Alberto Bagnai, Che cos’è la produttività

by gabriella

Nel discorso di insediamento del nuovo presidente di Confindustria un’idea ingegneristica, semplice e intuitiva  (dunque inautentica), della produttività. Nell’articolo sottostante Bagnai mostra invece come la produttività non sia l’aumento di unità di prodotti per ora lavorata, ma una misura dipendente da variabili macroeconomiche.

Quale produttività?

Intanto vi ricordo che in economia il termine “produttività” ha tante accezioni, e che la produttività della quale si parla nel dibattito corrente è precisamente la produttività media del lavoro, definita come valore aggiunto per addetto, cioè:
L’idea è quella di misurare quale sia il “rendimento” medio, in termini di produzione, dell’input di lavoro, con l’idea di per sé condivisibile che più è e meglio è.

Già qui, vi rendete conto, sorgono problemi di tutti i tipi. Esempio: quale misura utilizzare per l’input di lavoro? Dobbiamo utilizzare le posizioni lavorative (il numero di persone assunte)? Non sarebbe meglio utilizzare le unità di lavoro (i full time equivalent, cioè una misura dell’occupazione costruita in modo che due impiegati che fanno un part-time al 50% figurano come un unico occupato)? E non sarebbe ancora meglio utilizzare direttamente le ore lavorate, che poi in definitiva sono la misura più accurata dell’effettivo input?

Certo, naturalmente. Una caratteristica degli amatori è che sanno sempre cosa è “meglio”. Tutto giusto e tutto vero, solo che il meglio spesso è nemico del bene: il dato più “raffinato” spesso non è disponibile per periodi di tempo sufficientemente lunghi, non è direttamente confrontabile con quello di altri paesi (che magari non lo calcolano), e si basa su indagini campionarie più sofisticate, e quindi, ahimè, potenzialmente più fragili. E allora in quel che segue mi atterrò alla definizione della contabilità nazionale: (valore aggiunto)/(occupati totali). Del resto, questa è la definizione che ci interessa, per il motivo che passo a spiegarvi.
Perché ci interessa la produttività?

La produttività media del lavoro ci interessa perché da essa dipende il famoso “costo del lavoro”. Anche qui bisogna che ci capiamo. Cosa è il “costo del lavoro”? Nel dibattito giornalistico di solito si chiama “costo del lavoro” quello che gli economisti chiamano più correttamente “costo del lavoro per unità di prodotto” (CLUP, in inglese ULC: Unit Labour Cost). Come è costruito? Come rapporto fra i redditi unitari da lavoro dipendente (il costo del lavoro per addetto) e la produttività media (il prodotto per addetto): Se la produttività aumenta, il CLUP a parità di altre condizioni (cioè se il reddito medio da lavoro dipendente rimane fisso) diminuisce: lo stesso costo del lavoro per addetto si ripartisce su un numero più ampio di prodotti. Nelle condizioni di mercato oligopolistico (pochi produttori) oggi prevalenti, il prezzo del prodotto viene determinato come margine sui costi medi variabili (principio del costo pieno). Quindi, in linea di principio, quando la produttività aumenta e il CLUP diminuisce diminuiscono anche i prezzi (alla produzione): l’impresa diventa più competitiva.

Va da sé che questo ragionamento è semplicistico. Ad esempio, esso presuppone che la riduzione del costo del lavoro venga traslata interamente sui prezzi, ma questo potrebbe anche non accadere: semplicemente, il produttore potrebbe lasciare inalterato il prezzo, cioè aumentare il proprio margine di profitto. L’idea che mercati con tre o quattro (o anche dieci o venti) big player mondiali possano funzionare come funziona la concorrenza perfetta nei libri di scuola è un po’ rozza. I produttori possono mettersi d’accordo, e lo fanno (è sui giornali ogni giorno), per cui, come dire, il legame fra aumento della produttività e diminuzione del prezzo finale non è così meccanico. Diciamo però che a grandi linee il meccanismo funziona, e che quindi in effetti la dinamica della produttività si ripercuote nel lungo periodo su quella dei prezzi.

La dinamica

Quello che conta in effetti è la dinamica, come ho cercato di spiegare in questo post. Il problema non è tanto se la produttività è “alta” o “bassa”, quanto se aumenta o diminuisce, esattamente per lo stesso motivo per il quale, quando ragioniamo in termini di prezzi, il problema non è se il paese X ha prezzi bassi o alti, ma se essi calano o crescono rispetto ai prezzi del paese Y.

Ora, normalmente ci aspettiamo che la produttività media di un paese aumenti, e questo per diversi motivi. Il primo è il progresso tecnico: gli stessi occupati con macchine migliori producono di più. Il secondo è il capitale umano: gli stessi occupati con le stesse macchine producono di più quando diventano più esperti o se hanno ricevuto un’istruzione migliore. Il terzo è il cambiamento strutturale. Supponiamo che nell’anno t vada in pensione un agricoltore e venga assunto un informatico: gli occupati sono gli stessi, ma il valore aggiunto è aumentato (un software costa più di una patata), quindi la produttività del paese è aumentata. Vedete che il quadro è lievemente più complesso di quello che potrebbe avere in mente un ingegnere (with all due respect: io apprezzo molto gli ingegneri, soprattutto quando scrivono romanzi).

Poi ci sono i trucchi. Se la produttività è misurata rispetto agli occupati anziché rispetto alle ore, o se le ore di straordinario sono riportate infedelmente (ad esempio perché il precario le fa senza registrarle, in modo del tutto “spintaneo”, perché gli si fa capire che così verrà strutturato), allora per “aumentare” la produttività basta far lavorare più ore (possibilmente con lo stesso stipendio) gli stessi operai: il prodotto aumenta, gli occupati sono (apparentemente) gli stessi, e così si risolvono i problemi.
Va da sé che quest’ultima soluzione è di breve periodo. Il motivo è molto semplice. Mentre il genio umano è illimitato, e ne ha dato prova nel bene e nel male, la rotazione della Terra sul proprio asse (o, per quelli che dicono che svalutare è immorale, la rotazione del Sole intorno alla Terra) avviene sempre in circa 24 ore. Al massimo quindi puoi portare l’orario di lavoro a 168 ore a settimana, poi ti devi fermare. Non è così che siamo passati dal produrre amigdale  al produrre F14 (tanto per ricordare a cosa serve produrre, e soprattutto come si fa a vendere quello che si è prodotto).
La débâcle

La Fig. 1 riporta l’indice della produttività media del lavoro in Italia e Germania dal 1970 a oggi, costruito con base 1970=100.

Si tratta del Labour productivity index del sito OCSE (base 2005=100), ribassato sul 1970 per comodità espositiva. Vorrei chiarire come si interpretano gli indici. Quello che conta, in un indice, è la dinamica, non il valore. Quando pongo uguale a 100 la produttività media di Germania e Italia nel 1970, non sto dicendo che in quell’anno un operaio tedesco e un operaio italiano producevano entrambi 100 chiodi. Quanti chiodi, o quanto valore aggiunto, producessero si può ricavare dalle statistiche, ma non interessa più di tanto. Quello che interessa, e che l’indice ci dice, è come si è sviluppata la produttività nel tempo. Verosimilmente il tedesco già nel 1970 produceva qualche chiodo in più dell’italiano, ma magari i chiodi italiani costavano di meno ecc. Di questo parliamo un’altra volta. Quello che la figura ci dice è che la produttività tedesca è raddoppiata (da 100 a 200) in 23 anni (dal 1970 al 1993), quella italiana in poco di più (dal 1970 al 1997), dopo di che quella tedesca ha continuato a crescere, e quella italiana si è sostanzialmente appiattita.

I dettagli

Come sempre, sono i dettagli a deliziare l’intenditore. Dal 1970 ad oggi Italia e Germania si sono rincorse. La rincorsa italiana è stata più o meno efficace. Andiamo a vedere nel dettaglio (mettete gli occhiali). Si parte nel 1970.

L’Italia passa in testa (Fig. 2). La recessione del 1975 è pesantissima e la riporta sotto il livello tedesco, ma l’Italia riparte e passa nuovamente in testa nel 1979. Ma a partire da quell’anno il suo slancio si attenua, la produttività si appiattisce una prima volta, fino al 1983, anno in cui la Germania sorpassa nuovamente l’Italia (Fig. 3).

Dal 1984 la corsa della produttività italiana riprende e nel 1989 siamo di nuovo al sorpasso, ma… che succede? L’Italia perde colpi: la produttività si appiattisce di nuovo, per circa 3 anni, e poi dal 1993 la corsa riprende, ma ormai il distacco è visibile. Fra 1995 e 1996 la produttività diminuisce (non succedeva dal 1982), poi si rialza, ma entra in un’altalena di aumenti e diminuzioni, registrando fra 1996 e 2010 una crescita media annua dello 0% (per i precisini, 0.2%). Nello stesso periodo la crescita media della produttività tedesca è stata dell’1.3%.

Cronologia

Per chi non lo sapesse: il Sistema Monetario Europeo (SME) era un accordo di cambio fra paesi europei in virtù del quale questi si impegnavano a mantenere il proprio tasso di cambio fisso rispetto a una valuta di riferimento, l’ECU (European Currency Unit). Il valore dell’ECU era calcolato come media dei valori delle valute dei partecipanti (ponderata con i rispettivi pesi economici). L’impegno era quello di evitare che le valute si scostassero di ±2.5% dalla parità centrale in termini di ECU. Questo significa che se una valuta veniva spinta al limite superiore della banda e un’altra al limite inferiore, di fatto la prima aveva rivalutato del 5% (e la seconda svalutato del 5%). L’Italia aveva negoziato una speciale “banda larga” di ±6%.

13 marzo 1979: l’Italia entra nel SME.
14 giugno 1982: riallineamento dello Sme: la Germania rivaluta del 4.25%, la lira svaluta del 2.75% (totale: 7%).
21 marzo 1983: riallineamento dello Sme: la Germania rivaluta del 5.5%, la lira svaluta del 2.5%, come il franco francese (totale: 8%).
5 gennaio 1990: la lira adotta la banda di oscillazione ristretta del ±2.5%.
17 settembre 1992: la lira abbandona lo SME e comincia a fluttuare liberamente, perdendo circa il 20% in un anno.
24 novembre 1996: l’Italia rientra nello SME.

E il resto lo sapete, o dovreste saperlo. Per inciso, avete letto bene: la Germania, nello SME, poteva rivalutare. Nell’euro no. Capito?

Coincidenze

E ora, però, parliamone. Perché vedete, la cosa divertente nel “dibattito” sulla produttività, è che chi ne sostiene le virtù la propone per lo più come un dato ingegneristico (migliori macchine, migliore organizzazione), sociologico, o addirittura biologico (cioè, diciamolo pure, razziale), ma comunque indipendente dal quadro macroeconomico. Chiaro: il problema dell’ingegnere è quello di costruire macchine più efficienti, che producano di più. A lui questo sembra bene, ed è giusto che sia così: ci mancherebbe altro che le macchine producessero di meno (magari inquinando di più)! Ma l’imprenditore, caro ingegnere, caro sociologo e caro razzista, ha anche un altro problema, che è quello di vendere ciò che produce. Se per qualche motivo i suoi prodotti non hanno mercato, lo stimolo a produrre di più in qualche modo viene a cadere. Dice: be’, però tu puoi fare innovazione, ricerca, sviluppo (mantra su mantra) e così ridiventi competitivo. Certo: ma i soldi per fare tutte queste belle cose chi te li dà? Come compri una macchina migliore o un progetto migliore se sei soffocato da un quadro macroeconomico che ti chiude i mercati di sbocco? Ci state arrivando?

Quello che la cronologia ci dice è una cosa molto semplice: tutte le volte che l’Italia ha, in qualche modo, irrigidito la propria politica valutaria, e quindi compromesso le proprie esportazioni, prima entrando nello SME, poi entrando nella banda di oscillazione ristretta, poi rientrando nello SME, poi entrando nell’euro, la sua produttività si è appiattita. E l’appiattimento è stato irreversibile quando la decisione di “irrigidirsi” lo è stata, ovvero con l’euro.
Odio ideologico

E qui, naturalmente, apriti cielo! “Franti, tu uccidi tua madre!” O, come mi dice l’amico (spero) Nuti: “non capisco il tuo odio ideologico verso l’euro”. Eppure posso spiegarlo in modo molto semplice. Non è odio, è fastidio. Lo stesso fastidio che Gadda provava per la catenella del cesso che si strappa quando la tiri (Alex, aiutami tu a ritrovare la citazione). Il fastidio per le cose mal congegnate e mal eseguite, che procurano inutile disagio.

La produttività non è esogena

Osserviamo la Fig. 4, che rappresenta il tasso di crescita di produttività (in blu) e esportazioni (in rosso) in Italia dal 1971 al 2009. La spezzata blu è il tasso di crescita della spezzata verde in Fig.1 (la produttività media del lavoro in Italia).

Si percepisce, credo, che entrambe le serie tendono a decrescere nel tempo: per la produttività lo abbiamo già visto, la sua crescita si arresta più o meno dal 1996, e da allora in effetti il suo tasso di crescita (spezzata blu in Fig. 4) oscilla attorno allo zero (asse orizzontale). Le due serie in effetti decrescono insieme: la loro correlazione, per chi non si accontenta del colpo d’occhio, è 0.67, positiva e significativa. Dice: ma le serie scendono, perché la loro correlazione è positiva? Perché la correlazione è un numero compreso fra -1 e +1 che esprime come si muovono due variabili: è positiva se salgono insieme, positiva se scendono insieme, negativa se una sale e una scende, e nulla se ognuna fa come gli pare. In questo caso è positiva perché sia la crescita della produttività che quella delle esportazioni col tempo diminuiscono (Per i sofisticati: l’outlier delle esportazioni, -20% nel 2009, non influenza la correlazione. Se lo eliminiamo la correlazione passa da 0.67 a 0.65).
Bene, direte voi, o forse lo dirà un altro: il quadro è chiaro. Noi italiani, feccia dell’umanità, siamo diventati meno produttivi, quindi il nostro CLUP è cresciuto, quindi i nostri prezzi sono aumentati, quindi siamo diventati meno competitivi, quindi le esportazioni sono diminuite. Che orgia di “quindi”!  Un economista direbbe che la causazione è unidirezionale: dalla produttività alle esportazioni. Che poi, se volete, ha anche la sua logica: una logica neoclassica: dato che per esportare prima devi produrre, è chiaro (?) che più produci più esporti.
Ma è proprio così chiaro?
È nato prima l’uovo o la gallina? (paragrafo tecnico)

La Fig. 4 ci dice che produttività e esportazioni vanno insieme, ma la storia dell’economia è fatta di centinaia di cose che vanno insieme. Quando insegnavo Econometria alla Sapienza mi divertivo molto a illustrare agli studenti una fantastica equazione che spiegava benissimo i consumi delle famiglie italiane. Poi cominciavo a usarla per fare delle previsioni, e veniva fuori una catastrofe. Tutto quello che avevo spiegato fino a quel giorno non funzionava: le variabili, dentro il campione, erano correlate perfettamente, ma fuori succedeva di tutto. Dov’era l’errore? Semplice: stavo spiegando i consumi italiani con i redditi della Nuova Zelanda. La correlazione dentro il campione c’era: qualsiasi variabile che cresce è correlata con qualsiasi altra variabile che cresce. Ma fuori dal campione qualche problema c’era… Chi l’ha studiata così la cointegrazione rischia anche di averla capita.

Cosa voglio dire? Semplice. La Fig. 4 mostra una correlazione, cioè il fatto che due variabili si muovono insieme. Da qui a stabilire una causazione (cioè il fatto che l’una causi l’altra, e in particolare che sia la produttività a causare le esportazioni) ce ne passa.

Intanto, stabiliamo un principio: non sempre quello che viene prima causa quello che viene dopo: è il famoso sofisma post hoc ergo propter hoc, dal quale sappiamo che occorre diffidare. Tuttavia è abbastanza difficile (e qui ovviamente aspettiamo Schneider) che quello che viene dopo abbia causato quello che viene prima. Questo principio è stato messo in pratica da un premio Nobel recentemente scomparso, Clive Granger, per elaborare un test di non causalità.

Non causalità?

Sì, perché l’idea non è dimostrare che A abbia causato B (compito impegnativo), ma solo quella di escludere che A preceda B, sia un suo antecedente. Se A non precede B, non può averlo causato, e questa è l’ipotesi che il test vuole accertare. Poco, ma meglio di niente.

Lo so, già avete il mal di testa. E il peggio deve venire. Ma volete continuare a sentirvi dire che la colpa è vostra perché non lavorate abbastanza? E allora lavorate!

Intanto, la cosa interessante è che nel periodo dal 1970 al 1995, prima della débâcle, le variazioni delle esportazioni precedono quelle della produttività, e non viceversa  (e lo si vede anche dalla Fig. 4). Insomma, in quel periodo sembra di poter escludere che la produttività causi le esportazioni. Per i non tecnici, guardate ad esempio cosa succede fra 1979 e 1983: il punto di minimo della crescita delle esportazioni (-8% nel 1980) anticipa di due anni il minimo della crescita della produttività (-0.4% nel 1982).

Per i tecnici, questo è il correlogramma incrociato:
dal quale si vede che la produttività è (debolmente) correlata con i valori passati delle esportazioni, ma per niente correlata con quelli futuri, e questo è il test di non causalità di Granger:
dal quale si vede che l’ipotesi che la produttività non causi le esportazioni è accettata, mentre quella che le esportazioni non causino la produttività è respinta (al 10%). Nulla di granitico, ma un indizio questi risultati lo danno. Questo tipo di correlazione evapora se estendiamo l’analisi a tutto il campione. Il fatto è che i dati annuali sono pochi per un’indagine statistica di questo tipo. Se però passiamo ai dati trimestrali, il quadro si fa più chiaro (per i tecnici):
Adesso l’ipotesi che le esportazioni non causino la produttività viene respinta recisamente, mentre quella che la produttività non causi le esportazioni viene accettata. In parole povere, i dati ci dicono che sono le esportazioni a causare la produttività, non il contrario.

Non è poi così strano, se torniamo all’inizio del discorso. In fondo la Fig. 1 che storia ci raccontava? Una storia molto semplice: ogni volta che l’Italia ingessava la propria valuta, penalizzando le proprie esportazioni, la produttività cominciava a declinare. Quando i cambi si riallineavano si ripartiva. Che poi è proprio quello che ci dice questa analisi: cambio ingessato, meno esportazioni, meno produttività, e viceversa.

Perché?

Ma è così strano? No. Non è strano per niente. Anzi, è esattamente quello che viene previsto dal modello di crescita post-keynesiano di Kaldor-Thirlwall, un modello che ha ricevuto un discreto supporto empirico (diverse centinaia di verifiche pubblicate nella letteratura scientifica internazionale), e del quale perfino Pierre-Richard Agénor (dottore alla Sorbona, carriera in Banca Mondiale fino alla posizione di lead economist, poi a Yale, ora a Manchester, economista non sospettabile di eterodossia) ha dovuto ammettere la fondatezza.

Gli omodossi (anche detti prekeynesiani) tendono a vedere la crescita economica in un’ottica ingegneristica: ci sono le macchine e i lavoratori, più macchine compri e più lavoratori assumi, più produci. La crescita economica, loro, la spiegano esclusivamente dal lato della produzione, ovvero, come dicono gli economisti, dell’offerta. Loro, gli omodossi, non si preoccupano di sapere chi comprerà quello che viene prodotto, perché partono dal presupposto (detto legge di Say) che l’offerta crei la propria domanda. Un presupposto già dubbio in teoria, e abbastanza screditato in pratica. Se l’offerta crea la propria domanda, perché la Thyssen-Krupp ha dovuto pagare 150 milioni di euro di mazzette per farsi comprare i propri sommergibili dalla Grecia? Il sommergibile basta produrlo, poi lo porti al mercato (in un cestino) e qualcuno lo comprerà, perché siccome per produrlo hai distribuito redditi, e chiunque ha soldi in tasca li spende subito (altra intuizione di quel geniaccio di un Fisher), ecco che tornerai a casa col cestino vuoto e le tasche piene.
O no?
No.
L’esperienza mostra che la domanda può effettivamente porre un vincolo alla crescita economica e la storia economica fornisce decine di conferme: le grandi potenze economiche nella fase del proprio decollo hanno regolarmente praticato politiche mercantilistiche, fondate sull’essere liberiste a casa altrui e protezioniste a casa propria, semplicemente perché per promuovere la crescita del proprio prodotto e quindi della propria produttività era indispensabile dotarsi di mercati di sbocco di taglia adeguata.

Questa intuizione è formalizzata nel modello kaldoriano di crescita, che ha due componenti essenziali: la prima è la cosiddetta “legge di Thirlwall”, che stabilisce che la crescita di un’economia è direttamente proporzionale a quella delle sue esportazioni (da Anthony Thirlwall, 1979,

“The balance of payments constraint as an explanation of international growth rate differences”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review).

La seconda è la “legge di Verdoorn”, che stabilisce che la crescita della produttività è proporzionale alla crescita dell’economia (da Petrus Verdoorn, 1949, “Fattori che regolano lo sviluppo della produttività del lavoro”, L’Industria, n. 1). Queste due leggi interagiscono in un meccanismo di causazione circolare e cumulativa di questo tipo: se un paese riesce (ad esempio adottando un tasso di cambio sostenibile) a promuovere le proprie esportazioni, il suo prodotto cresce, il che determina un incremento della produttività, il che determina una riduzione del CLUP, il che determina un aumento della competitività, il che determina un ulteriore aumento delle esportazioni, e si ricomincia (il modello è esposto in dettaglio da Anthony Thirlwall, 2002, The Nature of Economic Growth, Cheltenham: Edward Elgar).

Insomma: il presupposto del “decollo” di un sistema economico è che si riesca ad allentare il vincolo della domanda. Politiche di “vincolo esterno” basate su un cambio sopravvalutato ovviamente vanno nella direzione opposta, e del resto l’imposizione (o la “calda raccomandazione”) di adottare un cambio sopravvalutato alle economie “periferiche” è sempre il primo imprescindibile passo della strategia di conquista messa in pratica dalle potenze mercantiliste (come ampiamente descritto da Roberto Frenkel e Martin Rapetti, 2009, “A developing country view of the current global crisis”, Cambridge Journal of Economics).

Sintesi

Non sto dicendo che viale Parioli debba svalutare rispetto a via dei Monti Parioli: sto solo dicendo che il dimensionamento di un’area valutaria deve essere fondato su criteri razionali, e il primo di questi criteri, da Mundell in giù, è l’omogeneità del mercato del lavoro, che è quello dal quale dipende il tasso di inflazione, e quindi la sostenibilità di tutta la baracca.

Non sto dicendo che gli italiani sono una razza eletta e che in quanto tali non debbano alterare i propri comportamenti e le proprie istituzioni: sto solo dicendo che non sono delle merde come la “loro” attuale leadership vorrebbe far credere loro: se qualche italiano non è d’accordo, lo esorto ad applicare a se stesso le ovvie conseguenze del suo pensiero (sperando che la catenella tenga allo strappo).
Non sto dicendo che i tedeschi sono la feccia dell’umanità e che in quanto tali meritano di essere consegnati alla pattumiera della Storia: sto solo dicendo che il modello non cooperativo praticato dalla loro leadership sta chiaramente mostrando la corda, e che il futuro dell’Europa è nella valorizzazione della sua ricchezza e quindi diversità culturale, non nell’appiattimento di tutti su un modello fallimentare a medio (e forse ormai a breve) termine.
Non sto dicendo che la rivalutazione della Germania risolverebbe tutti i problemi. Certo, essere entrati in un sistema che, a differenza dello SME, la esclude, ha creato degli ovvi problemi accessori, che si sarebbero potuti evitare. Ma è altrettanto certo che in Italia ci sono molte cose da migliorare. Solo che è suicida farlo in un contesto nel quale istituzioni macroeconomiche palesemente fallimentari ci tolgono risorse e prospettive.
Sto dicendo che ragionare esclusivamente in termini di offerta (l’importante è produrre!) è, come dire, lievemente amatoriale. La domanda conta, conta nel breve, e conta anche nel lungo, come sanno tutte le potenze che hanno costruito il proprio futuro aggredendo i propri mercati di sbocco. La produttività dipende certo dai mille e mille fattori di cui si è parlato anche in questo blog, dipende dalla sociologia, dal clima, dalla religione, da quello che vi pare, ma dipende anche e soprattutto dal quadro macroeconomico, come l’esperienza italiana riassunta in questo post dimostra. Non capirlo significa pretendere di andare da Roma a Fiumicino nuotando controcorrente, semplicemente perché nuotare controcorrente è più faticoso, quindi più virtuoso. Peccato che Fiumicino sia a valle di Roma. E comunque alla fine a Fiumicino ci arrivi perché tanto il fiume ti ci porta: ma preferisci arrivarci prima vivo, o dopo morto?
Di questo moralismo da poveracci (si può dire?) forse dovremmo veramente liberarci. Ma dopo svariati decenni di disinformazione mi rendo conto che il compito è superiore alle forze di ognuno di noi.

http://goofynomics.blogspot.it/2012/03/cosa-sapete-della-produttivita.html

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