Alessandro Dal Lago, Scuola. L’inizio e la fine

by gabriella

Quarantacinque anni fa l’università si rivoltò contro un’istruzione ingessata e autoritaria che riservava la «formazione superiore» solo a una quota minoritaria e privilegiata della popolazione. Al di là delle ricostruzioni di comodo e delle incessanti abiure, questo è stato il significato profondo del ’68, almeno per quanto riguarda la scuola. Da Don Milani a Ivan Illich, dalla pedagogia antiautoritaria alla sociologia critica, una pluralità di correnti intellettuali ha contribuito, tra gli anni ’60 e ’70, a un profondo cambiamento degli indirizzi culturali sull’istruzione.

Nel bene e nel male, la società italiana (al pari di gran parte di quelle europee) è figlia di questa rivoluzione. Che cosa resta oggi di tutto ciò? Ben poco, anzi quasi nulla. I dati Ocse riportati ieri da Roberto Ciccarelli su questo giornale fotografano l’esito di un’involuzione iniziata nella seconda metà degli anni Novanta, con la riforma della scuola (autonomia, ecc.) e dell’università («3+2»). Quella che allora era sbandierata (dal governo di centro-sinistra) come una razionalizzazione dell’offerta formativa era in realtà una via di mezzo tra un’illusione e un’utopia conservatrice.

Dapprima un’inflazione di corsi di laurea e di cattedre che favoriva soprattutto il ceto accademico. E poi, con il governo Berlusconi e il ministero Gelmini, un drastico ridimensionamento dell’offerta, con la contrazione delle iscrizioni e la
diffusione dei numeri chiusi. Con il risultato che oggi la formazione universitaria è al tempo stesso una chimera per chi non riesce a infilarsi in un corso a numero programmato e uno spreco di tempo e di risorse per chi conclude gli studi ma non può accedere alle professioni. Infatti, la crisi ha determinato una contrazione degli sbocchi anche per la lauree più specializzate e prestigiose. Ho in mente il caso di un laureato in fisica negli Stati Uniti che in Italia non ha trovato di meglio che un lavoro precario in un call center

Al tempo stesso, la riforma del governo degli atenei (insieme a quella dei concorsi) promossa da Gelmini ha consegnato l’università in mano ai soli professori ordinari (unici commissari alle idoneità) e ai gruppi che controllano
le Scuole e i Consigli di amministrazione. L’università italiana, oggi, non è solo più chiusa di quanto non fosse all’inizio degli anni Settanta, ma è anche infinitamente più autoritaria. L’aspetto straordinario della vicenda è l’acquiescenza con cui gran parte del ceto accademico ha subito questa involuzione (con la parziale eccezione della lotta dei ricercatori). Oggi, ricercatori e associati non solo sono soggetti ai bislacchi criteri Anvur per accedere all’idoneità alle fasce superiori, ma anche al ricatto di una chiamata aleatoria da parte delle sedi, in mancanza della quale l’idoneità potrà decadere.
Questo significa che la carriera dipenderà sempre più dall’adesione, fin nei minimi dettagli della vita accademica, alla volontà gestionale degli organismi di governo. Come tutto questo abbia a che fare con la libertà di pensiero e di ricerca è misterioso.

L’università in Italia, dunque, è sempre più selettiva e progressivamente priva di democrazia interna. Ma è anche sostanzialmente inutile ai fini della mobilità individuale. E qui si sconta, proprio in una fase di recessione economica e sociale, quanto sia stata strategicamente letale l’ideologia della professionalizzazione alla base della famosa riforma Berlinguer o del «3+2». Il principio che l’accesso alla formazione superiore è un diritto che ogni società sviluppata deve riconoscere ai suoi membri più giovani, compatibilmente con i loro interessi e capacità, è stato abbandonato a favore della mera utilità economica. Con il risultato che, data la crisi attuale, l’università non funziona né come strumento di diffusione delle conoscenze e promozione culturale, né come mezzo di promozione sociale. E qui si misura fino in fondo come il «razionalismo» del centro-sinistra abbia fatto da battistrada alla «reazione» del governo Berlusconi.

Il governo dei tecnici ha dato in sostanza una patina di fatalità finanziaria a questo processo di lungo periodo. Nello stesso momento in cui Monti dichiara – con l’approvazione quasi unanime – che una fase di recessione (e cioè di ulteriore sofferenza sociale) è indispensabile alla “crescita”, cioè a una rinascita economica più o meno immaginaria e comunque rinviata a un futuro incerto, non fa che sancire la fine definitiva della formazione come diritto. In nome dell’utilità, o del contenimento del debito, scuola e università verranno ulteriormente mortificate. Con la benedizione delle forze che si apprestano a governare dopo Monti. Ma quello all’istruzione è solo uno dei diritti di cui, in questi anni, si stanno perdendo le tracce.

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