Posts tagged ‘Dewey’

23 Aprile, 2024

Dewey

by gabriella
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John Dewey (1859 – 1952)

John Dewey (1859-1952) è il massimo esponente del pragmatismo americano e il pensatore che più d’ogni altro esprime le ragioni profonde, educative e sociopolitiche, dell’attivismo pedagogico del primo Novecento.

«Il futuro è legato al diffondersi dell’atteggiamento scientifico. È questa l’unica garanzia contro uno sviamento su vasta scala per opera della propaganda. Ancor più importante, è l’unico modo per assicurare la possibilità di una pubblica opinione abbastanza intelligente per affrontare i presenti problemi sociali».

J. Dewey, Libertà e cultura

Indice

1. La scuola progressiva

1.1 Non solo scuola attiva, ma una scuola strumento di progresso sociale

1.1.1 Scuola attiva e scuola progressiva

 

2. I fondamenti teorici

2.1 Unitarietà del reale e strumentalismo logico
2.2 L’esperienza e l’interazione individuo-ambiente
2.3 Esperienza e pensiero
2.4 L’origine del pensiero
2.5 Educazione ed autoeducazione

 

1. La scuola progressiva

Nato a Burlington, nel piccolo Stato del Vermont, Dewey risente in particolare delle influenze del pragmatismo di William James, una filosofia che ha come proprio oggetto di riflessione l’esperienza intesa come processo di interazione tra l’individuo e l’ambiente.

Dietro di essa si può intravedere l’evoluzionismo di Darwin che, come è noto, ha posto l’interazione individuo-ambiente alla base dei processi di adattamento coi quali l’umanità si è evoluta nel tempo.

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12 Maggio, 2016

Dalle “macchine per insegnare” all’iPad. Verso una scuola della mediocrità

by gabriella

Ho scritto questo articolo durante il ministero Profumo, quando i test INVALSI non erano ancora uno degli strumenti di valutazione delle scuole. Vi commentavo un testo pionieristico degli anni ’60 [alcuni stralci in fondo all’articolo], con cui Burrhus Skinner aveva provato a reinterpretare, ad un decennio dalla loro introduzione nella scuola americana, le “macchine per insegnare” (computer-assisted instruction) che aveva teorizzato nel contesto dell’applicazione alla didattica della psicologia comportamentista.

In queste riflessioni, Skinner ribadiva che le macchine per insegnare non costituiscono soltanto una innovazione tecnica ma rappresentano l’attuazione di nuovi princípi nel campo dell’insegnamento. Esse permettono infatti di “accelerare l’apprendimento” attraverso l’applicazione delle tecniche dell’istruzione programmata, basate sul rinforzo del comportamento corretto (l’insegnamento qui è semplice addestramento).

Questa tecnologia richiede però la ridefinizione degli obiettivi educativi non più in termini di “capacità da migliorare”, o di “processi mentali da sviluppare”, ma di comportamenti, prestazioni che si desidera produrre come risultato (osservabile e verificabile) dell’apprendimento [è questo il fondamento epistemologico dei test INVALSI]. 

friedrich_nietzsche_zeichnung_by_berzelmayrNella riflessione di Skinner è dunque già contenuta l’analisi di un modello scolastico le cui retoriche sono tratte dal linguaggio, familiare agli insegnanti, del cognitivismo (la didattica per competenze), ma i cui obiettivi sono quelli comportamentisti della riduzione dell’insegnamento ad addestramento a compiti più o meno sofisticati e della rinuncia all’educazione di una generazione: il programma della decostituzionalizzazione della scuola italiana, della nuova Zuchtung (in versione decisamente peggiorativa rispetto a quella conformistica, ma formativa, che Nietzsche detestava).

L’articolo presenta brevemente la psicologia e l’antropologia comportamentiste, segue una breve illustrazione della pedagogia e della didattica computer assisted e uno stralcio della riflessione critica di Skinner a dieci anni dalla sperimentazione negli USA delle macchine per insegnare. Qui, invece, la mia proposta didattica (rivolta ad un quinto liceo) in relazione ai test a risposta chiusa: Fighting (the fear of) the test.

Una nazione che distrugge il proprio sistema educativo, degrada la sua informazione pubblica, sbudella le proprie librerie pubbliche e trasforma le proprie frequenze in veicoli di svago ripetitivo a buon mercato, diventa cieca, sorda e muta. 

Apprezza i punteggi nei test più del pensiero critico e dell’istruzione.

Celebra l’addestramento meccanico al lavoro e la singola, amorale abilità nel far soldi.

Sforna prodotti umani rachitici, privi della capacità e del vocabolario per contrastare gli assiomi e le strutture dello stato e delle imprese. 

Li incanala in un sistema castale di gestori di droni e di sistemi. Trasforma uno stato democratico in un sistema feudale di padroni e servi delle imprese.

Chris Hedges, Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico2012

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29 Marzo, 2016

Andrea Parravicini, Dewey, Darwin e il Ministero del Disturbo

by gabriella
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John Dewey (1859 – 1952)

Alcuni stralci dell’articolo, uscito oggi sulla Mela di Newton.

Nel primo di una collezione di saggi dal titolo The Influence of Darwin on Philosophy (H. Holt & Co., New York 1910), più di un secolo fa Dewey faceva notare come già il titolo del capolavoro di Darwin, L’origine delle specie (1859), contenendo i termini “origine” e “specie”, esprimesse una rivolta intellettuale contro i presupposti della filosofia della natura e della conoscenza che aveva regnato nel pensiero occidentale per duemila anni. Da sempre la cultura occidentale considera tutto ciò che in natura e nel sapere umano è fisso, non cambia, o ha uno scopo finale, come qualcosa di superiore rispetto a ciò che cambia, diviene senza scopo o ha un’origine. Il cambiamento, il divenire cieco, sono sempre stati considerati dalla cultura occidentale come segni di difetto e di irrealtà. L’origine delle specie, scrive Dewey,

Charles Darwin

Charles Darwin (1809 – 1882)

«nel trattare le forme, che erano state considerate come tipi fissi e perfetti, come entità che hanno un’origine, cambiano e scompaiono, […] ha introdotto un modo di pensare che alla fine era destinato a trasformare la logica della conoscenza, e dunque il modo di trattare la morale, la politica e la religione» (pp. 1-2).

Per duemila anni, nota Dewey, cogliere le essenze, le forme immobili insite nella natura (come le cosiddette “specie”), i “fini” permanenti all’interno del perenne divenire delle cose del mondo, è stato lo scopo della conoscenza scientifica. Questa filosofia ha dominato in tutti i campi del sapere umano relativo alla natura, fino a che la scienza moderna, con Galilei e Cartesio, non ha eliminato i principi fissi e le cosiddette cause finali di aristotelica memoria dall’astronomia, dalla fisica, dalla chimica.

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12 Giugno, 2015

Carlo Crosato, La buona scuola nasce dal pensiero critico

by gabriella

pensiero-criticoNella conversazione di Massimo Baldacci con Carlo Crosato, pedagogista dell’Università di Urbino, una disanima dell’educazione al pensiero critico e del suo tessuto di elementi formali e informali che includono relazioni orizzontali ed esercizio del dubbio; esattamente l’opposto della scuola piramidale propugnata da Renzi e dall’Associazione Treelle. Tratto da Micromega.

Si parla molto spesso dell’importanza, per i nostri tempi, della formazione allo spirito critico. E c’è chi inizia a progettare dei corsi dedicati alla materia. Ma il pensiero critico è una materia? È qualche cosa che può essere insegnato con l’illustrazione di modelli di pensiero?

Se prendiamo in considerazione alcuni modelli di pensiero, possiamo renderci conto, come prima cosa, di quanto racchiudere il pensiero critico entro i confini di un modello applicativo sia limitante. Prima di tutto perché ogni modello ha dei propri limiti; ma poi, come dirò, anche perché il pensiero critico è pensiero in un certo senso libero: vincolarlo a un preciso algoritmo sarebbe decisamente contraddittorio.

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28 Giugno, 2013

Antonio Fiscarelli, Comunicazione e trasmissione secondo Danilo Dolci

by gabriella

Danilo Dolci

Il blog di Giuseppe Casarrubea segnala un bel saggio di Antonio Fiscarelli, dottorando a Lyon 2, sul conflitto tra comunicazione e trasmissione nel pensiero educativo di Danilo Dolci.

Nella storia teorica e pratica dell’educazione, la nozione di trasmissione ha sicuramente riscosso maggiore interesse rispetto a quella di comunicazione, quando questa non è stata decisamente confusa con quella. Non sottostimerei quanto abbia storicamente influito nell’affermarsi dell’una in contrasto con l’altra il fatto che per millenni le popolazioni abbiano vissuto sotto governi dittatoriali prima di cominciare l’esperienza della democrazia [Traduzione del testo francese “Danilo Dolci. Le conflit entre transmettre et communiquer et sa résolution maïeutique, presentato alla “Biennale internationale de l’éducation, de la formation et des pratiques professionnelles”, Parigi, 2012].

La trasmissione – di conoscenze, valori, tradizioni, abitudini – a cui fanno principalmente allusione alcune correnti di pensiero e pratiche educative, i modi di organizzare il passaggio generazionale dei patrimoni sociali e culturali, conserva legami molto forti con le forme di governo che anticipano la nascita della democrazia. Un modello educativo –che Danilo Dolci non ha esitato a definire trasmissivo, nel senso peggiore del termine- si è formato durante secoli di tirannie e dispotismi, di cultura oppressiva, autoritaria e violenta. Al contrario, la nozione di comunicazione e tutto l’universo immaginario che essa implica, sono comparsi solo negli ultimi due tre secoli di progressivo sviluppo dei grandi stati democratici. Questi sono fondati su un’idea molto positiva di comunicazione, intesa come partecipazione e apertura agli scambi e alle relazioni reciproche tra individui e gruppi (ciò che faciliterebbe anche gli scambi meramente economici come li possiamo osservare oggi, fondamentali per il tipo di democrazia che gli stati moderni hanno adottato, ciascuno interpretandolo a modo proprio), mentre le dittature puntano a rompere la comunicazione di individui e gruppi verso l’esterno, a ridurla drasticamente all’interno, a strutturare una comunicazione interna inoculante e omologante.

Nel praticare scambi ridotti al poco che basta per conservare il controllo e il dominio di pochi su molti, anche nelle democrazie la comunicazione resta su alcuni piani appunto vincolata ancora al modello trasmissivo (l’esempio più tipico è quello dato dai mass-media e dalla politiche didattiche nelle scuole e nelle università).  Tuttora prevalente nei centri sensibili dell’educazione dei popoli, tale modello è l’esito dell’interiorizzazione dei modelli precedenti, solo parzialmente influenzati dalla moderna cultura democratica, molto limitatamente cresciuti di autentico democratico modo di essere e fare a seconda del paese).

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24 Aprile, 2013

Noam Chomsky, Can civilisation survive really existing capitalism?

by gabriella

Traggo da Come Don Chisciotte, la traduzione del discorso tenuto da Noam Chomsky il 13 aprile 2013 al Collegio Universitario di Dublino in occasione del conferimento della UCD Ulysses Medal. Nell’evidenziare l’incompatibilità della democrazia e della stessa sopravvivenza del pianeta con il capitalismo reale (che lo studioso distingue da quello ideale, espressione delle teorie politiche ed economiche sorte nel XVI° secolo), Chomsky si sofferma sulla manipolazione dei pubblici in relazione ai grandi temi contemporanei (giustizia, cambiamento climatico), concludendo che è probabilmente per contenere la crescita della consapevolezza sociale che nel XXI secolo è stato demolito il sistema educativo nella maggior parte dei paesi capitalisti.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_uuYjUxf6Uk]

Può la civiltà sopravvivere al capitalismo reale? [Si veda anche Le 10 leggi del potere].

Il capitalismo oggi esistente è radicalmente incompatibile con la democrazia.

Vi è il “capitalismo” e poi c’è il “capitalismo reale”.

Il termine “capitalismo” è comunemente usato riferendosi al sistema economico degli USA, che prevede considerevoli interventi dello Stato, i quali vanno dai sussidi per l’innovazione creativa alla politica assicurativa “too-big-to-fail” (troppo-grandi-per-fallire, ndr) del governo per le banche.

Il sistema è altamente monopolizzato e ciò limita ulteriormente la dipendenza dal mercato, in modo crescente: negli ultimi 20 anni la quota dei profitti delle 200 imprese più importanti è aumentata enormemente, riporta l’accademico Robert W. McChesney nel suo nuovo libro Digital disconnect.

In questo momento “capitalismo” è un termine comunemente usato per descrivere sistemi nei quali non ci sono capitalisti; per esempio il conglomerato-cooperativa Mondragón nella regione basca in Spagna, o le imprese-cooperative che si espandono nel nord dell’Ohio, spesso con il sostegno conservatore – entrambe esaminate in un’importante ricerca dell’accademico Gar Alperovitz.

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