Archive for ‘Antropologia’

10 Aprile, 2017

Marco Belpoliti, Perché non ricordo gli ebook?

by gabriella

Un bell’articolo di Belpoliti su memoria, percezione e digitalizzazione uscito su Doppiozero.

Incontro Giovanna in una libreria. Sta cercando tra le novità i libri da leggere questa estate. È incerta se comprare un libro di carta, oppure la sua versione ebook. Quello tradizionale pesa di più e costa anche di più, tuttavia, mi confessa, i libri che legge sul tablet non se li ricorda per nulla.

“Strano – dice – è come se leggessi qualcosa di cui non conservo memoria.”

E non è questione dei saggi, che legge di meno sul tablet, ma proprio dei romanzi o racconti.

“Com’è possibile?”, mi domanda.

La medesima osservazione me l’ha fatta un mese fa un amico. Anche lui ha constatato che i testi letti in versione elettronica sono meno ricordabili:

“Che sia un mio difetto?”, mi ha domandato. Da allora mi sto interrogando su questo strano effetto di oblio, o scarsa memorizzazione. Da tempo mi sono accorto che le email, ma anche i documenti, che ricevo via posta elettronica, li ricordo meglio se li stampo. Visti su un foglio A4, le parole, le frasi, i concetti, li trattengo meglio. Ma non posso stampare tutto, sia per una ragione pratica, sia per un problema etico: si consuma troppa carta. Tuttavia il tarlo mi è rimasto.

Parlando con Giovanna mi viene in mente una cosa: il tablet è un supporto a due dimensioni.

“Anche il libro”, dice Giovanna. “Sì, è vero, ma tu con il libro hai un orientamento spaziale”. “Come?”. “Destra e sinistra”, rispondo.

Detto altrimenti, il libro si trova in uno spazio a tre dimensioni; possiede un orientamento che è quello determinato dalla nostra simmetria bilaterale: davanti/dietro; destra/sinistra. Pur essendo bidimensionale il foglio partecipa della terza dimensione che è data dalla nostra stessa presenza nello spazio. Ricordiamo meglio perché le parole sono collocate su un supporto che è tridimensionale: il libro possiede tre dimensioni.

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23 Marzo, 2017

Steve McCurry Tribute

by gabriella

L’antropologia spiegata dall’obiettivo di un grande fotografo.

Le tragedie del presente, dalla Guerra del Golfo ai disastri ambientali.

21 Marzo, 2017

Newroz

by gabriella

Newroz Piroz Be. Buon capodanno Kurdistan.

Leggenda vuole che il tiranno Zohak, oppressore dei curdi, pretendesse di cibarsi di due sudditi al giorno fino alla rivolta vittoriosa dei «sopravvissuti della montagna».

Sotto gli F16 turchi che nelle campagne continuano le operazioni contro il PKK, il movimento per l’autonomia del sud-est a maggioranza curda del paese, era scontato che il mito divenisse grido di battaglia contro Erdogan.

«Lo sconfiggeremo come sconfiggemmo il re cannibale Zohak»,

ha tuonato Osman Baydemir, un politico del partito filo-curdo HDP, davanti alla folla.

«Il nostro Presidente Demirtas è in prigione, i nostri sindaci sono in prigione, cercano di dividerci dai fratelli curdi negli altri stati, ci torturano ma noi ci riprenderemo la libertà!».

Il 21 Marzo, è il Capodanno (”Newroz“, “Nauruz” a seconda delle trascrizioni) Kurdo e di vari paesi dell’Asia centrale e del Medio Oriente. Si celebra accendendo fuochi rituali, nei giorni intorno al 21 Marzo, in continuità con i riti della religione zoroastriana che considera il fuoco come simbolo di giustizia e della lotta contro le forze del male.

Nella parte più orientale della Turchia, l’Anatolia del Sud-Est, questa festa ha assunto negli ultimi decenni anche un significato politico, legato alle richieste di democrazia, autonomia e giustizia della minoranza curda (circa quindici milioni di persone) del Kurdistan turco, verso le quali il governo turco si mostra insensibile negando alla popolazione persino il diritto di esprimersi nella propria lingua.

5 Settembre, 2016

Aid al Adha, la festa del sacrificio

by gabriella

Aid al-Adha, in arabo si scrive ‘عيد الأضحىا ‘ e si traduce con ‘Festa del Sacrificio’; è la festa che i musulmani celebrano ogni anno nel mese lunare di Dhu l-Hijja, il dodicesimo e ultimo mese lunare del calendario islamico.

In questo mese qui i musulmani compiono il loro celebre pellegrinaggio, chiamato ḥajj e che rappresenta il quinto pilastro dell’Islam (i cinque obblighi previsti dalla religione che includono la testimonianza di fede, la preghiera 5 volte al giorno, l’elemosina e il digiuno durante il ramadan), al ‘Masjid al-Ḥarām’ cioè la Grande Moschea della Mecca che è la più grande del mondo [Fanpage] [Attenzione: l’articolo incorpora un video Fanpage che si avvia automaticamente, disattivare l’audio alla scheda dal proprio browser o escluderlo manualmente nel video].

Secondo quanto tramandato dalla religione, Dio chiese ad Abramo di sacrificare il figlio Ismaele in suo onore. L’uomo accettò e mentre si accingeva a uccidere il figlio, un angelo lo fermò: questa fu la prova della totale fede di Abramo nei confronti di Dio e da quel giorno si festeggia appunto la ‘Festa del Sacrificio‘. Il rituale implica la recita del Takbīr (l’espressione che si traduce in ‘Dio è il più grande’) da parte di un uomo e il successivo sgozzamento di animali vivi, adulti e sani (che possono essere montoni, capre, pecore), secondo le linee guida previste dalla macellazione rituale ‘halāl’ (valida anche per gli ebrei) che, a differenza di quelle comunemente impiegate, non permettono lo stordimento (che non uccide l’animale, ma gli permette di non sentire dolore e non essere cosciente). Una volta morto dissanguato (come avviene anche per la macellazione non rituale) l’animale viene macellato e la carne viene divisa in tre parti: per la famiglia, per gli amici e per i poveri.

La Festa del Sacrificio non è solo pellegrinaggio e sgozzamenti, ma anche un periodo di preghiera intenso per i fedeli e un’occasione per scambiarsi doni e riunirsi in famiglia: un po’ come accade per i cristiani con la Pasqua quando, tra l’altro, per celebrare la resurrezione di Cristo, vengono uccisi gli agnelli. L’agnello pasquale, o sacrificale, rappresenta infatti Gesù che si è sacrificato per la salvezza degli esseri umani.

In queste ore nel nostro Paese i musulmani si preparano per questi cinque giorni di preghiera e per celebrare l’importante festività religiosa: le pratiche di sgozzamento senza stordimento in luoghi pubblici non coinvolgeranno il nostro Paese, in cui sono vietate per legge, se non in specifiche strutture, i macelli appunto, debitamente certificati e gestiti da personale qualificato e formato.

Non si sprecano però le condanne delle persone che si schierano contro il rituale del sacrificio che, pur non avendo fatto una scelta di vita ‘vegetariana’ o ‘vegana’, si sentono comunque in dovere di dimostrare il loro dissenso, magari mentre stanno infornando un arrosto, preparando il ragù o mangiando una bistecca al sangue: insomma, tutti animalisti con la religione degli altri.

continua su: http://www.fanpage.it/cos-e-eid-al-adha-la-festa-musulmana-del-sacrificio-degli-animali-in-onore-di-dio/
http://www.fanpage.it/

 

19 Luglio, 2016

Vittorio Girotto, Così è nato il timor di Dio

by gabriella
Vittorio Girotto (1956 - 2016)

Vittorio Girotto (1956 – 2016)

L’analisi antropologica di Vittorio Girotto sull’origine dei culti. L’articolo è uscito su Il Sole 24 Ore.

Chi non sa cos’è il «timor di Dio»? Dio, chiunque esso sia, vede tutto, giudica tutto e punisce ogni male. La grande maggioranza delle religioni professate ai nostri giorni si basa proprio su quest’idea.

Eppure non è sempre stato così. Per molto tempo i nostri progenitori hanno creduto in divinità che non si occupavano direttamente delle vicende umane né, tanto meno, le giudicavano e sanzionavano.

La distruzione di Pompei, Ercolano e Stabia del 24 agosto 79

La distruzione di Pompei, Ercolano e Stabia del 24 agosto 79

Secondo la testimonianza di Plinio il giovane, ad esempio, al momento dell’eruzione del Vesuvio i pompeiani credevano che gli Dei avessero lasciato il mondo, abbandonandoli al loro tragico destino.

È solo in tempi relativamente recenti che si sono sviluppate le credenze in quelli che lo psicologo canadese Ara Narenzayan definisce «Grandi Dei» (Grandi dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo, Cortina, 2014), cioè divinità che sorvegliano la nostra vita quotidiana e la regolano con promesse e minacce che si concretizzeranno nella vita ultraterrena.

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7 Luglio, 2016

Il Papalagi 

by gabriella

Discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa secondo Eric Scheuermann (presunto traduttore tedesco, 1920). Qui il testo integrale.

 Il Papalagi è continuamente preoccupato di coprire ben bene la sua carne. […] Il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di panni, stuoie e pelli, in maniera così fitta e spessa che non un occhio umano vi può giungere, non un raggio di sole, così che il suo corpo diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel profondo della foresta vergine.

[…] I piedi infine vengono avvolti in una pelle morbida e in una molto rigida. Quella morbida è per lo più elastica e si adatta facilmente al piede, al contrario di quella rigida. Anche questa è fatta con la pelle di un robustissimo animale, la quale viene lasciata a bagno nell’acqua, poi raschiata con un coltello, battuta e stesa al suolo fino a che si è completamente indurita. Con questa il Papalagi si costruisce poi una sorta di canoa dal bordo molto alto, grande giusto quanto basta per farvi entrare il piede. Queste barche da piedi vengono poi legate e allacciate con cordoni e ganci intorno alla caviglia, così che il piede resta chiuso in un rigido guscio, come il corpo di una lumaca di mare. Queste pelli da piedi il Papalagi se le porta addosso dal levar del sole fino al tramonto, con esse fa i suoi viaggi, danza e le porta anche quando fa caldo come dopo la pioggia tropicale. Poiché tutto ciò è assai innaturale, come il bianco del resto ben comprende, e rende i piedi come morti, tanto che cominciano a puzzare, e poiché in effetti la maggiore parte dei piedi europei non sanno più afferrare una cosa o arrampicarsi su una palma, per tali ragioni il Papalagi cerca di nascondere la sua follia ricoprendo la pelle di questo animale, che al naturale sarebbe rossastra, con molto sudiciume, che poi rende lucido a furia di strofinare, così che gli occhi non possono sopportarne il luccichio e si volgono altrove. […]

Il Papalagi vive in un guscio solido come una conchiglia marina. Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt’intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi. Una cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata. C’è un solo punto in cui si può entrare e uscire da questa cassa di pietra. Questa apertura il Papalagi la chiama ingresso quando entra nella capanna, uscita quando ne esce fuori, sebbene entrambe siano una sola e unica cosa. In questa apertura c’è una grande ala di legno che bisogna spingere con forza per poter entrare nella capanna. Ma anche così si è soltanto al principio e bisogna spingere ancora parecchie ali prima di essere veramente nella capanna. […] Se la famiglia sta in alto, proprio sotto il tetto della capanna, allora bisogna salire molti rami a zigzag o in tondo, fino a che si arriva al punto dove il nome della famiglia sta scritto sul muro. Lì ci si trova davanti un grazioso capezzolo femminile finto sul quale si preme fino a che risuona un grido che chiama la famiglia. La famiglia guarda attraverso un piccolo buco rotondo munito di piccoli ferri, per vedere se si tratta di un nemico. In tal caso non apre. Se invece riconosce l’amico, allora subito slega una grossa ala di legno, accuratamente serrata, e la tira verso di sé, in modo che l’ospite attraverso il passaggio possa entrare nella capanna vera e propria. Questa è a sua volta divisa da molte ripide pareti di pietra, e si passa di ala in ala, da un cassone a un altro cassone sempre più piccolo. Ogni cassone, che il Papalagi chiama stanza, ha un buco (quando è grande anche due o tre) attraverso il quale entra la luce. Questi buchi sono chiusi con un vetro, che si può togliere quando si vuole far entrare aria fresca nei cassoni, cosa quanto mai necessaria. Ci sono però anche molti cassoni senza buchi per l’aria e per la luce. Un samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d’aria fresca come in qualsiasi capanna delle Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d’uscita. Spesso però anche l’aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia dell’aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per potersi levare in volo e andarsene dove c’è aria e sole. […]

Fra questi cassoni il Papalagi trascorre dunque la sua vita. Sta ora in questo, ora in quel cassone, secondo l’ora e il momento. […] In questa maniera vivono in Europa tante creature quante sono le palme che crescono a Samoa, anzi, molte di più.

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11 Marzo, 2016

Yann Arthus Bertrand, Human

by gabriella

Tutto è cominciato da un’avaria all’elicottero, un giorno, nel Mali. Mentre aspettavamo il pilota, ho discusso con un uomo del villaggio durante l’intera giornata. Parlò del suo quotidiano, delle sue speranze e dei suoi timori: la sua sola ambizione era nutrire la sua famiglia, i suoi figli. Per me fu un tuffo nei bisogni più elementari. Mi guardava diritto negli occhi, senza lamentarsi, senza domande, senza risentimento. Ero partito per fotografare dei paesaggi e sono stato catturato da quel viso, da quelle parole”.

Da allora le testimonianze raccolte sono oltre 6.000, provenienti da 84 paesi. Dal sito di Mauro Poggi.

2 Marzo, 2016

Claude Lévi-Strauss, La famiglia

by gabriella
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Claude Lévi-Strauss (1908 – 2009)

The Family, in H. L. Shapiro, Man, Culture, and Society, [London, Oxford University Press, 1956] trad. it. in F. Remotti, I sistemi di parentela, Torino, Loescher, 1974, pp. 198-99, 201-206.

La famiglia coniugale monogamica è abbastanza frequente. Ogni volta che sembra essere sostituita da tipi diversi di organizzazione, ciò avviene generalmente in società molto specializzate e sofisticate, non già – come una volta ci si attendeva – nelle società più semplici e rozze. Inoltre, i pochi casi di famiglia non coniugale (anche nella sua forma poligamica) dimostrano, al di là di ogni dubbio, che l’elevata frequenza del tipo coniugale di raggruppamento sociale non deriva da una necessità universale. È almeno concepibile che una società durevole e perfettamente stabile possa esistere senza di esso. Di qui un difficile problema: se non esiste alcuna legge naturale che renda la famiglia universale, come possiamo spiegare che essa sia rintracciabile praticamente dappertutto?

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16 Febbraio, 2016

Umberto Eco, Industria e repressione sessuale in una società padana

by gabriella

Lo spassoso reportage antropologico di un ricercatore dell’Oceania sulle pratiche dei milanesi, in cui il migliore Eco smaschera l’etnocentrismo delle categorie disciplinari dall’apparenza più neutrale. Due dei quattro saggi, tratti da Diario Minimo, [Milano, Bompiani, 1992, pp. 81-92].

La presente inchiesta elegge come campo di indagine l’agglomerato di Milano alla propaggine nord della penisola italiana, un protettorato vaticano del Gruppo delle Mediterranee. Milano si trova circa a 45 gradi di latitudine nord dall’Arcipelago della Melanesia e a circa 35 gradi di latitudine sud dall’Arcipelago di Nansen nel Mar Glaciale Artico. Si trova quindi in una posizione pressoché mediana rispetto alle terre civili e se pure fosse più facilmente raggiungibile dalle popolazioni eschimesi tuttavia è rimasta al di fuori dei vari itinerari etnografici.

Debbo il consiglio di una indagine su Milano al Professor Korao Paliau dell’Anthropological Institute delle Isole dell’Ammiragliato e ho potuto condurre la mia inchiesta grazie al generoso aiuto della Aborigen Foundation of Tasmania che mi ha fornito un grant di ventiquattromila denti di cane per affrontare le spese di viaggio ed equipaggiamento.

Non avrei peraltro potuto stendere queste note con la dovuta tranquillità, riesaminando il materiale raccolto al ritorno dal mio viaggio, se il Signore e la Signora Pokanau dell’Isola di Manus non mi avessero messo a disposizione una palafitta isolata dal consueto clangore dei pescatori di trepang e dei mercanti di copra che purtroppo hanno reso infrequentabili certe zone del nostro dolce arcipelago. Né avrei peraltro potuto correggere le bozze e riunire le note bibliografiche senza l’affettuosa assistenza di mia moglie Aloa che spesso ha saputo interrompere la confezione di collane di fiori del pua per correre all’arrivo del battello postale e trasportarmi alla palafitta [63] le enormi casse di documenti che via via richiedevo all’Anthropological Documentation Center di Samoa e che per me sarebbero state di troppo peso.

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13 Dicembre, 2015

Valeriu Nicolae, E’ magnifico essere zingari

by gabriella

craiova romLeggendo i suoi racconti d’infanzia si apprende che Valeriu è un meticcio, uno di quegli individui cresciuti a metà tra due identità. Quando queste identità sono in conflitto secolare tra loro, come sono nel suo caso, la rom e la romena, la loro narrazione non può che essere ironica e illuminante. Tratto da Internazionale dell’11 dicembre 2015.

Per i primi sette anni della mia vita ho avuto una sola identità: ero semplicemente un bambino. Poi, quando sono andato a vivere a Craiova, in Romania, sono diventato uno zingaro. E zingaro sono rimasto per molto tempo. Ma mi sono dato da fare e sono stato promosso a zingaro onesto, signor zingaro, signor zingaro rom, e qualche tempo fa ho ricevuto il titolo di romeno perfino da un canale tv: ormai è ufficiale.

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