Un ‘campione medievale’
Nel Medioevo, il ‘campione’ era colui che partecipava a un torneo cavalleresco e rappresentava se stesso o la casata o addirittura il suo signore e il suo sovrano. Era colui che stava sul campo, che affrontava il combattimento (in spagnolo Rodrigo Diaz de Bivar, lo storico e leggendario Cid, era detto, appunto, ‘Campeador’). Nel linguaggio moderno ‘campione’ ha assunto fondamentalmente due significati: ‘atleta vittorioso’ ed ‘esempio statistico, parametro di misurazione’.
Ecco allora il ‘campione medievale’: la disputa sugli universali. Si tratta di un tema significativo, trasversale, che implica, infatti, anche la possibilità di collegarsi sul versante storico alla quaestio e al ruolo dell’università rispetto alla città; dall’altro, sul versante scientifico, alle forme del ragionamento logico. Soprattutto, consente di concentrare in un argomento gran parte del dibattito filosofico medievale mostrando il passaggio dalle prime soluzioni platoniche – che si delineano nell’Alto Medioevo e, dopo la svolta del Millennio, con l’affermarsi delle prime elaborazioni della Scolastica – fino a quelle più audaci, razionaliste e per molti versi moderne dei secoli XIII e XIV, quando, per citare Johan Huizinga, si profila “l’Autunno del Medioevo”.
Cinque direzioni di ricerca
Tutto nasce, come noto, dalla traduzione che Boezio effettua di un passo dell’Isagoge di Porfirio alle Categorie di Aristotele: in realtà, nell’opera del discepolo di Plotino non si dava nessuna indicazione, in quanto egli esplicitamente diceva di non voler prendere posizione sullo statuto ontologico degli universali, se essi fossero puri concetti, astrazioni della mente, o non piuttosto entità separate esistenti in sé, anteriori alle cose che li rappresentano sensibilmente.
Boezio, traducendo in latino, rese disponibile ai successivi filosofi medievali il dilemma, che venne sviscerato prevalentemente in cinque direzioni di ricerca.
1. La prima, quella del cosiddetto “realismo estremo”, afferma che gli universali sono reali in sé, anteriormente alle cose (ante rem); essa corrisponde a un approccio sostanzialmente (e non del tutto consapevolmente) platonico: se anche distruggessimo tutte le rose, la ‘Rosa’ termine universale continuerebbe a esistere, eterna, indistruttibile forma dell’Intelletto di Dio. Il ‘campione’ di questa posizione è Guglielmo di Champeaux (1070-1121).
2. La seconda, quella diametralmente opposta, il “nominalismo”, è sostenuta da Roscellino di Compiègne (1050-1120): gli universali non esistono in sé, ma sono una pura astrazione mentale, un flatus vocis, niente di più di un’emissione vocale. Per Roscellino non si può parlare di essenza e, conseguentemente, anche la pretesa di poter cogliere una Verità oggettiva, comune, è vana. La violenza degli attacchi contro Roscellino scaturiva dal riconoscimento dell’estrema pericolosità, dal punto di vista teologico, di tale interpretazione.
3. La terza ipotesi, anche se quarta in ordine di tempo, è la mediazione filosofica di Alberto Magno (1206-1280) e Tommaso d’Aquino (1225-1274), il cosiddetto “realismo moderato”: gli universali sono reali, ma non separati dalla realtà che denotano (ante rem, in re, post rem), in quanto la capacità della mente di cogliere l’essenza della rosa nasce dal fatto che nella rosa vi siano le caratteristiche reali che la rendono concepibile in termini generali. La posizione è (questa volta consapevolmente) aristotelica: senza le rose reali non ci sarebbe la loro nozione e Dio nel pensare la rosa la crea.
4. La quarta direzione di ricerca, formulata contestualmente alle prime due e a entrambe contrapposta, è quella sviluppata da Pietro Abelardo (1079-1142), definibile come una sorta di “concettualismo”: gli universali sono rielaborazioni mentali della realtà che avvengono nella mente del soggetto. Essi sono, in definitiva, sermo, discorso, evento logico-linguistico che conferisce senso alla realtàe un senso che procede (in maniera inconsapevolmente prekantiana) da un modello comune di funzionamento della mente.
5. La quinta e ultima variazione sul tema è quella che viene fornita da Guglielmo di Ockham (1288-1349), il “terminismo”: partendo dall’esame del concetto di suppositio (l’atto attraverso cui il linguaggio si riferisce a qualcosa) il francescano inglese distingue la suppositio materialis quando il termine si riferisce al proprio stesso segno linguistico: es., “rosa è parola di 4 lettere”, la suppositio personalis quando il termine denota proprietà reali di un ente individuale concreto: es., “quella rosa ha venti petali” e, infine, la suppositio simplex l’universale della tradizione filosofica: es., “Rosa è una specie floreale”. Mentre le prime due corrispondono a modi fondati di usare il linguaggio, perché al segno corrisponde una cosa, nella terza accezione della suppositio non vi è nessun oggetto reale (“specie floreale”) e quindi l’universale è un puro termine, che ha valore nello scambio di informazioni tra i parlanti per via di semplice accordo convenzionale e non per via di corrispondenze ontologiche forti.
Poiché la scienza, alla quale Ockham cerca di dare una fondazione – seppure come un puro esercizio razionale non in antagonismo con la supremazia assoluta della Fede – ha bisogno di stabilirsi su terreni sicuri e non su ambiguità metafisiche, ecco che il filosofo inglese impiega la celebre metafora del rasoio (strumento che si usava per raschiare gli errori sulle pergamene) per affermare che i termini senza corrispondenza empirica non sono oggetto di conoscenza scientifica.
Ragione e Fede si collocano, in tal modo, su due aree di pertinenza ben delineate ed è evidente che Ockham annuncia l’aprirsi di una nuova stagione del pensiero, quella che più avanti troverà il modo di riconoscere l’importanza della questione degli universali in un passo breve, ma denso di significati, di Romeo e Giulietta di William Shakespeare:“What’s in a name? that which we call a rose by any other name would smell as sweet” (“Cos’è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo” Atto II, scena II
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