Cosa hanno scoperto le scienze sull’ostilità verso i gay e, in generale, verso le minoranze? Tratto da Wired con modifiche e integrazioni.
La matrice omofobica della strage di Orlando in Florida ci spinge di nuovo a interrogarci sulla natura di un pregiudizio, quello contro gli omosessuali, così viscerale, diffuso e pericoloso. Come possiamo interpretare la necessità che hanno alcuni individui di aggrapparsi strenuamente a delle categorie, tanto da provare odio,ostilità e rabbia verso persone sconosciute?
Se da un lato, la psichiatria e la psicologia clinica hanno esse stesse sofferto di atteggiamenti tutt’altro che razionali e scientifici nella concettualizzazione dell’omosessualità, oggi le neuroscienze e la psicologia cognitiva e sociale ci consentono di capire meglio i meccanismi alla base dei bias (errori) di ragionamento all’origine degli atteggiamenti negativi verso gli omosessuali o più in generale verso le minoranze.
Le varie interpretazioni che sono state date dell’omofobia includono la paura di un’omosessualità nascosta a se stessi che si manifesterebbe nella forma di una reazione viscerale di odio e disgusto (un meccanismo difensivo, spiegato da Freud), come sostiene uno studio americano del 1996 e un altro studio francese del 2016, fino ad arrivare all’associazione dell’omofobia ad alcune caratteristiche psicologiche e tratti caratteriali ad alto livello di psicoticismo.
In realtà, il fenomeno nel suo complesso è così diffuso che per comprenderlo bisogna fare riferimento ai concetti più vasti di stereotipo e di pregiudizio. Inoltre, l’ultima rilevazione dell’Eurobarometro ha mostrato un’Unione europea sempre più ostile e discriminatoria.
Il termine omofobia risale al 1972, quando fu coniato dallo psicologo Georg Weinberg per descrivere quell’attitudine, condivisa anche da alcuni suoi colleghi, di “terrore di stare con gli omosessuali“. Oggi, spiegano gli psicologi sociali, l’omofobia è diventato un atteggiamento che riguarda i concetti di identità e di normatività, tanto che una delle autorità in materia, Gregory Heker della University of California a Davis negli Stati Uniti, suggerisce di usare piuttosto il termine di “pregiudizio sessuale“.
“I pregiudizi, e le attitudini negative che ne scaturiscono, vengono spesso diretti contro tutto ciò che è percepito come devianza dalla norma sociale di riferimento – sia essa di genere, orientamento sessuale, religiosa o politica – e la scardina“, spiega Fabio Fasoli, psicologo dell’università di Milano Bicocca. Infatti, la letteratura degli ultimi vent’anni mostra che “l’omofobia è correlata ad alcune caratteristiche come il livello di religiosità, il livello culturale, l’essere maschio, conservatore e anziano“.
I pregiudizi sono delle reazioni viscerali e istintive che non riusciamo a sopprimere neppure quando crediamo di usare la logica e l’argomentazione. Uno studio importante di neuroimaging, applicato in seguito anche ai pregiudizi sessuali ma condotto sugli elettori delle presidenziali americane del 2004, ha mostrato infatti che, chiamati a ragionare su giudizi ostili riguardanti il proprio candidato, pur intenti ad argomentare, i soggetti presentavano forti attivazioni di aree cerebrali deputate all’elaborazioni delle emozioni. Questi vincoli emotivi sarebbero attivi in tutti i soggetti, come dimostra anche il fatto che non è facile argomentare in difesa di sentimenti irrazionali.
Non andrebbe dimenticato che gli stereotipi, definiti come un insieme di credenze su un gruppo sociale che ci rappresentiamo in un certo modo, sono schemi cognitivi naturali ed evolutivamente vantaggiosi.
“Ciò non significa che la loro attivazione automatica giustifichi atti o condotte discriminatorie”
spiega Marco Brambilla, ricercatore di psicologia sociale dell’università di Milano Bicocca, che spiega come per
“svincolarsi da questo tipo di risposta stereotipica siano necessarie risorse cognitive e una forte motivazione. In questo, l’omofobia non è un pregiudizio diverso da quello verso altre etnie, dal sessismo e dalla xenofobia“.
A ciò si aggiunga il fatto che spesso il pregiudizio si manifesta in modo inconsapevole e sulla base di stimoli minimi.
“Nei nostri studi sul linguaggio abbiamo mostrato che la semplice esposizione a epiteti omofobi (per esempio, “frocio”) attiva una rappresentazione negativa degli omosessuali e induce a fenomeni di discriminazione verso gli stessi. Gli studi sul suono della voce e l’orientamento sessuale hanno invece indicato che basta avere una voce che suona gay alle orecchie di chi ascolta, e che non ricalca le caratteristiche usuali della mascolinità, per essere discriminati in un colloquio di lavoro telefonico“,
spiega Fasoli, che si è a lungo occupato dell’importanza del linguaggio nel fenomeno omofobico.
E proprio la terminologia utilizzata si è evoluta, parallelamente al timore di sanzioni morali, sociali e anche legali dovute all’espressione schietta dei propri pregiudizi.
“Ma rimangono i pregiudizi latenti, i più radicati e pervasivi; essi sono automatici,indiretti, ambivalenti e ambigui“,
spiega Brambilla, ricercatore di psicologia sociale.
“Sono indiretti perché non appaiono pregiudizievoli (‘Non sto discriminando gli omosessuali, dico solo che il loro matrimonio porterà svantaggi alla famiglia tradizionale’), sono ambivalenti perché contengono componenti negative e positive e queste ultime vengono lette in chiave negativa (‘Sono persone molto gentili e sensibili. Per questo non possono fare i manager’), sono ambigui perché il contesto ambiguo permette di esprimere il pregiudizio senza farlo sembrare tale (”non apro la porta di casa ad un uomo di quell’etnia perché i dati indicano che rubano più di altri’ oppure ‘non ho fatto un minuto di silenzio per la strage di Orlando come feci per Parigi non perché non sia vicino a queste vittime, ma perché si tratta di una faccenda di estremismo tutta interna agli Usa’)“.
Che fare? Il problema, secondo gli psicologi, rimane di natura culturale e sociale; dovrebbe farsene carico la società che al contrario sembra dare supporto agli stereotipi favorendone così il radicamento. L’evoluzione neotribale della società postmoderna dev’essere oggetto di riflessione. Infatti,
The notion of the foreigner as the incarnationof evil has always been the gravitation center around wich the common tribal identity accreted and solified [Atlas of prejudice]
16 Giugno 2016 at 11:39
“La matrice omofobica della strage di Orlando in Florida”…Forse è ancora prematuro dirlo. O forse davvero non è quella l matrice. Via via si scopre che l’autore fosse gay, che frequentava altri gay, usciva con gay, aveva relazioni con gay, ma si scopre anche che ha selettivamente agito uccidendo solo i bianchi, indicando ai “neri” di non avere nulla contro di loro, benchè essi stessi, come lui, gay. Cosa molto comune, invece: ha colpito nell’ambito che frequentava nella vita di tutti i giorni. Siamo forse di fronte a quacosa d’altro, più probabilmente un rancore verso i “dominanti” americani da parte di un radicalizzato religioso. Il fatto che fosse gay è quasi irrilevante: lasciare intendere che i gay non possano nutrire certi sentimenti (benchè non valutati positivamente) rispetto a tutti gli altri è anch’esso un retaggio discriminante verso i gay.
16 Giugno 2016 at 15:13
Condivido le tue considerazioni che portano però, se non interpreto male, a smentire l’assunto di partenza: la strage è omofoba semplicemente perché colpisce intenzionalmente i gay e perché nasce in un contesto dominato dallo stigma religioso verso le pratiche omosessuali, anche se si lega ad altri temi jihadisti. Poco rilevante che l’omicida fosse o temesse di essere omosessuale: in fondo, è un classico della nevrosi.
17 Giugno 2016 at 13:42
Cercherò di stemperare, per quanto possibile, il tono inevitabilmente sommesso e austero che fatti del genere, cone persone che hanno perso la propria vita, richiamerebbero. E cercherò di trattare al meglio un tema così stimolante, diramabile e, appunto, diramato. “L’affermazione di sé nel mondo” diventa una brutta bestia da gestire se l’affermazione di una predilezione per qualcosa da parte di una persona, messa a confronto con la predilezione di qualcosa d’altro di un’altra persona, fa sentire automaticamente il primo sotto attacco. Una volta ho assistito a una discussione apparentemente neutrale, tra due persone sconosciute tra loro, in fila per essere servite in una pizzeria da asporto; a un tratto uno dice all’altro: -Mi stai osservando?- L’altro gli risponde:-Chi, io?No, di sicuro- E il primo che ribatte:-Se c’è un problema, dimmelo- E di risposta l’altro:-Su, che motivo avrei?Ragioniamo- E quello:-Come, sarebbe ‘ragioniamo’? Vuoi dire forse che non ragiono?- …E da lì,iniziò un confronto fisico a cui fu pressochè impossibile trovare soluzione, malgrado l’intervento pacificatore degli altri presenti. Un tempo, nella cinematografia, si era soliti porre il cappello bianco ai buoni e il cappello nero ai cattivi. Un dato semantico, oltre che semiotico, ma anche il tentativo di rassicurare lo spettatore, a confronto con la visione del male e a dispetto della sua complessità. O, se si preferisce, nella sua banalità (che non significa non complesso) rispetto a un approccio razionale alla sua osservazione. Sulla banalità del male si è discusso largamente in tutti i processi, gli studi e la rappresentazione dell’Olocausto durante la seconda guerra mondiale: al pari di ebrei, zingari, disabili, gli omosessuali subirono l’atrocità del più grande sterminio che si ricordi. Che, purtroppo, proprio per la sua gravità ed enormità non si può inquadrare con l’identificazione semplificata di un giudizio morale o della prevalenza di uno stereotipo come causa, a meno di voler prestare il fianco a continue e nuove aberrazioni cui fanno seguito inevitabili sanatorie, nell’impossibilità di circoscrivere le cause delle stesse aberrazioni in una specifica e semplice ragione. La banalità è che il male e il bene sono qualcosa a cui ci è semplicemente dato di assistere senza possibilità di circoscriverli in questo o quello stereotipo, a questa o a quella predilezione. Perchè è la dicotomia, la ricerca del confine e/o della razionalizzazione che non funziona (razionalmente il male in sé è inconcepibile) e che, anzi, ci predispone alla divisione gli uni dagli altri, al male stesso, e all’evitare la domanda principale della convivenza quotidiana: ma almeno, in quella pizzeria, la pizza è buona?
Cordialmente suo ammiratore.
17 Giugno 2016 at 22:30
Inconcepibile, banale, ubiquo ed anche idiota: a parte la pizza (sicuramente esente) non si è mai certi di dove (il male) sia. Grazie di questo bel commento.
19 Giugno 2016 at 17:12
Ringrazio lei, invece. E spiego ulteriormente quanto affermato. Ci sono dei dubbi sul contesto, per parlare di quella che può essere l’effettiva matrice di questo clima. Non si ravvisa, negli USA, lo specifico humus persecutorio da regime, così come è sempre avventata l’equazione represso sessuali->nevrotico, per non dire dell’equazione per la quale ogni nevrotico dovrebbe diventare un killer. Ovvio che tali automatismi siano un’azzardo e che tocchi poi metter su una “sanatoria” nei confronti di tutti quelli che magari il proprio disagio di sessualità lo vivono semplicemente mangiando più gelato di quanto non considerebbe la dieta mediterranea.Ci sarebbe invece da interrogarsi da un altro contesto, questo effettivo, riscontrabile e sconcertante: quello per il quale le armi come quella usata ad Orlando sono niente più che un optional, come l’aria condizionata, le rifiniture in radica o la vernice metallizzata… http://www.lastampa.it/2016/06/18/esteri/fucile-in-omaggio-se-compri-unauto-promozione-choc-negli-stati-uniti-8o67FYVPqVtugeIz64KNBJ/pagina.html Ecco, magari, su questo tipo di approccio, su questa mitridatizzazione al culto dello strumento di morte, potremmo e dovremmo davvero interrogarci e fare severa autocritica.
Con Amore, cordialmente.
20 Giugno 2016 at 15:30
Infatti, niente di ciò che è umano funziona in modo meccanico: molti nevrotici scelgono il gelato, qualcuno il fucile. Quello delle armi è un argomento di obamiano che mi convince poco (come tutto il resto). Ho l’impressione che il problema sia la propensione a usarle, poi c’è il secondo emendamento .. non so se hai letto, a suo tempo, questo approfondimento di De Cristofaro https://gabriellagiudici.it/ernesto-de-cristofaro-una-liberta-controversa-il-diritto-di-possedere-e-portare-armi-negli-stati-uniti/
20 Giugno 2016 at 18:11
E’ il processo di normalizzazione, cioè dello svuotamento dell’arma del suo potere di annullare la vita, e quindi di riduziona al banale (toh, di nuovo) quel potere e della vita stessa: e’ questo, più che il controverso diritto alla difesa (retaggio di quei cowboys di cui prima) che è davvero sconcertante. Se si aggiunge che poi, oggi, nelle trascrizioni delle comunicazioni dell’assassino di Orlando si è proceduto all’eliminazione del termine Islam, beh, si fa un quadro completo di esposizione al rischio di falsificazione (artistica?non so) della realtà. Che è sempre una cattiva premessa per quel che ne segue: se l’aria è inquinata, la soluzione non è smettere di respirare.
Pacatamente.
21 Giugno 2016 at 11:17
Si, hai ragione.