Eleonora de Conciliis, Elias Canetti e l’esperienza del potere

by gabriella

elias-canettiUno dei tre saggi di Eleonora de Conciliis su Elias Canetti pubblicati da Kainòs. Gli altri due sono: Identità e rifiuto: appunti per un’antropologia del postmoderno; Le metamorfosi della carne.

   Raggiungere l’immortalità è l’apice del potere.

Michel Foucault

Prologo

Come ben sanno coloro che studiano la sua opera a partire dagli specialismi di una disciplina (ad esempio provenendo dai recinti della germanistica, della filosofia politica, dell’antropologia o della sociologia), Elias Canetti non si lascia facilmente etichettare o imprigionare: la difficoltà principale incontrata dal lettore smaliziato, sia che prenda in esame la produzione narrativa – Auto da fé e l’autobiografia[1] –, sia che s’immerga nel freddo mare degli aforismi e dei saggi [2] o nei sofisticati giochi del suo teatro[3], sia, infine, che s’inoltri nella prismatica mole di Massa e potere[4], consiste nel dover immediatamente rinunciare tanto al proprio lessico concettuale, quanto ad ogni velleità d’interpretazione unitaria ed esaustiva. E questo non perché un’interpretazione non sia possibile, ma perché essa diventa tale solo a patto di non sovrapporre ai testi canettiani la miope gabbia definitoria di un singolo ‘campo’ accademico[5]: solo una sorta di libertà trasversale consente agli specialisti di leggere Canetti senza rimpicciolirsi, ovvero senza pagare un prezzo alla sciocca pretesa di ridurlo a se stessi.

Canetti richiede, insomma, l’umiltà del riconoscimento dell’impotenza cui ogni sapere è assoggettato, per il fatto stesso di ritagliarsi un campo nel quale essere sovrano. Come dimostra l’incontro-scontro avuto con Adorno all’indomani della pubblicazione di Massa e potere, egli provoca tanto nel filosofo, quanto nel letterato[7] (per non dire di antropologi e sociologi che se ne tengono snobisticamente alla larga), una tipica esperienza del limite: obbliga a riconoscere e dunque a sfidare il carattere provinciale, quasi ossessivo, della propria forma mentis. In virtù di uno strano paradosso, le poche ossessioni cui Canetti ha ridotto la sua vita (il potere, la morte, la massa), costituiscono il puntuale rovesciamento di ogni tentativo di mappatura dell’esperienza umana: poichè ognuno dei suoi testi insiste, per non dire che spinge con rabbia, al limite tra filosofia, antropologia e letteratura, la sua opera, proprio come quella di Kafka da lui magistralmente interpretata[8], scardina i confini dei saperi e impedisce che l’esperienza dell’uomo venga chiusa nel perimetro di un dipartimento.

Ma, se è soprattutto riguardo all’esperienza del potere che la scrittura di Canetti (il cui grande contrappunto sarà in questa sede la microfisica genealogica di Foucault) funziona come un’inondazione, uno straripamento dell’umano verso l’animale e della politica verso l’antropologia, questo breve saggio cercherà di nuotare contro la corrente del fiume: il piccolo salmone del pensiero prova sempre a saltare al di là della cascata per deporre, con un’ostinazione che sfiora la demenza, le uova che gli garantiscono l’immortalità.

Morire e non morire

Elias Canetti ha vissuto di ossessioni e rifiuti viscerali[9], che talvolta legava insieme in un unico blocco. Il più roccioso di questi blocchi – anche perché cementato da un odio profondo – è rappresentato dal nesso morte-potere: nella vita dello scrittore, l’esperienza della morte come assurdo scandalo, come ferita insopportabile[10], s’è intrecciata a quella del potere come tumore invasivo e minaccioso che cresce e divora l’animo umano[11]. Ma ciò che più affascina, in lui, è la spietata sincerità con cui ha affrontato le sue ossessioni e i suoi rifiuti.

Una simile spietatezza è all’opera nella descrizione canettiana dello ‘spettacolo’ della morte.

Ma, per chi osserva il cadavere, c’è anche una comparazione individualizzante positiva con il morto. L’esperienza della morte altrui porta infatti con sé il piacere di sopravvivere, che si accompagna ad una sensazione di accrescimento della propria potenza:

«Il terrore suscitato dal morto quando giace disteso è compensato da un senso di sollievo: chi guarda, non è lui il morto»[13];

sarebbe potuto esserlo, ma giace l’altro: la morte è stata deviata su di lui. Da qui la soddisfazione di trovarsi ancora in posizione eretta, il senso di ‘altezza’ del sopravvissuto. Questa sensazione riduce il morto, in un certo senso, a preda: il mio potere si nutre della morte altrui. Per quanto ci si possa vergognare di ciò, fino alla completa rimozione,

«la situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere»[14];

essa è caratterizzata da un «senso di felicità», da un godimento assai concreto, quasi fisico, che, una volta provato,

«esigerà la sua ripetizione. […] Chi ha preso gusto al sopravvivere cercherà di accumularlo. Cercherà di provocare situazioni in cui possa sopravvivere a molti»[15].

Se il potere è sopravvivenza, la sua forma più “bassa” e violenta, ma anche più diffusa tra noi umani, consiste nell’uccidere: l’uomo è un animale pericoloso (Hobbes) perchè

«vuole uccidere per sopravvivere agli altri»[16],

a tanti altri – lo spettacolo di un cadavere nasconde il sogno di una massa di morti.

Dunque,

«prima di diventare dissolvimento, la morte è confronto»[17];

in questo (troppo) umano confronto con il morto, la sopravvivenza equivale ad una simulazione comparativa di immortalità, che è una colpa[18], ma, per ciò stesso, anche un’elezione[19]: a differenza dell’istinto di conservazione, essa non è auto-referenziale, ma relativa ad altri individui della nostra specie. Quindi non è affatto un istinto; si potrebbe anzi affermare che, nell’uomo, lo stesso istinto di conservazione appaia originariamente contaminato dall’emozione comparativa del sopravvivere, la quale, per Canetti, è alla radice dell’esperienza del potere:

«L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza»[20]: l’istante in cui l’essere umano ‘riflette’ sul senso del restare vivo.

Massa e potereNella scrittura di Canetti, com’è noto, la differenza tra uomo e animale è azzerata da una sorta di trasversalità metaforica, che, oltre a possedere una straordinaria forza iconica, assume anche una funzione esemplare: per illustrare l’immortalità ‘simulata’ o effettivamente garantita dalla sopravvivenza, in Massa e potere Canetti sceglie come esempio iniziale la massa degli spermatozoi prodotta dai mammiferi, dei quali uno solo sopravvive per fecondare l’ovulo e perpetuare la specie[22]. Esistono in natura (o nella fetta di natura che chiamiamo corpo e di cui fingiamo di ignorare le dinamiche di potere) forme apparentemente innocue, per non dire necessarie di sopravvivenza selettiva, nelle quali un individuo o una massa ‘sostituisce’, eliminandoli, singoli individui o intere masse di esseri più o meno individuati: si tratta di un’eternità inconscia che, in quanto potenza cieca – una potenza riproduttiva, nel caso degli spermatozoi – sfugge all’emozione riflessiva del potere. Nell’uomo, invece, si tratta di una sopravvivenza cosciente, emotivamente connotata; di una sopravvivenza che, al limite, origina la coscienza e che dunque, anche quando non è conseguenza di un’uccisione reale (cioè di un potere effettuale), viene esperita come uccisione metaforica dell’altro [molto schopenhaueriano .. NDR].

È in questa chiave che vanno lette le metafore esemplari di Canetti: in primo luogo, la sopravvivenza dei giovani ai vecchi, e in particolare dei figli ai genitori[23]. Gli anziani, che in passato hanno esercitato un potere coercitivo – una disciplina[24] – sui bambini[25], sono coloro di cui si attende la morte, anche se non la si procura. La scena cui Canetti ricorre è quella del padre (il potente per eccellenza) che giace morto, inerme: ormai egli non può più comandare, dare ordini; si assiste pertanto ad un completo rovesciamento dei rapporti di potere tra lui e il figlio, che coagula nella sopravvivenza di quest’ultimo: una soddisfazione segreta che lo rafforza, allo stesso modo di un’eredità che si prova piacere a dissipare, facendo il contrario di ciò che avrebbe voluto il morto.

In secondo luogo, la sopravvivenza ai propri coetanei[26]. Non bisogna sottovalutare il fatto che, in ogni cultura, gli individui della stessa età sono, anche inconsciamente, rivali: si confrontano e competono tra loro. Il senso di questa rivalità si manifesta più chiaramente nelle società arcaiche grazie all’importanza che in esse rivestono i riti di passaggio e di iniziazione: si tratta di prove talvolta mortali, atte a rafforzare chi le supera sopravvivendo ad altri. Ma anche la semplice, civile vecchiaia svolge la stessa funzione di rafforzamento: poiché sono ancora in vita rispetto ad altri della stessa generazione, i vecchi non sono che sopravvissuti, e spesso sono fieri di esserlo[27]. Secondo Canetti, la volontà appena dissimulata di sopravvivere ai propri coetanei conduce a specifiche forme di isolamento, o all’adozione di stili di vita che appaiono in grado di accrescere le possibilità di sopravvivenza; in un certo senso, si tratta di una volontà di potenza comparativa che coincide con l’accumulo di vita individuale: quanto più dura la vita di un individuo rispetto a quella di altri, tanto più egli diventa e si sente potente, anche senza bisogno di uccidere; costui si individualizza come unico, come singolarità, grazie al potere ineffettuale conferitogli dalla sopravvivenza ai coetanei.

In terzo luogo vi è il sentimento – letteralmente metafisico – di superiorità dei vivi davanti ad una particolare massa di morti, che Canetti chiama sentimento del cimitero[28]: tutti coloro che giacciono sotto terra si trovano, rispetto ai vivi che ne osservano le tombe, in una condizione di inferiorità che rafforza questi ultimi. Ma ciò provoca il corrispondente risentimento dei morti per i vivi[29]. Esso non è riducibile ad una superstizione o ad una ‘caduta’ nel soprannaturale; rappresenta piuttosto l’altra faccia del piacere di sopravvivere che scaturisce dal confronto con il cadavere: i morti hanno un potere temibile perché si comparano ai vivi, perché soffrono del loro piacere, della loro immeritata fortuna; possono dunque venirli a prendere: possono tornare per vendicarsi sui sopravvissuti, di cui sono invidiosi. Ecco il senso nascosto di ogni veglia funebre, durante la quale non si fa altro, in fondo, che guardare il cadavere: si piange il morto per placare in lui l’invidia e rimuovere, dissimulare la soddisfazione provata nell’essere ancora vivi[30].

Il cibo degli immortali

Sopravvivere ad altri vuol dire esorcizzare la propria morte, allontanarla, illudersi di essere immortale. E quella a distanza di tempo, sembra essere l’unica forma relativamente innocente di sopravvivenza: una sopravvivenza senza uccisione[31]. Ma la vera ebbrezza del rimanere vivo, la più realistica simulazione di immortalità, l’uomo la raggiunge quando ha rischiato di morire ed ha ucciso per evitare la morte: in ciò consiste, secondo Canetti, il piacere di fare la guerra.[32]

Si tratta di un piacere bifronte. Da un lato, in guerra gli uomini ci vanno in massa perché la massa bellica[33], in quanto tale, sembra essere immortale: «il peggio che possa capitare agli uomini in guerra – e cioè morire insieme – , risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto»[34]; pur sentendosi completamente circondati, assediati dalla morte, soltanto in massa essi riescono a sfidarla:

«la massa bellica agisce come se tutto all’esterno di essa fosse morte»[35],

perché fuori di essa c’è solo, e sempre, la massa nemica:

«la guerra offre l’immagine di due masse doppiamente intrecciate. […] L’intreccio deriva dal fatto che ogni partecipante a una guerra appartiene sempre, simultaneamente, a due masse: per la propria gente, egli appartiene al numero dei guerrieri viventi, per l’avversario al numero dei morti potenziali e augurabili»[36]:

la massa pericolosa di avversari vivi dovrebbe trasformarsi in un gruppo di morti. La fantasia sulla massa dei nemici morti é dunque un elemento essenziale della psicologia delle masse in guerra, o meglio in procinto di farla: l’una sogna di sopravvivere all’altra.

D’altra parte, però, l’incoscienza della massa che ‘va alla guerra’ si rovescia, immancabilmente, in un confronto reale con i cadaveri degli uccisi: solo in guerra si può fare esperienza di una massa di morti. La sopravvivenza procura allora al combattente, dopo la battaglia, una sensazione di invulnerabilità: lo «splendore» di chi «torna dalla guerra sano e salvo»[37] non è altro che un’aura di immortalità[38]. La passione della sopravvivenza acquista, in questa situazione, le caratteristiche di una droga: scontro dopo scontro, missione dopo missione, una sorta di cupa coazione a ripetere che è al tempo stesso un eccitante stato alterato di coscienza, conduce il soldato a sfidare la morte; egli sente che la sua forza cresce quanto più aumenta il numero di coloro ai quali riesce a sopravvivere (sia amici che nemici). Tanto nella storia quanto nella finzione artistica, l’eroe[39] è colui che riesce ad abbattere la più grande quantità – la più grande massa – di nemici[40]. Ma non basta: l’eroe diventa sovrano, si auto-deifica ovvero conquista il potere assoluto di vita e di morte, solo se riesce ad uccidere o a far uccidere i propri rivali (la muta [41] dei falsi amici): i sei nemici uccisi in un colpo solo dal giovane Genghiz Khan [ preludono al suo feroce dominio sull’Asia centrale; tale vicenda è in un certo senso analoga, per la sua esemplarità, all’impresa politica del Valentino, raccontata nel Principe di Machiavelli.

Fin dall’antichità, dunque, il potere sovrano uno-a-molti è, essenzialmente, aura di sopravvivenza (ma anche, come vedremo più avanti, delirio di sopravvivenza: sopravvivenza allucinatoria). Ciò spiega, secondo Canetti, l’avversione dei potenti per i sopravvissuti[43]: la sopravvivenza è un loro esclusivo possesso. La sovranità, con tutta la sua alea di capriccio, è caratterizzata dal fatto o dalla possibilità della sopravvivenza ad una massa, dal puro potere di dare la morte ad una moltitudine di esseri considerati, per ciò stesso, inferiori e cadaveri: morti che camminano. In altri termini, non si tratta sempre e soltanto di una sopravvivenza reale, come quella esperita in guerra, ma anche, e molto spesso, di una sopravvivenza simulata.

Per Canetti, in entrambi i casi il quadro di riferimento è quello dell’ordine identitario, tipico dell’esercito, delle grandi religioni e delle situazioni di conflitto: comandare significa uccidere metaforicamente, ossia tenere in sospeso su altri uomini una sentenza di morte per assoggettarli[44], e provare un enorme piacere nel farlo. Mentre il superiore, nell’esercito, gode nell’impartire ordini al subordinato[45], mentre il sacerdote impone al fedele di ‘confessare’ la propria obbedienza alla legge di Dio[46], il sovrano ordina compiaciuto ai suoi sudditi di considerarsi, all’improvviso, dei cadaveri. L’esempio scelto da Canetti per illustrare questa rappresentazione di potere, è quello dell’imperatore Domiziano raccontato da Dione Cassio:

Domiziano offrì ai più eminenti senatori e cavalieri un banchetto nel modo seguente. Preparò una sala in cui tutto […] era nero come la pece. […] Convocò poi gli ospiti di notte e senza il loro seguito […] fece disporre vicino ad ognuno una colonna a forma di monumento funebre che recava scritto il nome dell’ospite e dalla quale pendeva una piccola lucerna, come nelle tombe. […] Furono servite ai commensali le vivande solitamente offerte agli spiriti dei defunti, tutte nere e in piatti neri. Ciascuno degli ospiti, sbigottito e tremante, cominciò a temere che tra un istante gli tagliassero la gola. […] Su tutti regnava un silenzio funereo, come se davvero già fossero morti. Domiziano tenne un’orazione intorno alla morte e alle uccisioni. Finalmente egli li lasciò andare, e già prima aveva fatto allontanare i loro schiavi. […] Fornì quindi agli ospiti altri schiavi, a loro sconosciuti, affinchè li riconducessero nelle loro abitazioni […] e così facendo accrebbe assai la loro angoscia. Ogni ospite era già arrivato a casa e già ricominciava a respirare, quando gli fu annunciato un messo imperiale. Ciascuno fu allora certo che fosse giunta la sua ultima ora. Ma agli uni venne donata la colonna d’argento che sorgeva presso il loro posto durante il banchetto, ad altri diversi oggetti, ad altri ancora i piatti […] in cui avevano mangiato. Infine si presentò ad ogni ospite il fanciullo che gli era apparso come spirito infero nella sala del convito, ora ben lavato ed ornato[47].

Così commenta Canetti: «fu dunque come se i suoi ospiti fossero tutti morti, ed egli solo vivesse ancora [48]. Domiziano, piccolo dio e al tempo stesso regista di una pièce teatrale, gode sadicamente nell’infliggere ai suoi convitati l’esperienza-limite dell’attesa della morte, e nel graziarli; si tratta di una doppia, speculare simulazione di sopravvivenza che, per effetto del linguaggio, rafforza il potere di chi esercita la grazia (Gnade) e rende schiavi, alla rovescia, coloro che restano vivi ‘grazie’ ad essa:

l’imperatore può trascinare i suoi ospiti dalla vita alla morte, e poi ricondurli dalla morte alla vita[49].

Ma, quando uccide davvero, oltre al godimento il potente scopre l’angoscia; per liberarsene, non gli resta che uccidere effettivamente altri uomini, poi ancora altri, e così all’infinito, fino a che gli uccisi non formino una massa. È a questo punto che la condanna a morte dei propri sudditi diventa, per il sovrano, una conferma individualizzante in negativo del proprio potere, che ha anch’essa l’effetto di una droga: per calmarsi, egli non può che uccidere, anche solo in nome di un sospetto di ribellione[50]; ma, uccidendo, viene inchiodato per sempre alla sua singolarità sovrana – al suo statuto mostruoso e criminale.[51]

In primo luogo, allora, l’individualità del potente appare caratterizzata dall’oscillazione quasi ossessiva tra una fin troppo reale metamorfosi in animale predatore (il leone di Machiavelli), ed un’astuta simulazione di metamorfosi (simboleggiata, sempre in Machiavelli, dalla volpe) che nasconde, sotto la ‘maschera’ del sovrano, la pietrificazione identitaria e lo smascheramento coatto degli inferiori. In questo senso,

il potente conduce una battaglia ininterrotta contro la metamorfosi spontanea e incontrollata. Lo smascheramento, il mezzo cioè di cui egli si serve nella sua battaglia, è esattamente contrapposto al processo della metamorfosi e può essere definito antimutamento [Entwandlung]. L’accumulo di antimutamenti determina una riduzione del mondo. Per chi vi ricorre, la ricchezza delle forme fenomeniche non vale nulla ed ogni molteplicità è sospetta[52].

In secondo luogo, ed in conseguenza di ciò, l’individualità del potente è caratterizzata, in positivo, dalla capacità di manipolare ed ordinare – in una parola, di disciplinare – la massa dei morti potenziali – degli inferiori ridotti a cadaveri. Il potere attinge la sua forza al meccanismo di trasmissione della morte tipico della guerra:

Un individuo singolo non può uccidere da solo tanti uomini quanti la sua passione di sopravvivere gli farebbe desiderare. Egli però può indurre gli altri ad uccidere, può dirigerli[53];

è sottratto alla lotta diretta, ma, poichè altri uccidono ai suoi ordini, lui vince: il suo potere cresce con il numero dei morti. La guerra, con le sue morti di massa, è il cibo degli immortali. Il potente-archetipo, Dio o l’uomo deificato che si nasconde in lui, sopravvive alla massa delle sue creature, per non dire che si nutre della loro morte per diventare eterno[54].

L’antropologia canettiana del potere non è avulsa dalla storia, ma la percorre come una faglia: nella modernità, la sovranità non sparisce; per rovesciare una famosa metafora foucaultiana[55], la testa del re non viene tagliata, ma si trasforma: non si tratta più (o non solo) di infliggere a capriccio la condanna capitale, ma – dopo averlo nutrito, ingrassato e ingrandito a dismisura – di mandare al macello il popolo-massa, per potergli sopravvivere. Il bio-potere di «respingere nella morte»[56] cresce con il crescere della popolazione dello stato moderno[57]. Allora il potente (o la muta politica che governa al suo posto, ad esempio il partito), per il piacere di avere davanti agli occhi un mucchio di cadaveri, può ordinare la comparazione con i morti su scala industriale: può organizzare lo sterminio.

Germania, terra di spine

In una delle parti più discusse (perché storicamente più scottante) di Massa e potere, Canetti individua alcuni «simboli di massa» delle nazioni[58]. In questo contesto, ci interessano soprattutto quelli che prendono vita nell’immaginario collettivo – nella fantasia della popolazione – durante i periodi bellici[59]. Ad esempio, quello della Germania è l’esercito, ma trasformato dal movimento della guerra in «foresta che cammina»[60]. L’esercito tedesco, secondo Canetti, si é ri-costituito come “massa del divieto” dopo il diktat del trattato Versailles, con il quale si proibiva alla Germania di usare la propria forza, controllata e organizzata dalla ‘disciplina’ militare, contro le potenze vincitrici. La reazione a questo divieto, che trasforma l’esercito mancante in partito dei reduci, é il nazionalsocialismo: l’ordine, imposto a Versailles, di non formare una massa bellica disciplinata (una “foresta che cammina”), era la spina che Hitler intendeva estrarre dalle carni vive della nazione per conficcarla in quelle del nemico: «la sconfitta […] deve diventare vittoria»[61].

Per Canetti, lo ricordiamo, ogni comando è, all’origine, un comando di fuga: una sentenza di morte del predatore tenuta in sospeso sulla o sulle vittime designate. L’impulso a fuggire (la minaccia di morte) si trasforma, per costoro, in una spina che tuttavia, in quanto marchio temporalizzante (tu morirai!), è anche un’imposizione identitaria:

ogni comando è costituito da un impulso e da una spina. L’impulso costringe chi riceve il comando a eseguirlo. […] La spina permane in chi esegue il comando. Quando i comandi funzionano normalmente, come ci si aspetta da essi, la spina resta invisibile. Segreta e insospettata, essa si manifesta – appena avvertita – nella lieve resistenza che precede l’obbedienza al comando. La spina però penetra profondamente nell’intimo dell’uomo che ha eseguito un comando e vi dura inalterabile[62].

Foucault2In altri termini, il potere individualizza (Foucault): gli ordini, e non solo quelli militari, producono identità assoggettate al potere. Nel subire la spina-minaccia di morte che il comando del potente reca in sé, l’individuo (o il popolo) la trasforma inconsciamente in una maschera identitaria che possa, almeno virtualmente, proteggerlo dalla morte (magari deviandola su un’altra massa: quella degli ebrei, ad esempio), in attesa della vendetta: l’estrazione delle spine. In questo senso, la spina fa durare l’identità: se la metafisica delle grandi religioni (non solo quella, confessionale, del cristianesimo) mostra che «le anime […] consistono interamente di spine»[63], i tedeschi-massa, durante la Repubblica di Weimar e con l’avvento del Terzo Reich, appaiono completamente costituiti da spine: le spine dei loro morti, ma anche quelle della disciplina militare del loro esercito proibito, acuminate come e più di quelle inflitte loro a Versailles. Andare in guerra, per la massa teutonica, voleva dire dissolvere la spina della sconfitta: riprendersi con la forza, da guerrieri, la propria immortalità, ma per ciò stesso abbracciare (come dimostra il rituale delle SS) il culto della morte.

Nel suo splendido saggio su Hitler [64], Canetti analizza il modo in cui il potente sfrutta alla perfezione il meccanismo identitario della spina, che prelude al modo in cui il bio-potere razzista sulle masse si rovescia in tanatopolitica: nei termini di Foucault, invece di proteggere, di “difendere” la popolazione tedesca, esso si trasforma in potere di “respinger[la] nella morte”.

In Hitler la disciplina germanica si associava al potere ipnotico del linguaggio: la sua maschera ripeteva ossessivamente lo stesso ordine, e così assoggettava gli uomini, i quali «fuggono da chi dice sempre le stesse cose. Ma se uno le dice con sufficiente arroganza, da costui si lasciano dominare»[65]. Hitler è stato un grande manipolatore della massa dei vivi, un meneur des foules: possedeva uno straordinario sapere empirico su di essa, sapeva come farla crescere in particolari spazi o edifici, e come rafforzarla grazie alla ripetizione rituale della sua concentrazione[66]. Ma ogni nazione, per così dire, siede sui propri cimiteri: alla massa dei vivi corrisponde sempre, secondo un sentimento o una relazione segreta, la massa dei morti. Ebbene, qual è la massa di morti su cui si basava il potere di Hitler? La risposta di Canetti è letteralmente metafisica: la massa dei caduti nella prima guerra mondiale. Poiché egli stesso è un sopravvissuto di quel conflitto, Hitler vuole placare questi morti, che perseguitano sia lui che gli altri reduci; ma per farlo, non esiste altra strada che la vendetta: vincere, cancellare la vergogna di Versailles. Non a caso, egli confessa a Speer di voler far incidere tutti i nomi dei caduti tedeschi della Grande Guerra (1.800.000!) sul progettato arco di trionfo che avrebbe dovuto sorgere nella Berlino imperiale[68]

In Hitler dunque, attraverso un linguaggio sciamanico che mette in comunicazione i vivi e i morti, «delirio e realtà trapassano incessantemente l’uno nell’altra»[69], anche perché ha scoperto che è facile trasformare il primo nella seconda, la quale ha un punto debole: la massa[70]. Poiché il suo delirio «esige il potere politico assoluto», per raggiungerlo egli «si accosta alla realtà»[71]. In altri termini, il senso della realtà di Hitler sta proprio nell’esercizio del potere sulle masse: il potere politico è il mezzo per imporre al mondo reale il suo delirio – che è poi un gigantesco, multiforme delirio di sopravvivenza. Hitler non è soltanto preda di una sorta di «coazione a superare», che nasconde «il vuoto interiore»[72] e che lo porta a circondarsi esclusivamente di persone mediocri; egli è anche e soprattutto invaso dal desiderio di continuare a crescere persino dopo la morte. E, a questo sogno di espansione e di durata[74], affianca un complementare sogno di distruzione: per lui, vincere è uccidere; le vittorie incruente ed i trattati non hanno alcun senso o valore[75], in quanto «tutto ciò che è diverso dall’io viene eliminato o sottomesso»[76] in attesa di essere eliminato. Ecco perché, ha affermato Enzensberger, «Hitler non è mai andato al fronte. Voleva essere l’ultimo ad andarci: prima dovevano morire gli altri»[77]. Ecco perché alla fine della guerra, quando i tedeschi non vincono più per il Führer, meritano di morire. L’indifferenza di Hitler per il destino del suo popolo[79] conferma, secondo Canetti, che per il potente i sopravvissuti sono «roba di scarto. […] La massa degli uccisi invoca il proprio accrescimento[80]

Nel film La caduta, di Oliver Hirschbiegel (Germania 2004), la ricostruzione degli ultimi giorni del Führer nel bunker della cancelleria (realizzata non solo sulla scorta dell’analisi storica di Joachim Fest, ma anche grazie ai diari di Speer, gli stessi commentati da Canetti[81]) mostra con grande efficacia il rapporto tra il delirio di sopravvivenza del dittatore e la macellazione della sua gente. Non solo Hitler appare ossessionato dal pensiero del proprio corpo morto[82] e dà precise istruzioni affinchè, col fuoco, esso venga preservato dall’oltraggio del nemico[83]; nel bunker si assiste ad un vero e proprio «avvizzirsi» del suo potere [84]: racconta Speer che egli si aggrappa con comica eccitazione alla notizia della morte di Roosevelt, come se la sua vittoria potesse ridursi al mero fatto di sopravvivere al presidente degli Stati Uniti [85]. Hitler vuol essere, fino alla fine, un sopravvissuto, perché questo è, secondo Canetti, il nucleo grottesco del potere: il potente, che finisce col desiderare persino la distruzione della massa che l’ha deificato, vuole essere l’unico. Vuole sopravvivere a tutti, affinchè nessuno sopravviva a lui:  «La volontà di rimanere l’ultimo dei viventi è la più profonda tendenza di ogni potente […]. Il potente manda gli altri alla morte per essere risparmiato dalla morte: distoglie la morte da sé»[86]

Il rovescio di tutto ciò consiste nel fatto che, quanto più grande è il numero dei morti a cui il potente sopravvive, tanto più grande è la massa che lo perseguita in quanto sopravvissuto. La grandezza del suo potere è sempre minacciata dall’invidia mortifera di coloro che ha eliminato: quanto più uccide, tanto più è divorato dall’angoscia, ma anche dalla paura che prova davanti ai vivi cui comanda[87]. Il potente, dunque, è un paranoico il cui corpo mostruosamente espanso viene tormentato dalle spine che ha conficcato e conficca negli altri: dalla massa che ha (anche solo metaforicamente) avuto bisogno di uccidere per accrescere il suo potere. Il timore per la vendetta dei morti si ibrida continuamente, in lui, con il sospetto per i vivi: egli cerca di tenere lontano il pericolo circondandosi di guardie del corpo[88], ma il vero limite del suo potere è l’angoscia che porta dentro – anche perché il sopravvissuto non vive eternamente: «il potere porta in sé la propria fine».[89]

L’uomo come macchina da guerra

Per capire fino a che punto la Germania sia stata, nel Novecento, una terra di spine, è utile giustapporre alla paranoia hitleriana quella, altrettanto grandiosa, contenuta nelle Memorie di Daniel Paul Schreber, presidente della corte d’appello di Dresda.[90]

Il caso Schreber, noto soprattutto perché analizzato da Freud nel 1910[91], è oggetto di un’ampia revisione che, insieme al vertiginoso epilogo, chiude il capolavoro canettiano con angosciosi interrogativi sulla ‘follia’ del potere[92]. L’obiettivo di Canetti, infatti, non consiste tanto nel confutare indirettamente l’interpretazione psicoanalitica del delirio di Schreber – poiché è evidente il carattere riduttivo della chiave ‘omosessuale’ utilizzata da Freud a fronte della ricchezza di questo delirio[93] – , quanto nel mostrare la natura politica della paranoia dell’ex giudice tedesco:

La sua follia, sotto il travestimento di un’antichissima visione del mondo che presuppone l’esistenza di spiriti, è in realtà il preciso modello del potere politico che si nutre della massa e da essa è costitutito. Ogni tentativo di analisi astratta del potere può solo recar danno alla visione di Schreber. In essa sono presenti tutti gli elementi dei rapporti reali: la forte e durevole attrazione sui singoli che devono radunarsi in una massa, l’ambiguo modo di sentire della massa, la sua domesticazione mediante il rimpicciolimento dei suoi componenti, il suo assorbimento nel potente che rappresenta il potere politico con la sua persona, con il suo [leviatanico] corpo; la sua grandezza, che in tal modo deve incessantemente rinnovarsi; e infine, […] il senso della catastrofe che è connesso a tutto ciò, del pericolo per l’ordine del mondo, che deriva proprio da ogni attrazione inattesa e rapidamente crescente.[94]

Lo spaventoso sistema politico di Schreber, secondo Canetti, è giunto a realizzarsi, sebbene in una forma assolutamente indipendente dalla diffusione delle sue memorie:

Schreber aveva fin da allora sentito come masse ostili i cattolici, gli ebrei e gli slavi, e aveva odiato la loro pura e semplice esistenza, con il medesimo atteggiamento personale che sarebbe stato proprio del campione venuto qualche decennio dopo – e non designato da Schreber [ma dal popolo tedesco]. Una pressante tendenza all’accrescimento era peculiare di quei popoli in quanto masse. E nessuno ha l’occhio acuto per le qualità della massa più del paranoico o del potente: due parole che – come forse ora si ammetterà – significano la stessa cosa. Egli – per designare le due persone con un solo pronome – si occupa solo delle masse che vuole combattere o dominare, e che hanno dovunque il medesimo, semplice volto.[95]

Nell’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari hanno riconosciuto a Canetti il merito di aver sottratto la paranoia, “malattia di potere”, ad ogni “imperialismo dell’Edipo”[96]:

«Elias Canetti ha ben mostrato come il paranoico organizzi masse e ‘mute’. Il paranoico le combina, le contrappone, le manovra. Il paranoico congegna masse, è l’artista dei grandi insiemi molari, formazioni statistiche o gregarietà, fenomeni di folle organizzate»[97].

La macchina paranoica, dunque, è una macchina da guerra: le memorie del presidente Schreber illustrano con straordinaria esattezza il suo funzionamento.

Innanzitutto, il paranoico ha uno straordinario senso della posizione che comporta l’isolamento assoluto: «Nulla gli importa dell’opinione del mondo. La sua follia sta da sola contro l’umanità»[98]. Questa solitudine deriva dall’annientamento allucinato del nemico-massa: «L’intera umanità era perita. […] Gli uomini veri erano tutti periti. Lui [Schreber] era l’unico vivente. […] L’intera umanità viene punita e sterminata poiché qualcuno si è permesso di essere contro di lui»[99]. Di fronte ad un avversario metamorfico costituito da una massa di inferiori, il potente paranoico, per sopravvivere, reagisce in due modi opposti ma complementari: lo incorpora per rinnovare il proprio corpo ‘divino’ (divorazione) o si pietrifica per sfuggirgli e smascherarlo (antimutamento). Entrambe le strategie vengono adottate da Schreber per rovesciare il ‘complotto’ di cui si sente vittima: «Il paranoico vede occhi ovunque»[100]; sono gli occhi di coloro a cui egli ha «fatto provare impunemente il suo potere»[101], degli uomini cui ha inflitto delle spine. Poiché Schreber è un giudice, si tratta forse degli imputati della corte d’appello di Dresda da lui condannati: ora i loro occhi «insorgono», ossia lo perseguitano – vogliono smascherare il suo potere di vita e di morte pungendolo con migliaia di spine, entrando in lui attraverso migliaia di «raggi».[102]

Il paranoico non si sente soltanto aggredito e assediato da una massa di inferiori (insetti, raggi, anime spinose). Secondo Canetti, egli oscilla tra la propria auto-deificazione e quella dell’entità superiore da cui si sente parimenti minacciato o ‘penetrato’. La sovranità paranoica si esercita su un territorio metafisico, che può nascondere anche la materialità dell’incorporazione e dello sfruttamento tipici del nazionalismo moderno[103]. Quella di Schreber è insomma, per dirla con Schmitt, una costruzione teologico-politica:

«Da questa trattazione precisa di una follia paranoica risulta […] un dato sicuro: l’elemento religioso è compenetrato di quello politico, l’uno non può essere separato dall’altro. Salvatore del mondo e sovrano del mondo sono una sola persona. L’avidità di potere è il nucleo di tutto»[104].

In altri termini il Dio di Schreber, lungi dall’essere un padre, non è altro che un potente, i cui interessi sono rivolti all’accrescimento ‘territoriale’ del suo potere[105] e al mantenimento della posizione durante il conflitto: Dio fa la guerra a Schreber, lo penetra, per sopravvivergli; analogamente, Schreber si trasforma in donna, si lascia penetrare, solo per sedurre ed uccidere Dio, cioè per sopravvivergli.

Nell’epilogo di Massa e potere, alla descrizione del delirio di sopravvivenza si sostituisce l’angosciosa analisi della storia: se la fine del nazismo non ha significato affatto la sparizione del nesso potere-paranoia, come fare i conti con le nuove forme che esso ha assunto, come ottenere – si chiede Canetti – il dissolvimento del sopravvissuto, la distruzione di questa macchina da guerra che è «il male ereditario dell’umanità, la sua maledizione»[106], e che ancora ci minaccia?

Massa e potere è stato pubblicato nel 1960, dopo vent’anni di lavoro: nelle ultime, condensatissime pagine dell’opera Canetti fa irrompere la guerra fredda e il deterrente atomico, per segnalare le dimensioni planetarie raggiunte dal delirio di sopravvivenza. Da un lato l’Occidente, preso da un cieco «furore dell’accrescimento»[107], ha realizzato un aumento mostruoso della produzione di uomini e di cose; questa crescita, che Foucault ha definito biopolitica (perché per il potere governamentale migliorare la vita delle popolazioni ha fatto tutt’uno coll’aumentarne la quantità[108]), è avvenuta però all’ombra di una rivalità di massa doppia[109]: il boom economico degli anni ’50 e ’60 è stato accompagnato dalla costante, ossessiva comparazione bellica tra Usa e Urss – la corsa agli armamenti bilanciava, e allo stesso tempo alimentava, il ritmo dell’accrescimento. Il rovescio tanatopolitico di quest’ultimo è stato dunque la minaccia della catastrofe nucleare: il potere sembrava trovarsi nelle mani dell’ultima ‘figura’ del sopravvissuto, ossia colui che crede di poter sopravvivere a tutta l’umanità semplicemente premendo un bottone; ma, come ha scritto lapidario Canetti, «tutti sopravviveranno o nessuno»[110]: la distruzione atomica avrebbe eliminato completamente le coordinate comparative della sopravvivenza.

Ora, con la caduta del muro di Berlino, la fine del comunismo (1989-1991) e la conseguente mondializzazione del capitalismo, le figure deliranti della sopravvivenza hanno assunto nuove, paradossali forme comparative: forme di mediocrità, di obbedienza e di terrore, nelle quali ridiventa attuale l’immagine ‘pericolosa’ dell’uomo lasciataci da Canetti[111]. La guerra preventiva al terrorismo globale è condotta da uomini il cui “vuoto interiore” non ha nemmeno l’ombra della grandiosità paranoica mostrata da Hitler, Stalin o Mussolini; d’altra parte, aumenta nella popolazione occidentale il gusto per l’esperienza della sopravvivenza, con un tacito rovesciamento del principio di morte che invece domina gli attacchi kamikaze. In quanto sopravvissuti a coloro che sono morti o muoiono negli attentati, siamo tutti colpevoli di vivere: come assassini esposti alla vendetta delle vittime, confrontiamo la loro sorte crudele con la crudele sfacciataggine della nostra potenza vitale. La scarica di adrenalina, provocata dalla paura che prende il cittadino occidentale di fronte alla possibilità di esplodere mentre va a lavorare in metropolitana, si rovescia impercettibilmente in un brivido di piacere, ma anche in una gigantesca coazione all’obbedienza e al conformismo sociale, quando gli vengono imposte delle eccezionali misure di sicurezza.

Noi siamo, dunque, esseri spaventosamente malvagi:

«L’errore spaventoso sta nell’espressione ‘l’uomo’; l’uomo non è un’unità; contiene in sé tutto ciò che ha violentato. Tutti gli uomini lo contengono, ma non in ugual misura; possono quindi farsi l’un l’altro il peggio. Hanno la caparbietà e la forza per giungere allo sterminio totale»[112]. Ma siamo anche facilmente soggiogabili dal potere: «Il  nucleo del problema – ha scritto Remo Bodei interrogandosi su quello che è considerato il lato debole dell’antropologia canettiana – consiste nel vedere perché proprio oggi, nell’età delle masse, gli individui siano così disposti ad obbedire.»[113]

Si rimprovera insomma a Canetti di non aver analizzato l’altra faccia dell’esperienza del potere: il potere visto ‘dal di sotto’ – da chi lo subisce, e spesso lo accetta. Leggendo attentamente i suoi testi si scopre, tuttavia, la doppia forma di quest’esperienza. Da un lato, chi subisce il potere ne ottiene, di rimando, un’identità; il potere individualizza, ovvero plasma coloro che vengono trafitti dalle spine: esso identifica gli individui legandoli a sé, perché promuove soggettivazioni disciplinari – assoggettamenti – che sembrano proteggere l’inferiore, sebbene solo temporaneamente, dalla violenza divorante del più forte o del diverso (ad esempio, il terrorista); in altri termini, a chi obbedisce perinde ac cadaver si promette, come ricompensa, un po’ di vita – un ragionevole, quasi godibile rinvio della morte.

Ma qual è il rovescio di questa sorta di biopolitica dell’identità? …ecco la risposta – molto foucaultiana – di Canetti:

«La lotta più pericolosa è contro qualcuno più debole di noi; questo vano, inutile, vuoto senso di superiorità prima della lotta, durante la lotta, dopo; questo incessante: ah, ah, potrei già divorarti!»[114] assomiglia molto al ghigno del gatto che lascia sopravvivere il topo solo quel tanto che basta a godersi la sua paura di diventare preda. Il piacere della superiorità muscolare – della ‘divinità’ – del gatto, il suo potere, è quello della sopravvivenza pregustata e attesa. Questo gioco espone tuttavia il potente (sia esso individuo, muta o massa) al rovesciamento: il più debole, durante la lotta, può trasformarsi e diventare il più forte – la metamorfosi è infatti la più astuta forma di resistenza al potere di cui siano capaci gli esseri viventi.

L’antropologia di Canetti, nonostante il suo tenace attaccamento alla vita umana, il suo ossessivo rifiuto della morte, è radicalmente anti-umanistica (come la genealogia di Foucault): nessun uomo è immune dall’esercizio del potere, dalla sua maledizione, nemmeno chi ne sembra totalmente vittima. Ecco perché l’antiumanesimo di Canetti (come quello, radicale, di Foucault) è il migliore umanesimo[115]: il suo senso profondo sta nella comprensione della lotta aperta per l’identità, che anima sia la macchina paranoica del potere, sia la carne viva di coloro che si trovano intrappolati nei suoi ingranaggi: «All’obbedienza passiva, autopunitiva, – scrive ancora Bodei – si risponde togliendosi le spine conficcate, acquisendo la capacità di riprendere il comando di se stessi. La libertà non consiste nell’uscire dai vincoli: al contrario, è soprattutto consapevolezza dei vincoli, individuazione della porta attaverso cui ciascuno s’inoltra nella sconfitta definitiva, la morte», senza postulare una «redenzione ultraterrena»[116].

Il debole, colui che ‘sta sotto’ e obbedisce per paura di morire, può sempre decidere di sopravvivere alla maschera identitaria impostagli dall’alto (da un qualunque dio, sacerdote o sedicente superiore): può resistere all’ordine, estrarre le spine, sdegnare la ricompensa, e guardare in faccia la propria “sconfitta definitiva”. Guadagnare la padronanza di sé davanti allo spettacolo della morte: questo è il potere residuo che Canetti (non molto diversamente da Foucault) sembra concedere all’uomo che non intende né comandare, né obbedire.

Epilogo

Eccoci così ritornati alla vecchia ossessione dello scrittore: l’esperienza della morte altrui come rivelazione, come simulazione comparativa della propria.

Ma che cosa significa per noi, animali così malvagi, guardare la morte di chi amiamo? Nella sua commedia più spietata, Canetti fa dire ad un personaggio femminile:

«Non voglio sopravvivere all’uomo che amo. Ma non voglio neanche che lui mi sopravviva»[117].

Si può amare oltre la morte, a dispetto della morte, o si tratta di un sentimento troppo nobile per la nostra crudeltà? Quest’interrogativo ci riporta all’epilogo di Massa e potere: qual è il punto debole del sopravvissuto? si chiede Canetti[118]; c’è un punto debole, attraverso il quale possiamo estrarre l’aculeo del comando e neutralizzare il delirio del potere? Gli umanisti, ‘obbedienti’ al potere identitario della paura, risponderebbero in coro: l’amore, ecco la forza capace di pacificare la lotta e schivare l’abisso della morte. Ma Canetti si è sempre proibito un simile sentimentalismo. L’amore è la forma più dolce che il potere possa assumere tra gli esseri umani; anch’esso rinvia ad una relazione di comando, ad una comparazione mortale che riproduce, in scala uno a uno, il rapporto maledetto uno a molti, quello tra la massa (il grembo profondo, arcaico e pre-soggettivo dell’umano) e l’individuo (l’isola paranoica).

Ci dev’essere allora un altro tipo di isolamento, che non sia il rovescio dell’uccisione-seduzione di un individuo o di una massa di uomini. L’unica soluzione, secondo Canetti, è connessa al linguaggio, ma, purtroppo, è destinata a pochi: «l’isolamento creativo»[119] dell’arte – il privilegio della letteratura. Attraverso il linguaggio (o meglio, nel linguaggio) si può far vivere o “respingere nella morte”: chi scrive e racconta esercita infatti il bio-potere ad un livello diverso da quello politico, ma non meno efficace[120] – se non si adopera per la cancellazione assoluta degli altri, li ricrea in un mondo di pura sopravvivenza. In questo caso, la creazione linguistica sembra essere l’unico potere benefico (l’unica metafisica atea) sviluppato dall’uomo; essa permette di sopravvivere attraverso l’incorporazione, piuttosto che attraverso l’uccisione: rovesciare l’assassinio in metamorfosi, oppure guadagnare la sopravvivenza (nella memoria dei vivi) grazie alla propria potenza spirituale – sconfiggere la morte come spirito[121]. La prima strada viene percorsa dagli scrittori, che si trasformano ‘letteralmente’ in coloro di cui scrivono: se ne nutrono senza ucciderli, ma anzi portandoli con sé nell’immortalità letteraria[122]; la seconda, invece, è quella battuta dai filosofi, i quali accrescono la potenza della propria mente senza bisogno di uccidere o incorporare. Per loro, da Socrate in poi, vivere significa prepararsi a morire senza invidiare i vivi, ossia guardare in faccia l’esperienza-limite della morte cercando di smontare la macchina paranoica della divorazione-comparazione: se «il sapere [è un] mezzo per sopravvivere grazie alla comprensione»[123], la filosofia resiste alla morte come un umile, ma eccezionale forma di sopravvivenza.

Note


[1] Cfr. E. Canetti, Die Blendung (1935), trad. it. di L. e B. Zagari, Auto da fé, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Milano, Bompiani, 1990, vol. I, pp. 217-804; E. Canetti, Die gerettete Zunge. Geschichte einer Jugend (1977), Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931 (1980), Das Augenspiel. Lebensgeschichte 1931-1937 (1985), trad. it. La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Il frutto del fuoco. Storia di una vita 1921-1931, Il gioco degli occhi. Storia di una vita 1931-1937, in Id., Opere, vol. II, cit., 1993, risp. pp. 379-777; 779-1185; 1187-1539.

[2] Cfr. sprt. E. Canetti, Das Gewissen der Worte (1975), trad. it. di R. Colorni, La coscienza delle parole, in Id., Opere, vol. II, cit., pp. 1-375; Id., Die Provinz des Meschen (1973), trad. it. di F. Jesi, La provincia dell’uomo, in Id., Opere, vol. I., cit., pp. 1591-1955.

[3] Cfr. E. Canetti, Hochzeit (1932), Komödie der Eitelkeit (1934), Die Befristeten (1952, letteralmente: Uomini a termine), trad. it. Le nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza, in Id., Opere, vol. I, cit., risp. pp. 1-79; 81-215; 805-884.

[4] E. Canetti, Masse und Macht (1960), trad. it. di F. Jesi, Massa e potere, in Id., Opere, vol. I, pp. 981-1590, d’ora in poi citato in nota con la sigla MP seguita dal numero di pagina.

[5] Sul concetto di campo come orizzonte ristretto ed autoreferenziale di valutazione del mondo ‘abitato’ da accademici e scienziati, cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane , Milano, Feltrinelli, 1998.

[6] Cfr. E. Canetti – T.W. Adorno, Dialogo sulle masse, la paura e la morte, in AA.VV., Oltre la politica. Antologia del pensiero “impolitico”, a cura di R. Esposito, Milano, Bruno Mondadori 1996, pp. 147-173.

[7] Cfr. però l’eccezione di C. Magris, Gli elettroni impazziti: Elias Canetti e l’Auto da fé, in Id., L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi, 1999, pp. 256-292, e ovviamente di Luciano Zagari, che di Canetti è stato insuperato traduttore.

[8] Cfr. E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, in Id., La coscienza delle parole, cit., pp. 101-212.

[9] Ad esempio, ha sempre visceralmente ‘rifiutato’ la filosofia sistematica e la psicoanalisi frediana. Sulla diffidenza di Canetti nei confronti del sapere filosofico cfr., oltre a numerosi aforismi disseminati ne La provincia dell’uomo, anche la raccolta La rapidità dello spirito. Appunti da Hampstead 1954-1971, Milano, Adelphi, 1996. Sulla indiretta critica canettiana alla teoria edipica, cfr. infra, il paragrafo L’uomo come macchina da guerra.

[10] Si può dire che Canetti tratteggi nella sua opera, soprattutto in alcuni aforismi, una vera e propria utopia dell’immortalità umana: «Da molti anni nulla mi ha mosso e colmato tanto quanto il pensiero della morte. Il concretissimo, serio, riconosciuto obiettivo della mia vita è il raggiungimento dell’immortalità per gli uomini», E. Canetti, La provincia dell’uomo, cit., p. 1644; e ancora: «Rappresentare la morte come se non ci fosse. Una comunità in cui tutto si svolge come se nessuno avesse cognizione della morte», ibidem, p. 1649; «le conseguenze razionali di un mondo senza morte non sono mai state pensate fino in fondo. Non si può prevedere che cosa gli uomini saranno in grado di credere, il giorno in cui riusciranno a cacciare la morte dal mondo», ibidem, p. 1650; «Le lacrime di gioia dei morti per il primo che non muore più», ibidem, p. 1660. Sul rapporto tra i morti e i vivi, cfr. però infra, in questo stesso paragrafo, il sentimento del cimitero.

[11] «La schiavitù della morte è il nocciolo di ogni schiavitù» (E. Canetti, La provincia dell’uomo, cit., pp. 1701-1702), perché, come vedremo più avanti, è la minaccia di morte a rendere possibile l’esercizio del potere: è perché sa, o sente, di poter essere ucciso da un altro essere umano, che l’uomo gli si sottomette. Sulla profonda comprensione canettiana del meccanismo antropologico dell’obbedienza, vedi infra, il paragrafo L’uomo come macchina da guerra.

[12] E. Canetti, Macht und Überleben, trad. it. di F. Jesi, Potere e sopravvivenza, Milano, Adelphi, 1974, pp. 14-15. D’ora in poi questo saggio, che fa parte della raccolta La coscienza delle parole, verrà citato in nota con la sigla PS seguita dal numero di pagina.

[13] PS, p. 15.

[14] PS, p. 16.

[15] PS, pp. 22-23.

[16] MP, p. 1281.

[17] E. Canetti, Das Geheimherz der Uhr, trad. it. di G. Forti, Il cuore segreto dell’orologio, in Id., Opere, cit., vol. II, p. 1655.

[18] Cfr. ibidem, p. 1678: «la colpa di sopravvivere, la colpa che hai sempre sentito».

[19] «…è la sensazione d’essere eletti fra molti che hanno un comune destino», MP, p. 1251.

[20] MP, p. 1249.

[21] Sull’uso “inconcettuale” (iconico, figurativo) della metafora in Canetti, e in particolare sulla problematica valenza politica della massa come “metafora assoluta”, cfr. M. Russo, Massa e potere nell’antropologia inconcettuale di Canetti, in “Filosofia politica” 3/2002, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 459-487.

[22] «…raramente si pensa che durante la fecondazione un numero sbalorditivo di spermatozoi non raggiunge la meta, pur partecipando in modo intensivo al fenomeno nella sua globalità. Non un singolo spermatozoo, ma circa duecento milioni di essi cercano la loro strada verso l’uovo. […] Tutti quegli spermatozoi non sopravvivono, sia durante il viaggio verso la meta, sia nelle sue immediate vicinanze. Solo uno di essi penetra nell’uovo. Lo si può benissimo considerare il sopravvivente.» MP, pp. 1275-76.

[23] Cfr. MP, p. 1277.

[24] Uso qui il concetto di ‘disciplina’ in senso foucaultiano: cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993.

[25] Che hanno cioè conficcato in loro numerose spine: sulla teoria canettiana della spina cfr. MP, pp. 1344 sgg. e infra, il paragrafo Germania, terra di spine.

[26] Cfr. MP, pp. 1277-1279.

[27] «Proprio perchè si è ancora vivi, ci si sente in qualche modo i migliori.», MP, p. 1251.

[28] Cfr. MP, pp. 1314-1316.

[29] Cfr. MP, pp. 1296 sgg. Sulla massa doppia dei vivi e dei morti, cfr. MP, pp. 1051-1052.

[30] Cfr. l’analisi canettiana della muta del lamento, in MP, pp. 1098-1103.

[31] Un discorso a parte, che Canetti non ha mai affrontato direttamente e al quale qui posso soltanto accennare, andrebbe fatto per la sopravvivenza ‘innocente’ nei campi di sterminio durante la seconda guerra mondiale: da un lato, nella misura in cui il sopravvissuto al lager si vergogna di non essere morto, egli conferma l’umanità terribile dell’attaccamento comparativo alla propria vita (poichè l’ex-detenuto non può ammettere di essersi nutrito della morte altrui; e nel momento in cui lo fa, è per ciò stesso costretto ad una sorta di suicidio etico); dall’altro lato, cioè ponendosi nell’occhio delle SS, Auschwitz può essere considerato una sorta di scatenamento sistematico dello ‘spettacolo’ comparativo della morte (poichè l’aguzzino trova conferma della propria superiorità solo sopravvivendo allo sguardo inferiore del detenuto); in entrambi i casi, ciò che è in gioco è il potere fisico della vita come ‘oltranza’: di una vita ostinata che si riduce, letteralmente, alle sue funzioni biologiche, e di una vita che si fonda, letteralmente, sulla distruzione di quelle altrui. Il silenzio di Canetti sui campi, peraltro, mi pare compensato dalla mole sinfonica di Massa e potere: non un rigo di quest’opera è indifferente all’indicibile sofferenza patita in quei luoghi; non una pagina di Canetti offende l’impotente guardarsi morire dei prigionieri, lo spettacolo orrendo della divorazione del proprio corpo e della sua lenta metamorfosi in cadavere (spinta fino all’invidia per quelli gasati il giorno del loro arrivo nel lager).

[32] Cfr. MP, 1250.

[33] Secondo Canetti, la massa bellica esiste fintanto che é mobilitata per la guerra, o si risveglia in occasione della guerra: cfr. MP, pp. 1052-1060.

[34] MP, p. 1059.

[35] Ivi.

[36] MP, p. 1057.

[37] PS, p. 25; cfr. anche MP, p. 1251.

[38] Michel Foucault, nel saggio I delitti che si raccontano, (contenuto nel celebre dossier Io, Pierre Rivière…, Torino, Einaudi, 2005, p. 224), ha scritto: «È l’omicidio che fa l’immortalità dei guerrieri (essi uccidono, fanno uccidere e accettano essi stessi il rischio di morire […] l’omicidio è l’avvenimento per eccellenza.»

[39] «Colui al quale accade di sopravvivere più volte è un eroe. È più forte. Ha in sé più vita.», MP, p. 1251.

[40] Si pensi soprattutto al cinema di genere (western, pulp, giallo, fantasy): qui l’eroe (buono o malvagio che sia) è sempre consacrato come tale da una scena in cui uccide una massa di avversari.

[41] Sui vari tipi di muta analizzati da Canetti, e sull’idea di muta in generale, cfr. MP, pp. 1084-1176.

[42] Cfr. l’aneddoto riportato da Canetti in MP, pp. 1252-1253.

[43] Cfr. MP, p. 1270.

[44] Cfr. MP, p. 1345: «Il più antico ordine […] è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire».

[45] Il quale a sua volta li scaricherà su un inferiore: su ciò cfr. sprt. il breve paragrafo Spina del comando e disciplina, in MP, pp. 1360-1362.

[46] Perchè le sue domande penetrano «come un coltello» nell’anima dell’inferiore: su ciò cfr. il paragrafo Domanda e risposta, in MP, pp. 1324-1331.

[47] Dione Cassio, Storia romana, epitome libro LXVII, cap. 8.

[48] MP, p. 1259.

[49] Ivi.

[50] Si pensi a Stalin: dalle purghe degli Anni Trenta alla vecchiaia durante la guerra fredda, la sua dittatura fu un lunghissimo, paranoico esercizio del sospetto e dello smascheramento del nemico interno.

[51] Nel corso del 1974-75 tenuto al Collège de France su Gli anormali (trad. it. Feltrinelli, Milano, 2000), Foucault ha sviluppato l’analogia istituita dalla pubblicistica (nonché dalla psichiatria) ottocentesca tra potere sovrano e comportamento criminale, all’insegna di quella, non meno inquietante, tra il sovrano e il mostro o l’animale mostruoso. Da un lato, infatti, «il despota è un criminale per statuto, mentre il criminale è un despota per caso» (ibidem, p. 90); dall’altro, «il despota è l’uomo solo»: il suo isolamento ‘anormale’ lo rende non propriamente umano, ma appunto, animalesco, e con ciò mostruoso; inoltre Foucault sottolinea come, nell’ancién regime (ma anche nell’Ottocento), la mostruosità criminale dei re (Maria Antonietta in testa) non sia stata che il rovescio della furia mostruosa e animalesca che animava la plebe, quando essa, come massa, si ribellava al potere sovrano: cfr. ibidem, pp. 90-99.

[52] MP, p. 1442. L’antimutamento e lo smascheramento coatto sono atteggiamenti tipici del paranoico, o dell’individuo affetto da mania di persecuzione: proprio come il potente, dovunque costoro vedono complotti e metamorfosi nemiche. Sulla paranoia come “malattia di potere” cfr. MP, p. 1530 sgg., e infra, il paragrafo L’uomo come macchina da guerra.

[53] PS, p. 25.

[54] In questa prospettiva antropologica (da non confondere con l’etnologia girardiana) il cristianesimo, con la condanna dell’assassinio e la credenza nella resurrezione dei morti, rappresenta un grande tentativo di rovesciare alla lettera il meccanismo divorante del potere: la massa dei fedeli si ciba della carne del figlio di Dio per guadagnare l’immortalità. Ma si tratta di un tentativo sempre esposto all’insidia sacerdotale: i potenti servi di Dio ordinano ai cristiani di morire (non tanto nella carne, quanto nella volontà autonoma: uccidono la libertà di pensare) per nutrirsi del loro spirito, reso ‘ubbidente’ dalla fede.

[55] Cfr. M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977, p. 15: «Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costituita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica».

[56] Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 122: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire, o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte».

[57] Secondo Foucault, la moderna «biopolitica della popolazione» si realizza attraverso «controlli regolatori» economicamente orientati alla vita, perché è «un elemento indispensabile allo sviluppo del capitalismo» (La volontà di sapere, cit., p. 123; 124); tuttavia nel Novecento, col nazismo e le guerre mondiali (cioè grazie ad un mostruoso rigurgito disciplinare della sovranità), ciò che altrove Foucault chiama potere governamentale (cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78, Milano, Feltrinelli, 2005) si rovescia in tanatopolitica; su ciò cfr. M. Foucault, ‘Bisogna difendere la società’, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 219-227.

[58] Cfr. MP, pp. 1177 sgg.

[59] Secondo Canetti, in guerra le nazioni moderne sono masse: caratterizzate non dalla lingua o dal sistema di governo, ma dalla loro mobilitazione “totale” e dalla simbologia con cui i loro membri si sentono uniti contro i nemici: «le nazioni devono dunque essere considerate come se fossero religioni» (MP, p. 1178). Il nazionalismo politico – che implica sempre la xenofobia – é un fenomeno paragonabile al fanatismo religioso. Anche il sistema parlamentare di governo bi-partitico, nel quale ad una maggioranza di governo si affianca l’opposizione, «si avvale della struttura psicologica di eserciti in battaglia» (MP, p. 1203); le norme giuridiche e le procedure che regolano la vita parlamentare acquistano senso in quanto sanciscono, all’interno dello stato, «la rinuncia alla morte come strumento di decisione» (MP, p. 1205); ma la sua metaforizzazione politica non abolisce mai del tutto, all’esterno dello stato, la possibilità reale dell’ostilità (die reale Möglichkeit des Kampfes, come direbbe Carl Schmitt), cioè la guerra.

[60] MP, p. 1182.

[61] MP, p. 1195.

[62] MP, pp. 1347-1348. Corsivo mio. È chiaro che il termine resistenza rinvia al quantum di potere opposto dal basso, secondo Foucault, a chi detiene un quantum di potere superiore: gli inferiori resistono, talvolta fino alla vendetta. In quest’ottica va ora compreso il senso del rovesciamento dei rapporti di potere tra padri e figli, quando i primi muoiono: «Coloro che sono specialmente destinati a ricevere comandi, coloro che più di ogni altro vengono coinvolti in questo processo, sono i bambini. Sembra un miracolo che essi non crollino sotto il carico di comandi e sopravvivano alle iniziative degli educatori. Ma tutto ciò è per loro naturale come il mordere o il parlare e non è meno crudele di ciò che a suo tempo imporranno ai loro figli. […] La forza con cui il bambino riceve ordini e la tenacia, la fedeltà, con cui li custodisce non sono meriti individuali. L’intelligenza o altri doni particolari non c’entrano per nulla. Ogni bambino, anche il più comune, non dimentica né disperde alcuno degli ordini con cui gli è stata fatta violenza», MP, p. 1348.

[63] MP, p. 1377. Citazione leggermente modificata.

[64] E. Canetti, Hitler nach Speer, trad. it. Hitler secondo Speer, in PS, pp. 83-125. Cfr. i diari dell’architetto del Führer: A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 1971.

[65] E. Canetti, Die Fliegenpein, trad. it. di R. Colorni, La tortura delle mosche, Milano, Adelphi, 1993, p. 37.

[66] Cfr. PS, pp. 85-87.

[67] «Senza i morti della Prima guerra mondiale, Hitler non sarebbe mai esistito», PS, p. 97.

[68] Cfr. PS, pp. 95-96.

[69] PS, p. 120.

[70] Cfr. PS, p. 121.

[71] PS, p. 122.

[72] PS, p. 91.

[73] Si pensi alla cerchia ristretta dell’Obersalzberg, il ‘nido dell’aquila’ dove proprio Albert Speer costituiva l’unica eccezione: «il fotografo di fiducia, l’autista, il segretario, l’amica, due segretarie, la cuoca vegetariana, e infine un uomo di tipo completamente diverso: l’architetto privato. […Hitler] si trova bene in tale cerchia, ove nessuno può spingersi al suo livello; là vive indisturbato come quella creatura unica che ritiene di essere», PS p. 109.

[74] Cfr. PS, p. 94.

[75] Cfr. PS, p. 92.

[76] PS, p. 113.

[77] H. M. Enzensberger, da un’intervista concessa a “Die Zeit” nel settembre 2006.

[78] Cfr. PS, p. 100.

[79] La stessa manifestata da Mussolini a Galeazzo Ciano, nel definire gli italiani uno spregevole branco di pecore, della cui vita non gli importava nulla. Un giudizio ricordato dallo stesso Canetti in PS, p. 27.

[80] PS, p. 101.

[81] Cfr. PS, pp. 98-99.

[82] L’unico rimasto del ‘doppio’ corpo del re, dato che l’altro corpo sovrano, pur essendo stato nutrito col sangue dei nemici, ormai non c’è più, tende a svanire con la sconfitta della Germania: cfr. E. Kantorowicz, I due corpi del re: l’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989.

[83] Non si dimentichi che, negli stessi giorni dell’aprile 1945, Mussolini veniva giustiziato dai partigiani e il suo cadavere appeso per i piedi a Milano, in Piazzale Loreto.

[84] PS, p. 98.

[85] Cfr. PS, pp. 123-124.

[86] MP, p. 1523.

[87] Cfr. PS, p. 27; MP, pp. 1296 sgg.

[88] Cfr. MP, pp. 1255-1256.

[89] MP, p. 1257.

[90] D. P. Schreber, Denkwürdigen eines Nervenkranken, Leipzig 1903.

[91] S. Freud, Il Presidente Schreber. Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente, Torino, Boringhieri, 1975.

[92] Cfr. MP, pp. 1512-1549.

[93] Il Dio di cui si racconta nelle Memorie equivarrebbe, nell’interpretazione freudiana, al padre di Schreber, per sedurre il quale il malato inizierebbe la sua trasformazione in donna.

[94] MP, p. 1521.

[95] MP, pp. 1528-29.

[96] Cfr. G. Deleuze – F. Guattari, L’anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1975. Secondo gli autori, bisogna considerare «tanto la paranoia che la schizofrenia come indipendenti da ogni pseudo-etiologia familiare, per innestarle direttamente sul campo sociale [che è quello del potere]: i nomi della storia, e non il nome del padre.» (L’anti-Edipo, cit., p. 316).

[97] G. Deleuze – F. Guattari, L’Anti-Edipo, cit., p. 318.

[98] MP, p. 1548.

[99] MP, pp. 1522-23.

[100] MP, p. 1541.

[101] Ivi.

[102] Sui raggi ‘maligni’ o ‘benedicenti’ da cui Schreber si sente attraversato, cfr. MP, pp. 1523 sgg.

[103] Sull’analogia tra paranoia “patriottica” e nazionalismo difensivo cfr. anche E. Canetti, La provincia dell’uomo, cit., pp. 1673-74: «L’unità di un popolo consiste principalmente nel fatto che esso, in date circostanze, possa agire come un singolo malato di mania di persecuzione. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di un pezzo di terreno, del suolo di cui si ha bisogno per i propri piedi affinchè questi tengano su, dritto, il corpo.»

[104] MP, pp. 1529-30.

[105] Cfr. MP, p. 1525.

[106] MP, p. 1554.

[107] Cfr. MP, p. 1551.

[108] Su questo nesso cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, Milano, Feltrinelli, 2005.

[109] Cfr. MP, p. 1551-52.

[110] MP, p. 1556.

[111] In questo senso è certamente vero, come sostiene M. Russo, che nella tarda modernità «il vero Sopravvissuto è la massa», con la sua «potenza passiva» (M. Russo, Massa e potere nell’antropologia inconcettuale di Canetti, cit., pp.484-85); ma ciò non ha affatto liquidato l’incubo del Potente: egli è sopravvisuto proprio come massa, metamorfosandosi nella sua irredimibile inferiorità e umiliandone la residua forza politica. In questo senso, allora, a Canetti non è affatto mancata la capacità di cogliere le metamorfosi storiche del potere, o il carattere rivoluzionario di alcune esperienze di massa (massa del rovesciamento, massa festiva, massa del divieto.).

[112] E. Canetti, La provincia dell’uomo, cit., p. 1657.

[113] R. Bodei, Elias Canetti e il mistero doloroso dell’obbedienza, in “Nuova corrente” XILX, Genova 2002, pp.11-22; p.12.

[114] E. Canetti, La provincia dell’uomo, cit., p. 1689.

[115] Cfr. R. Bodei, Elias Canetti e il mistero doloroso dell’obbedienza, cit., p. 16.

[116] Ivi.

[117] E. Canetti, Vite a scadenza, in Id., Opere, cit., vol. I, p. 823.

[118] Cfr. MP, p. 1555.

[119] MP, p. 1555.

[120] Cfr. M. Foucault, I delitti che si raccontano, cit., p. 224: «il diritto di uccidere e di far uccidere» è profondamente connesso a quello «di parlare e di raccontare».

[121] Cfr. anche la concezione cinese della sopravvivenza dell’antenato riportata in MP, p. 1307: «La sopravvivenza dell’anima dipende dalla forza fisica e morale acquistata dall’anima stessa durante la vita, grazie al nutrimento e allo studio.»

[122] Cfr. lo splendido paragrafo dedicato da Canetti all’immortalità dello scrittore in MP, pp. 1316-1318.

[123] M. Foucault, da un’intervista concessa a Toronto nel 1983, trad. it. in Id., Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura di M. Bertani e P. A. Rovatti, Milano, Cortina, 2006, p. 270.

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