e il rilancio della manifestazione operaia che, dopo la sconfitta subito ad opera del fascismo, ha ritrovato

«tutto il suo antico significato» e «resterà, ormai, nell’avvenire, giorno di lotta e di raccolta» [8].

Nel 1924, all’indomani delle elezioni politiche, è rivolto senza successo un invito ai socialisti massimalisti del Psi e ai riformisti del Psu a dare vita, in ossequio alla parola d’ordine del Fronte unito dal basso, ad una manifestazione unitaria all’insegna dell’astensione del lavoro. L’intento è quello di dare una prova di forza:

«Se si riuscirà ad evitare che la festa internazionale dei lavoratori passi inosservata, se i lavoratori avranno tanta forza da attuare una larga estensione dal lavoro, la classe lavoratrice avrà ottenuta un’altra vittoria, molto più significativa e promettente di quella elettorale» [9].

Nelle principali città, nonostante intimidazioni, violenze e clima da terrore, si segnalano ancora astensioni dal lavoro, ma ad imporsi sono sempre più segni e gesti, atti di fede e di sfida che, benché isolati, mantengono vivo il ricordo del Primo Maggio, facendone già giornata di resistenza. Nell’anno in questione a Torino è fatta volare in aria, grazie a una ventina di palloncini, una enorme bandiera rossa e un piccolo gruppo di operai si reca al cimitero con due enormi cuscini di garofani rossi per commemorare i caduti «nella lotta contro gli sfruttatori», mentre a Roma si sfila in silenzio sotto la bandiera rossa apparsa sul balcone dell’ambasciata sovietica e l’onorevole Picelli issa sull’asta del Parlamento un drappo rosso.

La repressione per il 1° Maggio non è certo una novità. Era già calata con intermittenza nei primi anni della sua esistenza (in Italia dal 1890 fino al 1901), quando il movimento socialista viveva in una legalità assai precaria, ma ora diventa sistematica e capillare. Dal 1923 è sguinzagliata la milizia fascista per intimidire i lavoratori nelle fabbriche, per aggredirli o purgarli, mentre le autorità di pubblica sicurezza sono chiamate, fin dai giorni precedenti, a stroncare qualsiasi movimento collettivo sospetto e a prevenire ogni attività individuale. Retate, arresti preventivi, sequestri di volantini, manifesti e di fogli sovversivi diventano normalità. Festeggiare il Primo Maggio è ormai un reato duramente punito, tanto che Critica Sociale pubblica nel 1927 un editoriale dall’evocativo titolo “Senza data”. A partire da quell’anno, in linea con le leggi eccezionali, entra in azione anche il Tribunale Speciale dello Stato che commina pesanti condanne: nel solo 1928, per aver celebrato il 1° Maggio, sette operai di Trieste, cinque di Verona, tre di Torino e uno di Milano sono condannati a più di 102 anni di carcere.

Ricorda il comunista confinato Celeste Negarville:

“Non si trattava, è chiaro, di fare delle manifestazioni di massa, ma si trattava di fare una manifestazione comunque, anche nelle mani del nemico, anche nelle condizioni in cui l’oppressione assume una forma diretta”.

E, così, neppure i confinati politici rinunciano alla manifestazione, anche nella semplice, quanto dirompente, forma di una sfilata in paese con i vestiti delle festa e le scarpe tirate a lucido, oppure con un discorso in camerata davanti ad una tavola più imbandita del solito [10]. A viverla nell’intimità sono anche semplici militanti come la donna romagnola che scrive una lettera all’Unità raccontando il suo gesto solitario: la deposizione di fiori rossi sulla fossa di compagni di lotta in memoria di

«tutti i martiri di ieri e di oggi che all’avvenire proletario hanno consacrata e sacrificata la loro esistenza» [11]

Resistenza privata, gesti audaci e la presenza politica – quest’ultima a partire dalla svolta comunista dei primi anni ’30 – di avanguardie comuniste vecchie e nuove si uniscono nel mantenere in vita il Primo Maggio e per farne, al contempo, giornata di riflessione e di lotta antifascista, trovando anche la crescente solidarietà di diverse forze democratiche. Le cronache, anche se sempre più sparute de L’Unità, come i rapporti dei prefetti ne danno chiara testimonianza. Riporta l’organo comunista nel 1930:

«Tacciono sulle molte migliaia di Unità e Avanguardia che sono state distribuite il Primo Maggio, malgrado le eccezionali misure di polizia. Tacciono sui centomila manifestini che hanno inondato da un capo all’altro l’Italia. […] Tacciono sui cortei avvenuti – improvvisati – al canto di Bandiera rossa a Lugo e in qualche altro paese dell’Emilia Romagna. […] Tacciono sulle molte migliaia di arresti preventivi, sulle centinaia di perquisizioni, sulla mobilitazione di tutte le forze armate che non sono riuscite ad impedire la manifestazione del Primo Maggio [12]».

Oltre alle richieste politiche [13] – ancora velleitarie visti i rapporti di forza – che sono lanciate attraverso stampa e manifesti clandestini, a dare dimostrazione di un recuperato significato di lotta da parte del Primo Maggio sono soprattutto le tante testimonianze di gesti di ribellione che arrivano da tutto il Paese. A Torino nel 1927 si approfitta del passaggio del Giro d’Italia, e del conseguente assembramento di tifosi, per lanciare bandierine e volantini e attaccare drappi rossi alle biciclette di due concorrenti; a Milano, invece, nella mattinata i tram escono dai depositi pavesati di bandiere rosse e carichi di volantini e giornali clandestini. Nel 1930, sempre a Milano, alcuni taxisti si dirigono verso diverse zone della città per distribuire volantini fuori dalle fabbriche, mentre a Modena, Reggio Emilia e nel Ravennate i fascisti devono mobilitarsi per levare le molte bandiere rosse esposte su pali e alberi. Nel 1932 a Imola la distribuzione di volantini avviene mentre si svolge una sentita processione religiosa. Nel 1934 a Roma l’invito di un gruppo clandestino antifascista a sfoggiare per l’occasione una cravatta rossa genera un vero e proprio allarme, con la polizia che si mette a caccia di chi le sfoggia e ferma anche chi le porta per puro caso. La volontà fascista di togliere la manifestazione anche dal calendario ribelle è così tenace da confinare con la psicosi: in Romagna gli squadristi irrompono nelle case in cerca di tortelli, solitamente serviti sulle tavole nei giorni di festa.

Sono questi solo alcuni esempi, forse i più clamorosi, della volontà di avanguardie e lavoratori di ricordare al regime che la cancellazione del 1° Maggio per decreto è rimasta solo sulla carta. Per tutto il ventennio scritte sovversive sui muri – sempre più quelle inneggianti a Stalin e all’Urss – drappi rossi su alberi e edifici e piccole riunioni private sono segnalate a Pavia, Varese, Como, Verona, Sondrio, Bergamo, Brescia, Goriza, Trieste, Udine, Venezia, Vicenza, Padova, Rovigo, Livorno, Pescara, Benevento, Foggia, Cosenza, Roma, Ragusa, Cagliari, Taranto e Trapani [14].

A partire degli anni ’30 il 1° Maggio recupera anche il suo originario significato internazionalista. L’opposizione all’imperialismo si unisce alla lotta contro la dittatura quando si fa sempre più imminente l’aggressione fascista all’Abissinia e crescente è il timore di una nuova guerra mondiale che possa trovare nell’Urss la vittima predestinata.

Nel 1932, accanto alle richieste per l’aumento dei salari, la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, compare l’invito ad opporsi all’invio di navi da guerra e di soldati in Cina e a mobilitarsi a favore della Russia sovietica. L’Unità titola a tutta pagina “Contro il fascismo, contro la guerra, per un Primo Maggio di riscossa proletaria!” e invita a trasformare la guerra imperialista in insurrezione a armata. La difesa dell’Unione Sovietica è intimamente legata a quella dei diritti dei lavoratori:

Questo paese che è diretto dagli operai e dai contadini e che compie uno sforzo gigantesco verso il benessere delle masse è un cattivo esempio per gli operai e i contadini soggetti allo sfruttamento capitalistico: contro di esso bisogna muovere una guerra che lo restituisca ai padroni, agli sfruttatori. Se il piano dei capitalisti riuscisse i lavoratori di tutto il mondo (e non solo quelli della Russia) piomberebbero per lunghi anni in una schiavitù di fronte alla quale quella fascista attuale sarebbe un ricordo di libertà” [15].

“Compagna”, il quindicinale comunista dedicato alle donne, invita alla lotta contro l’imperialismo giapponese in Cina:

“Tutte unite noi dobbiamo preparare un Primo Maggio Rosso, un Primo Maggio di lotta contro la guerra. Tutte unite dobbiamo lottare contro i nostri sfruttatori, contro i padroni, contro il fascismo. Lottiamo a fondo con tutte le nostre forze, a fianco di tutti i lavoratori, per la difesa dell’Urss e per una Cina sovietica!”.

Un volantino diffuso nel 1935 nel modenese invita ad aiutare i soviet proclamati in Cina a

“liberarsi dal giogo degli imperialisti cinesi, giapponesi, inglesi, americani, italiani” e sostenere, “fraternizzando coi fratelli di classe dell’Etiopia”,

l’eroica resistenza dell’Abissinia contro le mire fasciste [16]. Nel 1931, in occasione del suo ultimo 1° Maggio, lo storico leader del socialismo italiano Filippo Turati aveva chiamato il proletariato a combattere il militarismo e l’imperialismo: il fascismo – recitava l’articolo –

è la faccia interna dell’imperialismo; l’imperialismo è il fascismo tra le nazioni. Il fascismo non può vivere senza esaltare e preparare la guerra. Dire dunque disarmo e pacifismo è dire implicitamente guerra e morte al fascismo.

Mentre con il passare degli anni, e soprattutto con lo scoppio della guerra mondiale, la stretta fascista si fa sempre più capillare e le pubblicazioni a stampa calano drasticamente, compaiono, invece, sempre più scritte sovversive a sostegno della “Spagna rossa”, impegnata a difendersi contro il golpe franchista sostenuto da nazisti e fascisti, e della Russia di Stalin. La voce comunista tornerà a farsi sentire in occasione del Primo Maggio del 1942, all’indomani del rientro dei suoi quadri in Italia, con un manifesto che ribadisce la necessità di farla finita con il fascismo per imporre la pace e salvare l’Italia dalla catastrofe attraverso il sabotaggio della guerra:

Nelle giornate del Primo Maggio 1918-19-20, la vostra unione e azione aveva strappato ai capitalisti la giornata di lavoro di otto ore, l’aumento di salari, la libertà di organizzazione, di riunione e di stampa, avete impedito la continuazione della guerra e l’invio di soldati e materiale bellico contro la giovane Unione Sovietica. Lavoratori, madri, spose, soldati, italiani! Voi potete far cessare questa terribile e ingiusta guerra di Mussolini e Hitler. Per il 1° Maggio fate il vostro dovere. Impegnatevi a disertare, a rallentare, a sabotare la produzione. [17].

L’avvio della resistenza armata nel Nord Italia, il rinnovato protagonismo operaio con gli scioperi del 1943, nonché la notizia della vittoria sovietica a Stalingrado, danno al Primo Maggio una rinnovata vitalità, a dimostrazione che venti anni di dominazione fascista non sono valsi a cancellarlo.

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Nel 1944 importanti astensioni dal lavoro si segnalano in diversi stabilimenti milanesi, astensioni e sospensioni del lavoro a Torino, Genova, Novara e Pavia [18]. Nella parte del Paese liberata per la prima volta si è tornati a manifestare liberamente e, nell’occasione, è avviata una sottoscrizione per sostenere la lotta di liberazione19. Quello del 1945 sarà il Primo Maggio della liberazione, finalmente uscito dalle catacombe, nel quale si esprimono nuovamente e alla luce del sole, con la parola d’ordine dell’unità della classe operaia, gli ideali di emancipazione soffocati per un ventennio. Per l’Unità è una giornata di rinascita nazionale e di promesse:

«Lavoratori! Partigiani! Popolo italiano! Il 1° Maggio 1945 sia una giornata di mobilitazione unitaria di tutto il popolo per la rinascita nazionale! I nostri morti ci chiedono di marciare decisamente sulla via della ricostruzione di un’Italia libera, democratica, progressiva dove il popolo che ha preso in mano il suo destino, possa intravedere un avvenire più felice nella pace e nella libertà!» [20].

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NOTE

1 Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Gabinetto, Atti 1922-1924, Fascicolo 2.4-1, Comunicato per la “Stefani” e per la stampa.
2 Francesco Renda, Storia del Primo Maggio. Dalle origini ai nostri giorni, Ediesse, Roma, 2009, pag. 194.
3 Nel 1941 il governo collaborazionista di Vichy, guidato dal maresciallo Petain, dichiarerà il Primo Maggio “Festa del lavoro e della concordia sociale”. Per questo aspetto si veda M. Dommanget, Histoire du Premier Mai, Le Mot Et Le Rest, 2006.
4 Il Natale di Roma. Germinale in ritardo, L’Avanti!, 21 aprile 1923
5 Durante il ventennio sono molti gli articoli che L’Unità dedica alle manifestazioni di Mosca, Parigi e Madrid e Barcellona e più volte gli emigrati italiani più politicizzati sono invitati a parteciparvi.
6 21 Aprile, L’Unità, 1 aprile 1930
7 Questo 1° Maggio, L’Unità, N. 6, 1935
8 Disertate o falangi di schiavi, dai cantieri dall’arse officine, L’Unità, Numero speciale 1° Maggio 1924, Appello del Partito Comunista d’Italia e della Frazione Terzinternazionalista del Psi.
9 Una proposta incomoda, L’Unità, 17 aprile 1924
10 Testimonianze e ricordi si trovano, oltre che nel recente libro di Renda già citato, anche in lavori come R. Zangheri, Storia del primo maggio, Aiep Editore, San Marino, 1990 e M. Massara, C. Schirinzi, M. Sioli, Storia del Primo Maggio, Longanesi, Milano, 1978.
11 Il 1° Maggio di una lavoratrice, L’Unità, 15 maggio 1924.
12 La manifestazione del Primo Maggio in Italia, L’Unità, giugno 1930. Un resoconto simile nei toni lo si ritrova anche in Le manifestazioni del Primo Maggio, L’Unità, luglio 1931. Sul particolare impegno profuso dal Pci, proprio in conseguenza della svolta, in occasione del 1° Maggio si veda P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Vol. II, Einaudi, Torino, 1969 pag. 289.
13 Tra queste, nel 1931, ci sono l’aumento di 20% di tutti i salari, dieci lire al giorno e casa gratis ai disoccupati, libere elezioni delle commissioni operaie interne, liberazione dei prigionieri politici e la soppressione del Tribunale speciale.
14 Le segnalazioni dei prefetti sono raccolte e ordinate in Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di PS, Affari generali e riservati, K9.
15 Contro il fascismo, contro la guerra, per un Primo Maggio di riscossa proletaria!, L’Unità, 25 aprile 1932.
16 Il testo completo del volantino è in G.C. Donno, Storie e Immagini del 1° Maggio, Piero Lacaita Editore, Bari-Roma 1990, pag. 134.
17 Manifesto pubblicato in M. Massara, C. Schirinzi, M. Sioli, op.cit., pag. 220-221.
18 Le notizie sono riportate dai Notiziari giornalieri della Guardia nazionale repubblicana, ora disponibili in rete grazie al lavoro del Museo dell’industria e del lavoro di Brescia all’indirizzo http://www.notiziarignr.it/
19 Il 1° Maggio non si cancella dall’animo dei lavoratori italiani, L’Unità, 10 maggio 1944.
20 Il Partito comunista italiano, L’Unità, 1 maggio 1945.

Tratto da: http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/1601-il-primo-maggio-contro-il-fascismo-e-la-guerra.html

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