Kurdi

by gabriella

Sfida alla morte nelle carceri turche

Da nove settimane 700 persone sono in sciopero della fame. Tra loro una giovane insegnante che lotta perchè si possa parlare la lingua curda e perchè la cultura di un popolo non sia fuorilegge.

Di Pablo Trincia, La Stampa, 17 novembre 2012

La telefonata di Zeynep è arrivata in un giorno di metà ottobre dal carcere di Mardin: «Mamma, da domani comincio lo sciopero della fame». Poche parole, tono risoluto. Sua madre si è sentita male e il fratello Burhan ha afferrato il telefono: «Non farlo, Zeynep. Hai l’asma, ricordi? Rischi di star male». Ma lei aveva già deciso.  

Si sarebbe unita alle centinaia di detenuti curdi che da oltre nove settimane hanno dato vita a uno dei più grandi ed estenuanti digiuni organizzati della storia: più di 700 persone, tra cui molti politici (ai quali giovedì si è aggiunta la «pasionaria curda» e deputata Leyla Zana, premio Sakharov per la libertà di pensiero nel 1995), giornalisti, insegnanti, sindacalisti e avvocati finiti dal 2010 a oggi nelle carceri di mezza Turchia perché accusati di far parte della Koma Civakên Kurdistan, l’organizzazione che riunisce i principali gruppi e partiti filo-curdi banditi nel Paese.

Rinchiusi in carceri sovraffollate per quelli che ritengono semplici reati d’opinione, i detenuti hanno scelto la più drastica delle proteste. Alcuni di loro hanno cominciato all’unisono lo sciopero della fame il 12 settembre scorso. Il 22 settembre se ne sono aggiunti altri, e il 15 ottobre altri ancora, formando un gruppo sempre più numeroso. È a questi ultimi che si è unita Zeynep, una 23enne che in Kurdistan faceva l’insegnante, arrestata 18 mesi fa durante una manifestazione. «Da quando mia sorella ha cominciato il suo digiuno, abbiamo praticamente smesso di mangiare anche noi», racconta Burhan al telefono da Diyarbakir, non lontano dal confine con la Siria. «La nostra ansia aumenta col passare dei giorni. Eppure l’ho sentita al telefono lo scorso weekend, era serena e determinata, nonostante non mangi da un mese».

I detenuti chiedono al governo di riaprire i negoziati di pace con Abdullah Ocalan, leader del Pkk, organizzazione che nel 1984 ha avviato una lotta armata per l’indipendenza politica e culturale del Kurdistan. La guerra ha provocato da allora circa 40 mila morti, catapultando il Pkk nelle «lista nera» di Stati Uniti e Unione europea. Le recenti rivolte nel mondo arabo hanno riacceso anche le braci del conflitto curdo, con una conseguente escalation di tensioni e violenze che ha portato a centinaia di arresti. Oltre alla questione Ocalan – detenuto dal 1999 nell’isola-prigione di Imrali e a cui da oltre un anno vengono negate le visite – i detenuti curdi chiedono ad Ankara di poter usare la propria lingua nelle scuole e nei tribunali. Per ora, il premier Erdogan e il suo governo hanno risposto picche. E dal 5 novembre scorso, secondo voci al momento difficili da confermare, altri 7 mila detenuti curdi avrebbero cominciato lo sciopero.

«Non abbiamo accesso alle carceri e riusciamo ad avere solo notizie sporadiche», spiega Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International a Londra. «Sappiamo però che a diversi detenuti è stata negata l’assistenza medica, come il controllo della pressione e la somministrazione di vitamine».

Il limite medio entro cui una persona può sopravvivere senza cibo in un buono stato di salute e in condizioni climatiche normali è di due mesi. Ma i primi detenuti ad aver cominciato lo sciopero hanno superato quella soglia, e ora si avviano pericolosamente verso i 70 giorni consecutivi di digiuno: una vera e propria anticamera della morte, dove il corpo, che ha già consumato tutti i carboidrati e prosciugato il grasso corporeo, comincia a raschiare il barile delle proteine rimaste. Chi arriva a questo punto entra in uno stato confusionale permanente, in preda ad allucinazioni e convulsioni, piegato in due da una dissenteria pressoché cronica. Poi è il turno degli organi, che cominciano a collassare uno dopo l’altro, provocando l’arresto cardiaco.

Ramazan Denir, avvocato di decine di detenuti curdi, è appena rientrato dalle carceri di Bolu e Kandira, dove molti di loro sono ormai in fin di vita. «Ho visto decine di persone ridotte a scheletri», spiega allarmato al telefono da Istanbul. «Hanno la pelle ingiallita e i loro occhi non sopportano più la luce. Devono fare sforzi sovrumani anche solo per parlare. Arrivati a questo punto è improbabile che riescano a sopravvivere».

A breve, se il governo turco non sbloccherà l’impasse, potrebbe toccare anche a tutti gli altri.


 

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