Posts tagged ‘lavoro’

21 Ottobre, 2012

Unite The Union e C.G.I.L

by gabriella

Questo é Unite, il sindacato britannico guidato da Len McCluskey che ieri ha contestato il Labour Party per l’acquiescenza alle politiche di Cameron. Unite The Union é capace di mobilitazioni oceaniche e incisive (20 ottobre 2012: A Future That Works), ma anche di comunicazione efficace:

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Questa invece è la C.G.I.L. di Susanna Camusso ieri a Roma tra entertainement e lamentazioni: nessun richiamo ai partiti che stanno sostenendo le politiche recessive in Italia.

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5 Ottobre, 2012

Jean-Paul Galibert, Siete usa e getta? Recensione di Bertrand Ogilvie, L’homme jetable

by gabriella

Traduco la recensione di Jean-Paul Galibert al libro di Bertrand Ogilvie, L’homme jetable. Essai sur l’exterminisme et la violence extrème, Paris, Éditions Amsterdam, 2012, prefazione di Étienne Balibar [L’uomo usa e getta. Saggio sullo sterminismo e la violenza estrema].  Ogilvie illustra il passaggio dalla biopolica del far vivere e lasciar morire (Foucault) ad una bioeconomia del far vivere a morte e far morire in massa (si veda il Colloquio di Belgrado dal minuto 9:00 al 10:34). L’originale francese è in coda. Qui una sintesi (in francese) del saggio.

Après le «faire mourir et laisser vivre» qui serait la formule de la souverainété, et le «faire vivre et laisser mourir» qui Foucault forge comme la formule de la biopolitique, on serait dans l’hypothèse  d’un «faire vivre à mort et d’un laisser mourir en masse» qui serait celle de la bioéconomie.

Bertrand Ogilvie

Stagisti, precari. Contratti a tempo determinato. Flessibilità. Licenziamenti. Disoccupati «in fin di diritti», persone in fin di vita. Tutti questi termini dicono a quale punto, in fondo, si ha ben poco bisogno di noi. Quale sorte ci attende?

Bertrand Ogilvie ci pone una questione tanto terribile quanto inevitabile: come siamo diventati rottamabili? Come concepire, nella storia della violenza, questa nuova relazione di potere e questo nuovo statuto che, al di là dello sfruttamento del nostro lavoro, ci destina in anticipo a una sorta di liquidazione programmata?

Sotto il duro e bel titolo de l‘homme jetable (a perdere, rottamabile, da gettare, NDR) Ogilvie raccoglie una serie organica di saggi, una serie di tappe del cammino per pensare questa violenza estrema che é divenuta oggi il quotidiano spettacolare e al tempo stesso meglio dissimulato nella sua ordinarietà.

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8 Marzo, 2012

Domenico Moro, Salari e costo del lavoro. Uno studio comparato

by gabriella

1. Confronti incongrui

Qualche giorno fa le agenzie di stampa hanno riportato che, secondo Eurostat, le retribuzioni lorde italiane nel 2009 erano ben al disotto della media Ue a 27. Quintultime, per la precisione, inferiori anche a quelle di Spagna e Grecia. Il ministro Fornero ha colto la palla al balzo per ribadire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto. Come da sempre sostiene Confindustria, i lavoratori sarebbero pagati poco a causa di tasse sul lavoro troppo alte. Il governo, invece, si è affrettato a precisare che la tabella Eurostat era stata letta male e che retribuzioni e costo del lavoro italiani sono nella media Ue. Qual è la verità? Alcune precisazioni sono necessarie.

In primo luogo, non è corretto confrontare retribuzioni e costo del lavoro annui. Orari e ore effettivamente lavorate variano da Paese a Paese. È come se al supermercato comparassimo i prezzi di confezioni di tonno di dimensioni diverse, senza impiegare una unità di misura comune, il prezzo in euro al chilo. Per un confronto corretto dobbiamo prendere le retribuzioni orarie.

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11 Febbraio, 2012

Enrica Rigo, Maurizio Ricciardi, Il diritto d’accesso negato dalla meritocrazia

by gabriella

Tratto da Manifesto dell’11 febbraio 2012.

Bourdieu[…] In Italia, vi sono stati anni (non molti purtroppo) in cui nelle università vi erano, insieme agli altri, i figli degli operai. Vi è stata una generazione (o forse più d’una) per la quale “mobilità sociale” ha significato poter rivendicare con orgoglio di essere la prima o il primo laureato o diplomato in famiglia. Ma questo non ha nulla a che fare con “l’essersi fatti da soli”. È stato fatto dalla scuola pubblica, dall’università pubblica.

Sulla funzione che altrimenti l’istruzione ha anche nei sistemi democratici varrebbe la pena rileggersi le pagine di Pierre Bourdieu che mostrano come la monopolizzazione del capitale culturale è funzionale alla costruzione di gerarchie invalicabili, alla istituzionalizzazione di modi di dominazione che pretendono che i dominati riconoscano come giusta la propria subordinazione. Certo, sembra difficile immaginare di trovare i volumi di Bourdieu nella biblioteca privata di chi accusa gli studenti fuori corso (lavoratori?) di essere degli “sfigati” o i precari che non riescono a pagarsi l’affitto dei “cocchi di mamma”. Sono probabilmente spariti anche dalle biblioteche di molti “progressisti”. Non è raro, infatti, trovare in giornali del centro-sinistra le storie di successo di “giovani ricercatori meritevoli” che sono riusciti ad affermarsi “nonostante tutto”, magari all’estero, sia pure utilizzate per denunciare l’inadeguatezza del sistema italiano nel comprenderne il talento. Merito e talento vengono trattati come qualità “naturali”, legittimando esplicitamente la meritocrazia come capacità del sistema di saper riconoscere e premiare nella giusta misura chi è stato baciato dalla sorte con tali doti.

la scuola di EnricoMa se bisogna riconoscere una ricchezza all’istruzione pubblica italiana, questa è proprio la sua inclusività. Merito e eccellenza non sono doti “naturali”, ma il prodotto di un sistema che consente a Franti e Garrone di avere Derossi come compagno di banco (e si spera che almeno il libro Cuore sia stato letto da Monti a Martone). Nell’alimentare i falsi miti, il governo dei professori sembra voler realizzare la terrificante utopia negativa descritta da Michael Dunlop Young nel suo The Rise of Meritocracy, dove sono i secchioni a governare il mondo, in quanto ultima e più perfetta espressione di un mondo diviso prima in caste e poi in classi. È questo l’unico significato che bisogna tornare ad attribuire al termine meritocrazia. Ed era anche quello che gli attribuiva il vecchio laburista Young, tranne dover poi registrare con rammarico che il New Labour di Tony Blair la considerava un valore positivo.

Vice-ministro del governo Monti

Vice-ministro del governo Monti, nel gennaio 2012 Michel Martone dà dello “sfigato a chi laurea a 28 anni

Le esternazioni di Martone non sono gravi perché urtano la sensibilità di qualcuno. I passaggi politicamente eloquenti, quasi ignorati dalla stampa, sono quelli dove il sottosegretario loda i giovani figli di immigrati che scelgono gli istituti tecnici invece dei licei. Ovvero, che scelgono di “stare al proprio posto”Monti e Cancellieri sono ben consapevoli che il desiderio di un “posto fisso” può, in realtà, celare l’insidiosa aspirazione a uscire dalla subalternità a cui il precariato costringe in quanto condizione di vita. Il “posto fisso” contempla l’insidia del rifiuto e dell’indisponibilità al lavoro a ogni costo […].

Ma forse rimane un ultimo conmalcolmsiglio di lettura da dare ai professori e ai loro portaborse. Vi è un passaggio, nell’autobiografia di Malcom X, nel quale è descritta una conversazione tra il giovane Malcom e un suo professore di liceo. Interrogato su che lavoro vorrà fare, Malcom risponde senza rifletterci che vuole diventare avvocato. Il prof. Ostrowski, sorpreso, paterno e senza cattive intenzioni, lo esorta a essere realista. Gli spiega che “per il fatto di essere un negro” è meglio che pensi di fare il falegname. Certamente è in quel momento che il giovane Malcom diviene consapevole di cosa avrebbe fatto da grande.

22 Dicembre, 2011

Carlo Galli, Licenziamento

by gabriella

La Parola

Licenziamento

(dall’it. licenza, a sua volta dal lat. licet, è lecito). L’atto con cui si dà licenza  –  ovvero la facoltà e il permesso  –  a qualcuno di andarsene, o lo si rimuove d’autorità da un incarico. Negli ambiti economico-giuridico e politico-sociale il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro allontana un dipendente dall’impiego, rescindendo unilateralmente il contratto di lavoro.

Nel licenziamento si scontrano due diritti, due libertà: la libertà di mettere in libertà, di  allontanare, e la libertà di lavorare in serenità e senza minacce. Ovvero, da una parte c’è il diritto al lavoro del cittadino, sancito dagli articoli 1 e 4 della Costituzione, che implica anche il diritto alla stabilità del reddito da lavoro, come fonte di sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; dall’altro c’è il diritto del datore di lavoro e della sua impresa di impiegare al meglio la forza lavoro, dal punto di vista sia qualitativo sia quantitativo.  Fra questi due diritti  –  che, portati all’estremo, prevederebbero il primo la piena e totale garanzia pubblica della intangibilità del posto di lavoro come diritto soggettivo, e il secondo la insindacabile licenziabilità del dipendente  in qualsivoglia circostanza, sulla base del diritto privato che tutela la proprietà del datore di lavoro  –  gli ordinamenti giuridici istituiscono mediazioni e compromessi, che individuano punti di equilibrio a loro volta collegati alle circostanze storiche, ai cicli economici, ai rapporti di forza che attraversano la società, nonché alla qualità specifica del datore di lavoro (ad esempio, lo Stato tradizionalmente tutela i propri dipendenti dal licenziamento molto più dei datori di lavoro privati).

In Italia si è così passati dall’articolo 18 dello “Statuto dei Lavoratori” (1970), che vieta il licenziamento se non per giusta causa e che conferisce centralità e discrezionalità al giudice del lavoro, il quale in caso di licenziamento ingiustificato può disporre la reintegrazione del lavoratore, al “Collegato lavoro” (2010) che tra l’altro riforma la disciplina del licenziamento individuale, in modalità meno favorevoli ai  lavoratori. Fra le due norme sono passati quarant’anni, durante i quali le ragioni dell’economia di mercato capitalistica hanno progressivamente prevalso su quelle del lavoro dipendente e della sicurezza sociale. Oggi si cerca di contemperare le esigenze di flessibilità del lavoro con quelle della sicurezza individuale e collettiva, combinandole variamente (ad esempio, garantendo la sicurezza del lavoro ma non di uno specifico posto di lavoro), ma la crisi sistemica del capitalismo e la recessione europea generano il diffuso timore che rendere più facili i licenziamenti eliminando il concetto di giusta causa non serva a  favorire il dinamismo delle imprese e la ripresa economica, ma solo a dare un segnale anche simbolico dell’impotenza attuale del lavoro rispetto al capitale.

http://www.repubblica.it/rubriche/la-parola/2011/12/22/news/licenziamento-27071556/?ref=HREA-1

4 Settembre, 2011

Salvatore Natoli, Lavoro e operosità. Scuola e senso del dovere

by gabriella

Ieri sera (3 settembre 2011) Salvatore Natoli ha tenuto una lezione magistrale all’Oicos festival di Assisi e Bastia (PG) sul tema dell’agire (il titolo del suo discorso era Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio).

La sua riflessione si è incentrata sul ruolo dell’azione e del lavoro nella costruzione di soggettività, a partire dall’equivoco di fondo in cui si muove la nostra società nella quale alla perdita di senso del lavoro (non lavoro per me e per un’utilità che mi è subito evidente, ma per “altro”, un altro eternamente mediato dal denato e dalla divisione sociale dei compiti) si lega, per reazione, l‘incremento dell’operosità (quella “motilità” che secondo Natoli scambiamo per attività) e del sanzionamento dell’inefficienza.

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