Alessandro dal Lago, Qualcuno da odiare

by gabriella
treviso

La protesta di Treviso contro gli stranieri

L’allarme sociale scatenato dalla sistemazione dei migranti in quartieri periferici a Treviso e Roma, alcuni mesi fa, perpetua la logica della paura a cui siamo familiarizzati dagli anni ’90. In questo frammento di Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale [Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 72-75], Alessandro Dal Lago spiega il ruolo della stampa nella costruzione di un senso comune ostile e il meccanismo tautologico attraverso cui si costruisce la paura dello straniero.

Il sociologo non può disinteressarsi dell’ideologia razziale semplicemente
perché dal punto di vista scientifico è una scempiaggine: molte situazioni
sociali sono efficientemente controllate dalle definizioni di imbecilli.

P. Berger, Invito alla sociologia (trad.it) 1967


Qualcuno da odiare

DouglasOgni discriminazione o persecuzione degli stranieri, interni o esterni, viene tradizionalmente attuata mediante il ricorso a meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle vittime [M. Douglas, Purezza e pericolo, trad. it. Il Mulino, 1967]. Gli ag­gressori sono solitamente “vittime” di torti da raddrizzare o cittadini deboli o abbandonati dalle istituzioni che si coalizzano per fare giusti­zia, mentre gli aggrediti o i discriminati sono corpi estranei, invasori, corruttori o comunque nemici della società indifesa.

Spesso, il ruolo di difensori o vendicatori della società offesa viene assunto dagli impren­ditori morali [la definizione è di H.S. Becker in Outsiders, trad. it., 1987] avanguardie che si accollano il compito di scuotere un’opinione pubblica passiva e inconsapevole. Talvolta, singole istitu­zioni o centri di potere influenti mobilitano, mediante denunce appropriate, la società contro individui o gruppi. La colpevolizzazione delle vittime assume natsimonino_palazzosalvadori_mruralmente forme diverse e varia di intensità a secon­da dell’organizzazione politica della società, dell’esistenza e della forza di un’opinione pubblica indipendente dal potere politico.


La persecuzione degli
«stranieri interni» (eretici, streghe e devianti di ogni tipo) o esterni (ebrei e zingari) è un fenomeno ricorrente della storia europea.7 Le prime crociate, e soprattutto quelle popolari, erano ac­compagnate da una “risoluta” caccia agli ebrei, come ricordano le cronache del tempo [S. Runciman, Storia delle crociate, Torino, Einaudi, 1966, pp. 120 ssg].8 Il panico suscitato dall’epidemia della peste nera, che spopolò l’Europa intorno alla metà del Quattordicesimo secolo, sfociò nella persecuzione e in un primo sterminio di massa degli ebrei, nell’indifferenza delle autorità politiche che avrebbero dovuto proteg­gerli [K. Bergdolt, La peste nera e la fine del Medioevo, Casale Monferrato, Ed. Piemme, 1997, pp. 184 ssg.].

Lo stereotipo della zingara rapitrice di bambini

Lo stereotipo della zingara rapitrice di bambini

Dopo una prima fase di tolleranza, fino al secolo Quindicesimo, gli zingari subirono una persecuzione capillare da parte delle comunità urbane e delle autorità politiche e religiose [F. Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Jaca Book, Milano, 1997]. Anche nei periodi di quie­te e di relativa tolleranza, gli stranieri erano ormai identificati come una fonte potenziale di pericolo, di corruzione della società e quindi di paura [J. Delumeau, La paura in Occidente, Torino, Sei, 1979]. Dicerie incontrollate che si diffondevano passando di bocca in bocca (analoghe alle attuali “leggende metropolitane”)12 attribuivano a ebrei e zingari pratiche sacrileghe e crimini atroci, come il rapimento dei bambini.13

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La rappresentazione giornalistica dei muratori ginevrini in sciopero (1910)

black-bloc

Il black bloc

Nell’epoca moderna, la cultura della paura si secolarizza e si estende ai nemici interni, prima alle classi lavoratrici in quanto “classi pericolose” e poi a tutti i tipi di devianti o criminali che periodi­camente sono oggetto delle preoccupazioni collettive.14 Tra Dicianno­vesimo e Ventesimo secolo, nel lungo processo di inclusione delle classi lavoratrici urbane nella società occidentale, il ruolo dei nemici interni sarà progressivamente riservato, oltre che alle minoranze storicamente discriminate, agli hooligans, cioè ai teppisti e agli sbandati.15

L’antisemitismo di fine Ottocento è una delle manifestazioni più vi­stose del persistere dei meccanismi sociali di persecuzione delle mino­ranze nell’Europa moderna. Ma l’evento che istituzionalizza la paura di massa del nemico nella cultura europea è certamente la Prima guer­ra mondiale, con il suo retaggio di odi nazionali e il seguito di guerre civili e rivoluzionarie. E proprio tra i milioni di uomini ammassati nel­le trincee che si diffondono le dicerie di massa sul tradimento, sulle quinte colonne che aiutano dall’interno il nemico esterno.16 Dopo la Prima guerra mondiale, sono i regimi totalitari a sfruttare la disponibilità di massa all’odio, imponendo, come nel caso del nazismo, la perse­cuzione burocratica degli ebrei.17 Un elemento comune alla stigmatiz­zazione degli stranieri interni o esterni (indipendentemente dalle spe­cifiche forme storiche e
dalle strumentalizzazioni politiche) è la paura della contaminazione, della mescolanza dei gruppi, della promiscuità sessuale, della diffusione di malattie provenienti dall’esterno.

ebolaSe in passato questo tipo di paura collettiva ha alimentato le forme estreme di razzismo, oggi rinasce come preoccupazione di senso co­mune nella richiesta di controlli medici degli stranieri e si esprime in una “patologizzazione” degli stranieri in quanto tali [F. Boni, Il virus nella rete, Università di Genova, 1997]. Un esempio di questa procedura di stigmatizzazione di senso comune viene offerto dall’intervista di un’attivista di un comitato di cittadini genovesi, se­condo cui “nazionalità” degli “extracomunitari” e “malattie” sono so­stanzialmente la stessa cosa.

liberiaC’è stato un convegno di medici a Napoli – di cui io ho una conoscenza medica; mi ha mandato tutto il resoconto di quelle malattie che hanno po­tuto vedere che si possono… che ci sono… Di come è progredita la malat­tia, e tutto… Io c’ho proprio un documento così di questo convegno di Napoli. […] delle malattie extracomunitarie, e queste cose qua [..]. Però mi hanno anche detto questo – mi hanno detto: “Questa cosa tienitela per te” […]- ma io le dico che il cittadino straniero non mi vuole dire di che nazionalità è – non ce n’è problema: io gli faccio una schermografia, e dal­la schermografia vengo a sapere di che nazionalità è. In questo convegno a Napoli hanno tirato fuori anche questo, appunto per tutelarci un pochino. Perciò, quando poi mi mettono alle strette, allora chiederemo anche che per sapere la nazionalità – aggiungeremo alle nostre richieste che per sape­re la nazionalità di ogni cittadino di cui non si ha, basta fare la schermo- grafia prodotta – cioè, richiesta – da questo medico nella maniera che la ri­chiede lui… Noi veniamo anche a sapere di che nazionalità è.

Oggi, diversamente dai tradizionali nemici esterni e interni, i mi­granti entrano in contatto con società ufficialmente laicizzate ed estranee ai miti collettivi. In esse operano però imprenditori morali infini­tamente più efficaci che in passato, capaci non solo di comunicare istantaneamente la paura a un numero enorme di persone, ma anche di alimentarla e in alcuni casi di crearla: i mezzi di comunicazione di massa. Dicerie, leggende metropolitane, pregiudizi e paure circolanti nelle società locali possono diventare, per effetto dell’informazione di massa, prima risorse simboliche e poi verità sociali oggettive  [H.P. Jeudy, Panico e catastrofe. La cultura della catastrofe e l’estasi del rischio, Genova, Costa & Nolan, 1997].

Stereo­tipi che probabilmente hanno sonnecchiato per secoli nella memoria collettiva – lo straniero come untore, vagabondo incontrollabile, orco, ladro di bambini e stupratore di donne [M. Tournier, Il re degli ontani, Milano, Garzanti, 1988] tornano in circolo grazie ai media e trovano conferma in episodi di cronaca nera, veri o falsi, reali o virtuali, ma comunque ideali per alimentare le paure profonde.

 

La tautologia della paura

Manifesto fascista, 1944

Manifesto fascista, 1944

[Assistiamo] a un circuito suggestivo tra senso comune locale (“Sono stati gli albanesi”), iniziative politiche (“ronde”), e generalizzazione ad opera dei media (“Ritorna l’incubo delle bande di slavi”) grazie ai quali lo straniero viene incessantemente costruito e ricostruito come nemico. Indipendentemente dal loro contesto locale, questi fatti acquistano senso, visibilità e realtà solo grazie al rilievo ottenuto sulla stampa che risulta quindi l’attore decisivo nell’alimentare il circuito.

Se nel corso degli anni ottanta le informazioni relative all’immigrazione erano soggette a una grande variabilità, a partire dai primi anni novanta, la stampa quotidiana dedica all’immigrazione un’attenzione costante e crescente. Si tratta di un’attenzione in gran parte concentrata sulle notizie negative, che comunicano un’immagine dell’immigrazione come problema sociale “grave”: per esempio, su 824 articoli relativi agli immigrati pubblicati su 7 quotidiani nazionali negli anni 1992/993, il 47% riporta notizie di reati commessi o di provvedimenti di ordine pubblico che li riguardano, ma solo l’8% episodi di razzismo o xenofobia. Ma prima ancora che della prevalenza quantitativa dell’informazione negativa, l’immagine dei migranti come “problema”, “piaga” o “minaccia” è costruita e comunicata dagli organi di informazione mediante l’uso costante di titoli a effetto, di scelte stilistiche che sembrano calcolate per provocare un disgusto “oggettivo” nei lettori. Ecco una breve rassegna di titoli:

COSTRETTO A BERE L’ACQUA DEL CANE (“Corriere della sera”, 15/1/1995); NELL’INFERNO DEL TERZO PIANO. BLITZ IN PIAZZA ARBARELLO SVELA UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO TRA CONNAZIONALI. QUATTRO STANZE OSPITAVA­NO 28 NORDAFRICANI (“La Stampa”, 2/9/1994); VIOLENTATO MINORENNE NORDAFRICANO – DI GIORNO A VENDERE, DI NOTTE FA IL PROSTITUTO (“La Stampa”, 8/9/1994) […]; IMMIGRATI IN VENDITA. A FOGGIA UN GRUPPO DI TUNISINI GESTIVA PROSTITUZIONE E LAVORO NERO. AI LAVORATORI DEI CAM­PI, POCO DENARO, MISERO CIBO E SESSO A PREZZI STRACCIATI (“Il Piccolo”, 1/9/1994); ALBANESI SCHIAVE DELLA STRADA (“La Gazzetta del Mezzogior­no”, 19/9/1994); AGENTE, TI PREGO ARRESTAMI. MAROCCHINO DI 14 ANNI: COSÌ MANGIO SEMPRE. I RAGAZZI “CAVALLO”. STORIE DI MISERIA NELLA LOT­TA AGLI AFRICANI CHE SFRUTTANO I MINORI PER SPACCIARE (“La Stampa”, 20/9/1994); OTTO MESI AL FREDDO CON LA MAMMA MENDICANTE. BIMBA NOMADE RICOVERATA ALL’OSPEDALE IN STATO DI DENUTRIZIONE (“La Stam­pa”, 24/9/1994).36

Questi titoli, relativi all’epoca in cui l’“emergenza” stava montan­do, sono in realtà ben poca cosa rispetto a ciò che la stampa avrebbe diffuso qualche anno dopo sul nesso “immigrati/criminalità”. E d’obbligo notare come in Italia si sia ben lontani dall’autoregolamentazione che impone alla stampa americana di non citare il “colore” degli arre­stati o dei sospettati quando si riportano fatti di cronaca nera. Poco meno di trent’anni fa, un criminologo americano notava come l’etnicizzazione del crimine da parte dei media (che egli riteneva speculare alla stigmatizzazione delle minoranze nei procedimenti giudiziari) si stesse attenuando, grazie alla pressione dei movimenti per i diritti civi­li [E.M. Schur, Our Criminal Society. The Social and Legal Sources of Crimes, 1969, p. 80]. In Italia, mentre nessuno scriverebbe di “veneti fermati per schia­mazzi notturni” o di “inclinazione al lancio di sassi tra i tortonesi”, l’appartenenza “etnica”, “nazionale” e “razziale” è una costante asso­luta nella definizione di migranti fermati o arrestati per qualsiasi reato o infrazione (tempo fa, un giornale locale di Genova riportava con grande evidenza, in prima pagina, il titolo: PIRATA ALBANESE TRAVOLGE DONNA)39.

La variazione quantitativa e stilistica nel trattamento delle informa­zioni sull’immigrazione corrisponde a un cambiamento tematico deci­sivo. A partire dai primi anni novanta, l’immigrazione viene quasi esclusivamente definita in termini di illegalità e di degrado, mentre la fonte privilegiata delle notizie è costituita da un nuovo attore sociale, il cittadino che protesta contro il degrado, cioè contro l’immigrazione.

Come nota un sociologo che ha studiato in profondità la “costruzione sociale degli immigrati” sulla stampa, le notizie che li riguardano non solo vengono filtrate attraverso queste voci interessate, ma sono so­prattutto contestuali, costruite attraverso un’equazione implicita di immigrazione e disordine. Insieme, questi due elementi compongono il canovaccio narrativo tipico degli articoli di una certa consistenza su­gli immigrati, un canovaccio che comprende invariabilmente l’“asse­dio dei cittadini da parte degli immigrati criminali”, la “protesta del quartiere”, l“arrivo dei nostri” (la polizia) e infine il “sollievo (tempo­raneo) degli onesti”40.

Erving Goffman

Erving Goffman (1922 – 1982)

ThomasWIDa un punto di vista testuale, l’esistenza di un canovaccio narrativo ricorrente rivela un meccanismo stabile di produzione mediale della paura. Definisco come “tautologico” questo meccanismo quando la semplice enunciazione dell’allarme (in questo caso “l’invasione di im­migrati delinquenti”) dimostra la realtà che esso denuncia. Questi meccanismi “autopoietici” [l’autopoiesi è in biologia la capacità degli esseri viventi di riprodursi e di riprodurre i propri sottosistemi e le loro relazioni, mantenendo un equilibrio omeostatico (Maturana e Varela, 1985). Uso qui il concetto di autopoiesi per analogia e limitatamente ai sistemi comunicativi (per sottolineare) come determinati sistemi, al tempo stesso sociali e simbolici, sono in grado di produrre una realtà virtuale pur di mantenere la propria capacità riproduttiva] sono noti in sociologia, a partire almeno dal concetto di “definizione della situazione” (coniato da W.I. Tho­mas), secondo cui “se gli uomini definiscono le situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze” [W. I. Thomas, The Child in America, New York, 1928, p. 584, citato in P. McHugh, Defining the situation. The Organization of Meaning in Social Interaction, Indianapolis, 1968].

In altri termini, una situazio­ne sociale è quello che gli attori coinvolti o interessati definiscono che sia. Ciò sembrerà meno ovvio considerando che un accordo comun­que determinato tra diversi attori ha spesso la capacità di imporre la definizione ufficiale e corrente di una situazione, anche se la definizio­ne in questione è sotto ogni punto di vista falsa, bizzarra o improbabi­le (a ciò allude la citazione di P. Berger in esergo a questo capitolo). Nella costruzione autopoietica del significato, le definizioni soggettive di una situazione diventano reali, cioè oggettive, e questo è tanto più vero quanto più riguardano aspetti socialmente delicati, come la “pau­ra del nemico”. A tale intreccio di percezioni soggettive e definizioni oggettive dell’allarme si riferisce Erving Goffman in uno studio sulla “produzione della realtà”:

[…] il termine [allarme] è un esempio di quella fastidiosa classe di parole che nell’uso comune indicano sia ciò che causa una condizione del sogget­to che la percepisce sia la condizione stessa [E. Goffman, Relazioni in pubblico, Torino, Bompiani, 1981].

La capacità di una definizione allarmistica di diventare oggettiva, e quindi predominante, dipende da alcuni fattori strategici. In primo luogo dall’accordo degli attori incaricati a qualsiasi titolo di produrre definizioni. In secondo luogo dalla loro legittimità, cioè dal loro diritto. È del tutto evidente, per esempio, che nel caso di un crimine con vittime, sono queste ad avere il diritto di definire ciò che è accaduto, e non il presunto colpevole, anche se la sua colpevolezza non è dimostrata.

Quando è in gioco una “colpa” (l’allarme sociale ha sempre a che fare con l’individuazione di “colpe” e “responsabilità”), l’accusatore non solo ha il diritto di definire, ma soprattutto di definire per primo, ciò che gli consente di condizionare le definizioni della situazione che seguiranno. Questo è vero ovviamente per l’organizzazione dei processi penali, il rito accusatorio per eccellenza in una società complessa, ma vale anche per il tema che stiamo discutendo, la produzione dell’allarme e della paura, quando le definizioni sono fatte proprie dalla stampa.

Ciò costituisce il terzo fattore strategico di trasformazione dell’allarmismo in pericolo oggettivo. La capacità della stampa di imporre la “definizione della situazione” dipende dalla sua funzione fondamentale di agenda-setting, cioè dalla costruzione del campo di ciò che è rilevante o di pubblico interesse, dalle modalità correnti e implicite di news manufacturing, come la selezione delle notizie, le retoriche usate eccetera.

Quanto più queste modalità sono correnti, ripetitive, automatiche, date per scontate, tanto più conferiranno oggettività alla definizioni allarmistiche della realtà, trasformandole in sfondo cognitivo abituale. La definizione dell’“allarme” da parte dei media, a sua volta, è legittimata e confermata dall’esistenza di attori che rivendicano la rappresentanza della società locale, quella più minacciata dal pericolo, ovvero dalla criminalità degli stranieri. Quando le voci dei cittadini vengono interpretate o rappresentate da un attore politico legittimo (questo ruolo tende a essere assunto in Italia dalla Lega), il problema dell’“allarme” diventa una issue politica di rilevanza nazionale che le pubbliche autorità non possono più ignorare. L’intero processo di costruzione tautologica dell’allarme può essere rappresentato come segue:

 

 Tautologia della paura (ovvero come una favola diventa realtà)

Risorsa simbolica: “Gli stranieri sono una minaccia per i cittadini” (perché genericamente “clandestini”, criminali eccetera).

Definizioni soggettive degli attori legittimi: (Sindaci, uomini politici) “Stuprano e uccidono le nostre donne. Abbiamo paura. Gli stranieri ci minacciano” (come dimostra il degrado dei nostri quartieri, singoli episodi di violenza, i “fatti di Brescia” eccetera).

Definizione oggettiva dei media: “Gli stranieri sono una minaccia, come
risulta dalle voci degli attori [legittimi] (sondaggi, inchieste eccetera), nonché dai fatti che stanno ripetutamente accadendo”.

Trasformazione della risorsa simbolica in “frame” dominante (è dimostrato che gli immigrati clandestini minacciano la nostra società, e quindi “le autorità devono agire subito” eccetera).

Conferma soggettiva degli attori legittimi: “Non ne possiamo più, che fanno i sindaci, la polizia, il governo?”.

Intervento del “rappresentante politico legittimo”: “Se il governo non interviene, ci penseremo noi a difendere i cittadini eccetera”.

Eventuali misure legislative, politiche e/o amministrative che confermano il “frame dominante”: Il governo dichiara: E’ ora di dire basta. Applicheremo la legge e cacceremo i clandestini”.

Grazie alla comparsa del cittadino che protesta, e cioè della “vittima dell’immigrazione”, le reazioni o conferme soggettive si traducono inevitabilmente in risorsa politica, alimentando le retoriche dei gruppi politici che “rappresentano” i cittadini (l’opposizione deve dimostrare che il governo è insensibile alla voce dei cittadini, mentre il governo deve dimostrare, con determinati provvedimenti, di essere consapevole, sollecito, “in guardia” eccetera). Perché la risorsa sia utilizzabile dai diversi attori politici e istituzionali, non è necessario che essa corrisponda a un sentimento di massa, diffuso o radicato, ma semplicemente che sia evocata dall’informazione e confermata dalla viva voce dei “protagonisti”.

Le notizie sulle proteste dei cittadini contro il degrado sono sufficienti a fare delle proteste una realtà indiscutibile, dominante, e soprattutto rappresentativa di ciò che la “gente” pensa. L’innesto in questo corto circuito di imprenditori politico-morali (legittimati, come vedremo nei capitoli successivi, anche dagli osservatori “neutrali”) fa sì che la risorsa politica locale conquisti il rango di risorsa primaria e globale nell’agenda politica. È così che l’“ emergenza immigrazione”, cresciuta come una sorta di magma o “blob” politico-mediale negli anni recenti, è divenuta una verità indiscutibile, capace non solo di espandersi indefinitamente nutrendosi delle retoriche che l’hanno generata, ma di promuovere accesi dibattiti politici nazionali, interventi governativi e provvedimenti di legge.

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