Tratto da M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 2002, pp. 24-25.
Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe. L’esistenza degli eroi, quella che ci raccontano, è semplice: va diritta al suo scopo come una freccia. E gli uomini, per lo più, si compiacciono di riassumere la propria esistenza in una formula – talvolta un’ostentazione, talvolta una lamentela, quasi sempre una recriminazione; la memoria compiaciente compone loro un’esistenza chiara, spiegabile.
La mia vita ha contorni meno netti. Come spesso accade, la definisce con maggiore esattezza proprio quello che non sono stato: buon soldato, non grande uomo di guerra, amatore d’arte, non artista come credette d’essere Nerone alla sua morte; capace di delitti, non carico di delitti. Mi vien fatto di riflettere che i grandi uomini emergono proprio in virtù di un atteggiamento estremo, e che il loro eroismo consiste nel mantenervisi per tutta la vita: essi sono i nostri poli, o i nosti antipodi. Io ho occupato volta a volta tutte le posizioni estreme, ma non vi sono rimasto: la vita me ne ha fatto sempre slittare.
E malgrado ciò, non posso neppure, come una brava persona che abbia fatto l’agricoltore o il facchino, vantarmi d’aver vissuto sempre al centro. Si direbbe che il quadro dei miei giorni come le regioni di montagna, si comonga di materiali diversi agglomerati alla rinfusa. Vi ravviso la mia natura, già di per se stessa composita, formata in parti eguali di cultura e d’istinto. Affiorano qua e là i graniti dell’inevitabile; dappertutto, le frane del caso.
Mi studio di ripercorrere la mia esistenza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire d’un corso d’acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria. Di tanto in tanto, credo di riconoscere la fatalità in un incontro, in un presagio, in un determinato susseguirsi di avvenimenti, ma vi sono troppe vie che non conducono in nessun luogo, troppe cifre che a sommarle non dànno nessun totale. In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che si stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono come quelle di un’immagine che si riflette nell’acqua.
Io non sono di quelli che dicono che le loro azioni non gli assomigliano, dato che esse costituiscono la sola misura dell’esser mio, il solo mezzo di cui dispongo per affidare me stesso alla memoria degli uomini, e persino alla mia; dato che forse l’impossibilità di continuare a esprimersi e a modificarsi con nuove azioni costituisce la sola differenza tra l’esser morti e l’esser vivi. Pure, tra me e queste azioni si apre uno jato indefinibile, e la prova ne è che sento sezna posa il bisogno di soppesarle, di spiegarmele, di rendermene conto. Vi sono lavori di breve durata, senza dubbio trascurabili; ma altre occupazioni, che si prolungarono tutta la vita, non hanno maggior significato. Per esempio, nel momento in cui scrivo, mi sembra a malapena essenziale d’esser stato imperatore. […]
Talora la mia vita mi appare banale al punto da non meritare non dico di scriverla, ma neppure di ripensarvi a lungo, e non è affatto più importante, neppure ai miei occhi, di quella del primo che capita. Talora mi sembra unica e perciò apppunto senza valore; inutile, perchè è impossibile adeguarla all’esperienza comune.
Nulla vale a spiegarmela: i miei vizi, le mie virtù sono assolutamente insufficienti; vi riesce di più la mia gioia, ma a intervalli, senza continuità, e soprattuto senza un serio motivo. Ma ripugna allo spirito umano accettare la propria esistenza dalle mani della sorte, esser null’altro che il prodotto caduco di circostanze alle quali alcun dio presieda, soprattutto non egli stesso. Una parte di ogni vita umana, persino di quelle che non meritano attenzione, trascorre nella ricerca delle ragioni dell’esistenza, dei punti di partenza, delle origini. La mia incapacità di scoprirle mi fece inclinare a volte verso le interpretazioni magiche, mi indusse a ricercare nei deliri dell’occulto ciò che il senso comune non mi offriva. Quando tutti i calcoli astrusi si dimostrano falsi, quando persino i filosofi non hanno più nulla da dirci, è scusabile volgersi verso il ciacleccio fortuito degli uccelli, o verso il contrappeso remoto degli astri”.
L’ellenismo adrianeo
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Adriano inaugura la tendenza degli “imperatori filosofi” che poi si concretizzerà in maniera più decisa con Marco Aurelio.
L’ideale della humanitas di derivazione greca, consistente soprattutto in un culto ammirato per la cultura, l’armonia e l’equilibrio ellenici era un’ideale diffuso a Roma fin dall’epoca repubblicana. Lo stesso Scipione Africano, vincitore di Annibale, aderì a questo stile di pensiero in maniera entusiatica e possiamo affermare che la prima personalità politica grecizzante e filo-ellenica della storia di Roma sia proprio lui. E sarà poi con un suo nipote adottivo, Scipione Emiliano, fondatore del circolo degli Scipioni, centro e motore propulsore della cultura filo-ellenica, che quest’ultima avrà il suo periodo di massimo splendore. Insomma l’introduzione di questo comportamento di ammirazione per la Grecia era avvenuta già da secoli, sempre controbilanciato, però, d’altra parte, da un’ala più conservatrice e attenta a preservare la moralità più prettamente romana contro le “mollezze” orientali.
Con l’imperatore Adriano, invece, questa situazione di equilibrio sarà destinata ad interrompersi momentaneamente con l’improvviso esplodere, sotto il suo impulso, di un gusto, quasi forsennato, per la classicità. L’imperatore stesso comincia ad ostentare comportamenti ed atteggiamenti tipicamente greci: per la prima volta nelle effigi di un imperatore compare la barba. Non è un particolare da poco, bisogna ricordare che, a quei tempi, un modo per distinguere l’appartenenza di un individuo ad un popolo era proprio anche la presenza o meno di barba: i Romani erano un popolo rigorosamente sbarbato, i Greci erano invece barbuti.
Per chiarire l’importanza di questo aspetto, che a noi adesso potrebbe sembrare banale, bisogna pensare al fatto che, invece, esso era chiarificatore dell’appartenenza di un individuo quanto per noi potrebbe esserlo, oggi, vedere la fotografia di un uomo con indosso la maglia di una determinata squadra di calcio. Era, insomma, un dichiarare esplicitamente un certo allontanamento dalla tradizione latina per abbracciare in pieno, invece, la grecità e questo fu un atto talmente di impatto che persino Nerone, filo-ellenico quanto Adriano, si farà comunque raffigurare sbarbato, in ossequio al più tradizionale costume romano.
Non che l’ellenismo adrianeo si fermi qui: egli concede grandissimi favori ad Atene ed istituisce un consiglio pan-greco, il Panellenio, a cui ogni quattro anni tutti i rappresentanti delle poleis erano tenuti a partecipare per organizzarvi una gara di arti e di atletica. La sua villa personale, poi, Villa Adriana, fu costruita come una piccola città greca in miniatura: dall’architettura alle statue, lì tutto era greco. Il classicismo di Adriano ebbe un particolare che, forse, lo renderà vicino alla concezione che dominerà, poi, nel periodo umanistico e rinascimentale. Adriano tenderà a prendere in considerazione varie epoche e fasi culturali, combinandole assieme e considerandole alla stessa stregua, mettendo assieme elementi dell’una e dell’altra. Così non è solo l’Atene del V secolo che il “greco” Adriano tiene in conto. Egli, infatti, nel promuovere questo suo deciso classicismo, si ispirerà a varie figure del passato più o meno recente. Così se la sua residenza presso Tivoli sarà costruita in maniera tale da rievocare ambienti e atmosfere della Grecia più propriamente classica, l’imperator non mancherà di ispirarsi a figure anche posteriori, primo fra tutti Alessandro Magno. Come Alessandro anch’egli manifestò un affetto particolare per il suo cavallo Boristene, proprio alla stessa maniera del conquistatore macedone che sembrava inseparabile dal suo Bucefalo. Famoso è il suo amore omosessuale per il giovane Antinoo, del quale patì molto la morte, al pari di Alessandro che ebbe come compagno Efestione.
Nonostante la “scoperta” della letteratura classica romana e l’equilibrato culto della grecità, l’opera di Adriano non avrebbe potuto essere completa e totale poichè gli obblighi di un imperator incombevano. Il nuovo Cesare di Roma si ritrovava a dover gestire una situazione politica complessa e un territorio che, grazie a Traiano, aveva raggiunto il massimo della sua ampiezza. Adriano affronta le circostanze politiche in una maniera così prosaica che avrà ben poco di ellenico: fa addirittura mettere a morte ben quattro senatori romani. Fino ad allora, sebbene composizione ed azioni del senato fossero stati sempre controllati dai principes, mai un oltraggio così diretto ed aperto era stato perpetrato. Per Roma e per i senatori fu un autentico shock. Prima di Adriano nessun imperatore, nemmeno coloro i quali si erano meritati di passare alla storia come dei “mostri”, si erano potuti permettere di attuare apertamente una simile azione. E, per giunta, la memoria di Adriano non fu nemmeno grandemente inficiata da tale atto, non ne venne proclamata la damnatio memoriae, non abbiamo una tradizione letteraria che lo riguardi di carattere totalmente dispregiativo, come la abbiamo, per esempio, per Nerone.
Cosa potè creare le condizioni affinché Adriano si sia potuto permettere non solo di eliminare quattro membri dell’artistocrazia romana, ma addirittura, di “farla franca” presso l’ “opinione pubblica” contemporanea e posteriore? Ebbene, probabilmente si trattò di un segno dei tempi. Il ruolo che Roma giocava all’interno dell’impero, nonostante rimanesse ancora estremamente importante, non era più quello dei tempi di Augusto. Per Ottaviano Roma era quasi l’impero stesso, era la custode della potenza e del successo latino, senza il cui spirito, il cui genius, niente della gloriosa storia di quello che un tempo non fu nient’altro che un agglomerato di villaggi, si sarebbe potuto realizzare. Adriano, forse per la prima volta, si accorge di non aver a che fare esattamente con la stessa Roma, con lo stesso concetto di città ed, in parte, è anche l’artefice di questo passaggio. Vespasiano era stato nominato imperator lontano dall’Urbe e dal suo Senato e lui stesso era un “semplice” provinciale proveniente da Rieti. Traiano, suo padre adottivo, era addirittura iberico. Anche Adriano probabilmente era iberico, un imperatore di sangue spagnolo che, nella sua stessa effigie, tramite la barba, si proclamava deliberatamente greco. Il primo dei tre imperatori Flavi, dopo l’annus horribilis aveva aperto la via ad un cambiamento che non si sarebbe più arrestato e che, all’epoca di Adriano, cominciava a far sentire i propri effetti anche su come la capitale dell’impero veniva percepita. Non dimentichiamo che il successore di Traiano preferì trascorrere la maggior parte del proprio tempo lontano dall’Urbe, in giro per le province, e che la sua predilezione per Atene probabilmente superò di gran lunga quella per Roma.
Un altro provvedimento imperiale emanato da Adriano dà il segno di questo cambiamento, di cui egli fu assieme erede e artefice: l’Italia venne divisa in quattro distretti, retti ognuno da un consularis. E’ vero che il provvedimento sarà poi revocato da Antonio Pio, ma solo per poi essere reintrodotto in via definitiva dal princeps successivo, Marco Aurelio. Questa divisione, in sostanza, faceva perdere in parte il carattere di esclusività e di vantaggio che il suolo italico aveva sempre avuto nei confronti delle province. All’epoca di Adriano c’erano quindi tutte le condizioni affinchè la sua azione potesse passare sì come un’offesa, ma tutto sommato, in conclusione, nel diritto di un imperatore qualora egli si dimostri un saggio amministratore.
Il declino del modello “romanocentrico”, pragmatico e latino di imperatore, i cui sintomi già si erano avvertiti con la sterzata “orientalizzante” che Domiziano aveva dato al suo governo, consentì ad Adriano, inoltre, di inaugurare la moda dell’ “imperatore-filosofo”. In sostanza si trattava della trasposizione nella realtà dell’ideale classico, anche questo tutto ellenico, della “filosofia al potere”. L’idea si ritrova fin dai tempi e dalle opere di Platone ed a Roma era già stata teorizzata nella maniera più ampia e complessa nella già citata opera di Seneca, il De Clementia. Se il destinatario più immediato dell’opera, il suo allievo Nerone, sconfessò con i suoi atti tutto ciò che il grande filosofo raccomandava e riteneva che un imperatore dovesse fare, l’idea fu infine ripresa proprio da Adriano. La filosofia stoica ebbe a Roma un grande successo poiché appariva, in un certo qual modo, come la giusta sintesi fra pensiero greco e romano: l’humanitas e la ricerca metafisica greca si fondevano con un aspetto etico somigliante e concordante con gli ideali latini espressi dalla pietas e dal mos maiorum. E proprio i principali autori stoici latini, a differenza di quelli greci, ossia, oltre a Seneca, Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio, insisteranno molto sull’aspetto moralistico di questa filosofia, relegandone quasi ai margini gli aspetti meno concreti, facendo dello stoicismo ancora prima che una dottrina filosofica, una serie di precetti di condotta di vita.
E’ con questa particolare interpretazione dello stoicismo, il quale a Roma, per la sua diffusione, costituiva l’esempio principale di filosofia che, fusa con l’utopia greca più generale di una classe di filosofi che dirigano la società, che Adriano venne a contatto ed al quale aderì. E’ quindi in linea con questa concezione che l’imperatore tenta di attuare, per quanto possibile, una politica di equilibrio e tenta di dare al suo regno un contegno quanto mai “filosofico”. Nonostante il suo culto della Grecia antica, a volte forse anche esagerato, sfacciatamente sbandierato, attraverso la barba, anche nelle sue effigi ufficiali, Adriano non diviene un nuovo Nerone proprio per via del suo equilibrato comportamento, lontano anni-luce dalla teatralità goffa e bizzarra dell’ultimo erede della dinastia augustea. Ecco perché Adriano, anche nella tradizione, non assumerà lo stesso carattere negativo del suo predecessore, ma, anzi, riuscirà ad imporre il proprio ideale di imperator, arricchendone e rinnovandone quell’ideologia che prese le mosse dall’azione di Augusto. Rispetto al primo imperator evidente è il cambiamento di direzione che alcuni elementi prendono: alcuni si avviano verso il declino, altri, nuovi, si fanno avanti con prepotenza. Il primo e più lampante cambiamento, come già detto, riguarda l’ideale di imperatore filo-senatorio: esso, con la progressiva perdita di centralità di Roma e, soprattutto, dei poteri tradizionali che la gestiscono, perde importanza poiché non più considerato utile o fondamentale. Un’ulteriore spallata a questo concetto viene anche dall’adozione della filosofia stoica da parte di questi imperatori che dà loro un’impronta fortemente cosmopolitica: per gli stoici l’uomo è cittadino del mondo. E’ inevitabile che il concetto di Roma caput mundi ne risenta in qualche maniera. Anche il ruolo di “protettore” della cultura considerata più genuinamente latina e romana (sebbene gli intellettuali di epoca augustea siano gia imbevuti di ellenismo) viene progressivamente meno, Adriano si considera un fine ammiratore della cultura greca e dimostra meno interesse nel preservare atteggiamenti e stili di vita “romani”. E’, insomma, Adriano il primo uomo, che, forse, riesce a modificare in maniera definitiva quell’ideale imperiale che fino ad allora era rimasto attaccato, più o meno, alla vecchia concezione prodotta dall’ambiente dei senatori e che voleva il principe semplicemente come un primus inter pares fra i patres romani.
Tentativi di staccarsi da questo ideale ce ne furono anche in precedenza, ma, a parte il caso di Vespasiano, singolare per molti versi, furono tutti di durata generalmente effimera. Con Adriano i cambiamenti di rotta si fanno più spregiudicati e assumono possibilità di rendersi durevoli, poiché gli schemi ideologici sono cambiati e divenuti più “malleabili” rispetto al rigorismo tradizionale. Per quanto riguarda le modalità di successione, Adriano si attiene alla pratica inaugurata da Nerva ed anche lui si affida all’adozione: come suo successore designa un ricco senatore, Tito Aurelio Fulvio Boionio Arrio Antonino, poi, dopo aver preso nel 138 il titolo di Pius, noto semplicemente come Antonino Pio.
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