Che la Cina stia diventando potenza di primissimo piano in corsa per l’accaparramento di risorse globali per un futuro che promette ben poco di buono non è in discussione. Basta girare l’Africa e l’America Latina per cogliere l’impressionante portata della sua presenza, ma soprattutto la rispettosa accoglienza in generale riservatale dalle popolazioni locali. I cinesi, infatti, non presentano il volto arrogante dell’Occidente. Non impongono riforme strutturali o l’introduzione di una retorica dei diritti e della democrazia. La Cina condivide col Sud del mondo una lunga storia di vittimizzazione da parte dell’Occidente e una tale condivisione crea legami profondi. Che l’Occidente abbia imparato a considerare la Cina come un proprio pari, dimostrando il dovuto rispetto per un così importante «condomino globale» è assai più dubbio.
Il diritto offre un’eccellente finestra per osservare la dialettica CinaOccidente, indagando quell’assurdo atteggiamento di superiorità globale che abbiamo sviluppato auto-promuovendoci campioni della «legalità» e infliggendo la nostra retorica a tutte le periferie. L’ingresso sella Cina al Wto, avvenuta nel 2002, è stata preparata da parte cinese attraverso un incredibile numero di riforme del proprio sistema giuridico, non soltanto riforme legislative di tipo formale (abrogate centinaia di leggi contrarie allo spirito del libero commercio internazionale, sostituite con liberalizzazioni in diversi settori dell’economia; introdotte leggi che definiscono strutture proprietarie private, inclusa la proprietà intellettuale) ma anche riforme strutturali, come quelle relative alla formazione dei giudici e all’insegnamento accademico del diritto.
Eppure il trattato di adesione al Wto, contiene clausole che mantengono la Cina in serie B. Infatti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) è un’istituzione fondata sulla formale, quanto ipocrita, uguaglianza giuridica di tutti i suoi membri. Tutti formalmente uguali tranne la Cina, il solo paese obbligato a tradurre le sue leggi in lingua occidentale, probabilmente al fine di facilitare il controllo circa i suoi progressi sulla luminosa strada della legalità da noi tracciatale.Non è la prima volta che ciò succede nella storia. Dopo la Guerra dell’Oppio (1853) sono state imposte alla Cina capitolazioni particolarmente umilianti che, aprendo il mercato, garantivano giurisdizione consolare per gli occidentali. Istituita nel 1906, una Corte Federale Americana ha mantenuto la giurisdizione per i rapporti fra occidentali a Shanghai fino al 1943. A fine diciannovesimo secolo e per tutta la prima fase del ventesimo, al fine di mostrarsi paese degno di essere ammesso nel consesso internazionale, la Cina pre-rivoluzionaria ha rinnegato il suo glorioso passato giuridico iniziando un processo di cosmesi etero-diretto dell’ordinamento che ha portato all’introduzione di codici frettolosamente copiati dalle più prestigiose esperienze di inizio novecento, in particolare quella tedesca.
L’orientalismo, che sulla Cina fu proprio anche di Hegel e di Marx, è talmente profondo che il fatto che alla Cina manchi il diritto (o che essa sia «in transizione» verso il diritto) viene non di rado ripetuto perfino dagli studenti e dai professori cinesi in visita presso università occidentali. Una vera egemonia culturale sulla mente colonizzata. Eppure la Cina ha centralizzato il potere nel terzo secolo prima di Cristo e per governare una tale estensione continentale ha organizzato una struttura giuridico-istituzionale infinitamente superiore per portata e complessità al coevo diritto romano, sviluppatosi per dirimere conflitti fra pochi notabili in un, relativamente, piccolo villaggio. La scuola dei così detti «legisti», già presente nel quarto secolo, ha assistito l’imperatore producendo innumerevoli documenti giuridico-amministrativi volti a garantire la sua assoluta sovranità in ogni angolo del regno. Contemporaneamente Confucio (V secolo a.C.) ha sottoposto a critica la possibilità di governare tramite le leggi, proponendo invece una forma di governo basata sull’esempio, sulla virtù e sul riconoscimento spontaneo del ruolo di ciascuno nel Tao.
Su questi temi il dibattito giuridico-politico nell’antica Cina è stato sofisticatissimo. L’Occidentale conosce la dialetticaconflitto che oppone il Fa (concezione giuridica dei legisti) al Li (concezione confuciana) e nega oggi la natura giuridica ad entrambe: il Fa è mera repressione penale non vero diritto; il Li è mero rituale e costume sociale non vero diritto. Gli studiosi occidentali non riflettono su come questa dialettica abbia prodotto un equilibrio strutturale estremamente duraturo ed efficace nell’assunzione dell’insegnamento di Confucio quale dottrina ufficiale dell’Impero. Nelle parole di un avvocato di Hong Kong pronunciate nei tardi anni Sessanta:
«Voi Occidentali non riuscite a superare quello stadio primitivo che chiamate regime della legalità (rule of law). Siete tutti preoccupati per questa legalità. La Cina ha sempre saputo che la Legge non è sufficiente per governare una società. Lo sapeva 2500 anni fa e lo sa oggi».
Questo equilibrio ovviamente è stato assai variabile nei secoli e ha dato al diritto cinese una fortissima connotazione pubblicistico-amministrativa, con l’interesse pubblico assolutamente sovraordinato a quello dei privati, i quali più che portatori di diritti erano visti come elementi di un tessuto sociale e di un ordine cosmico armonico in cui ciascuno interpretando il proprio dovere sociale (la locuzione diritto soggettivo in cinese è stata creata con apposito neologismo ) contribuiva all’interesse fondamentale dello Stato. In questa concezione fin dall’origine profondamente pubblicistica, il potere politico non si cura del diritto dei privati in conflitto fra loro per ragioni commerciali, familiari o di natura individualistica. In Cina da secoli la stragrande maggioranza dei conflitti interindividuali sono mediati da reti locali non legate al potere sovrano. Mao provò ad interrompere quell’equilibrio sostituendolo con uno rivoluzionario. Egli condivideva con Confucio (e con Marx e Pashukanis) l’idea che la società ideale non ha bisogno del diritto o della coercizione. Condivideva inoltre l’idea che gli interessi egoistici degli individui, se promossi a diritti su cui «insistere», finiscono per rafforzare le strutture ed i privilegi proprietari e feudali, legittimandoli attraverso una retorica favorevole.
Il nichilismo giuridico della Rivoluzione Culturale, in cui il diritto fu consegnato all’arbitrio delle guardie rosse, è stato un episodio estremo, circoscritto rispetto allo sforzo «alto» di costruire un nuovo equilibrio nella legalità socialista. L’Occidente ha enfatizzato il nichilismo della rivoluzione culturale, un episodio non comprensibile senza tener conto della rottura sino-sovietica. Quando è caduto il Muro di Berlino, l’ Occidente ha celebrato la fine della storia. Il fatto che oltre un miliardo e mezzo di persone continuino a vivere in strutture giuridico-politiche «socialiste», che cercano equilibri altri rispetto al privatismo proprietario è stato rimosso. Infatti, a differenza della Russia, solo molto tardi la Cina aveva avuto contatti con l’Occidente giuridico. Per l’Occidente solo l’Unione Sovietica era un vero sistema giuridico socialista: sparito quello, spariti tutti.
Oggi ci illudiamo di capire (e quindi controllare) il sistema giuridico cinese solo perchè nelle loro Gazzette Ufficiali ci sono leggi scritte in inglese che, violentando la tradizione confuciana (ma anche socialista), puniscono il furto della proprietà intellettuale. Siamo convinti che alla Cina manchi tutto quello che ci illudiamo di avere (la legalità) e presenti invece tutto ciò che siamo convinti di aver superato (l’arbitrio del potere). Ne siamo sicuri? Con questo atteggiamento orientalista perdiamo l’occasione tanto di capire noi stessi quanto di costruire insieme alla Cina un modello che pone la cosa pubblica globale al centro (con l’individuo e la corporation strutturalmente e obbligatoriamente al suo servizio). Celebriamo come unica versione della legalità la nostra tradizione, che pone al centro la proprietà privata, illudendoci che essa ponga al centro la persona.
Oggi abbiamo bisogno di contemplare con rispetto tutte le alternative, se vogliamo costruire un modello che ci consenta la sopravvivenza di lungo periodo. La Cina è il nostro orrendo ritratto ben nascosto in soffitta.
Il Manifesto, 29 settembre 2009
17 Gennaio 2013 at 21:41
Illuminante!
Ma se nel 2009 gia’ c’era chi divlceva queste cose come e’ possibile che dopo 4 anni ancora non le abbiamo capite?
17 Gennaio 2013 at 21:45
eh, si Mattei è bravo, ma temo che questo articolo potrà essere rebloggato anche tra dieci anni tanto lo sguardo che adotta è anomalo,
18 Gennaio 2013 at 15:52
Sicuramente alla Cina manca molto di quello che abbiamo noi, dal punto di vista giuridico. Ma manca a partire da Mao, il quale ha bellamente cancellato molte delle leggi, per esempio sulla costituzione di società miste, già adottate ai tempi d’oro di Sun Yat Sen e del Guomindan.
Il problema principale però si trova a monte, nell’operato di Confucio: egli infatti ha avuto la grossa responsabilità di rovinare la Società Cinese, mettendo l’accento sui cosiddetti “Li” e sulla soluzione amichevole delle controversie. Confucio ha avuto un ruolo enorme nel rendere la Cina quella che è adesso, e lo dico in senso estremamente negativo. Ovviamente sono ben consapevole che una Cina “democratica” (per quanto questo termine abbia ancora un senso), non è sicuramente all’orizzonte, ma ci rendiamo conto che ha reso la società cinese succube al potere con i suoi insegnamenti “la donna è soggetta all’uomo”, “il popolo deve obbedire ai governanti…”?
18 Gennaio 2013 at 16:11
Beh, i cosiddetti tempi d’oro di Sun YatSen erano tali per l’imperialismo europeo, non certo per i cinesi, le leggi di cui parli non erano certo il prodotto di una libera elaborazione della società cinese. Il ruolo di Confucio (che ci piaccia o meno) mi sembra poi ingiudicabile in questi termini, sarebbe un po’ come sentirsi dire che Platone ha corrotto l’Occidente 😉 Quanto alla misoginia e all’assolutizzazione del principio d’autorità da parte del maestro Kung, facciamo prima a volgere lo sguardo ai padri della Chiesa (chi è senza peccato scagli la prima pietra).
18 Gennaio 2013 at 16:30
Per carità…lasciamo perdere i padri della chiesa. Mi sento di dire però che Kongzi è stato elevato al rango di simbolo della società cinese solo da poco, si vedano i vari Istituti che portano il suo nome. Mao l’aveva cancellato, e solo negli ultimi anni, dopo Deng, è ritornato in auge.
Mi permetto però di ribadire che durante Sun Yat Sen e Chiang Kai Shek, dal punto di vista di riforme giuridiche, la situazione era di gran lunga migliore di quella di adesso. Certo, l’imperialismo c’era e ha fatto danni enormi….ma dal punto di vista degli studi giuridici a quei tempi erano avanti! Poi è arrivato Mao, e tutto tornò nel Medioevo…..
18 Gennaio 2013 at 16:56
Forse dovremmo concedere ai cinesi di dirci che ne pensano del nostro di medioevo (in effetti, quelli con cui parlo non ne pensano un granché). Non mi sembra così scontato intendersi su ciò che è “migliore” o “più progredito”, a meno di tornare davvero all’ottocento e al vecchio buon etnocentrismo coloniale.
18 Gennaio 2013 at 17:27
Il nostro di Medioevo è durato troppo a lungo, il loro invece, dal punto di vista storico, ha visto una crescita culturale senza precedenti, rendendo la Cina all’avanguardia in molte arti e nella tecnica. Però io parlo del Medioevo “sociale” che venne dopo che il “caro” Mao arrivò al potere: abrogò ogni legge che era stata promulgata in precedenza, distrusse vite e proprietà (che al tempo di Chang erano ancora private in un certo senso) e mise letteralmente in schiavitù gente che aveva la unica colpa di essere più ricchi degli altri (senza contare se fossero buoni o cattivi proprietari terrieri). Mi creda, io parlo di queste cose avendo attinto da fonti primarie (non leggi, ma persone) ora contadini poveri e prima invece benestanti, che si sono visti le loro vite distrutte e accusati di essere borghesi. Donne incinta al 6° mese che dovevano fare 100Km al giorno con 30Kg di grano e riso sulle spalle per andare al centro di raccolta più vicino, dato che Mao aveva introdotto la collettivizzazione.
Non c’è nulla di etnocentrico nel mio ragionamento: io amo la Cina, la sua lingua, la sua cultura, la sua gente, ci ho vissuto e ci vado spesso. Il problema è che iCinesi, sia quelli che attualmente vivono li, sia quelli della diaspora, che per il 90% dei casi sanno poco niente della propria storia, non hanno il coraggio di reagire, perchè gli è stato fatto il lavaggio del cervello primo con le concezioni retrograde di Confucio, e poi con i deliri di Mao.
Se solo, nella mia modestissima opinione, ci fosse stato ancora Chang-Kai-Schek, io credo che la storia sarebbe stata di gran lunga migliore sia per loro che per noi…
A proposito, grazie dello scambio di idee!!!!!
18 Gennaio 2013 at 17:33
grazie a te 🙂 un’osservazione però: anche l’autrice della Capanna dello zio Tom amava il buon vecchio domestico, l’amore non fornisce garanzie d’uguaglianza..
18 Gennaio 2013 at 18:01
forse mi conviene rileggere con calma le opere di Teitaro Suzuki
e soprattutto meditare su cosa pensasse Alan Watts riguardo all’Occidente e
all’Oriente.
Ciao Gabriella
18 Gennaio 2013 at 18:03
un’ottima idea, non si finisce mai di rileggere Watts. Ciao