Posts tagged ‘Elias Canetti’

15 Gennaio, 2022

Claudio Magris, Il bufalo di Rosa Luxemburg

by gabriella
Gustave Courbet, L'hallalì del cervo, 1867

Gustave Courbet, L’hallalì del cervo, 1867

La bella recensione di Claudio Magris [Corriere della Sera, 14 novembre 2007] a Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Milano, Adelphi,  2007.

 

La lettera di Rosa

Nel dicembre del 1917, Rosa Luxemburg scrive a Sonja Liebnecht (Sonicka), mentre si trova nel carcere di Breslavia da tre anni.

Nella prima parte della lettera si occupa di questioni politiche e invita la sua interlocutrice e tutto l’entourage spartachista a non prestare ascolto alla stampa borghese in merito a ciò che avviene in Russia e ad avere fiducia.

A tratti, il suo linguaggio si fa perentorio, come si conviene a una leader politica che intende orientare e prendersi le sue responsabilità. Nella seconda parte la lettera si fa più personale e intima: prima il ricordo di Karl Liebnecht, imprigionato anche lui, poi quello dell’ultimo Natale trascorso tutti insieme intorno a un grande abete, mentre quello che ha in carcere è così piccolo e modesto.

L’accenno all’albero la porta al ricordo nostalgico delle escursioni nello Stiglitzer Park a Berlino e in mezzo ai suoi fiori e piante: ligustri, mirti e altri vegetali e arbusti che Luxemburg descrive in pochi tratti, tanto poetici quanto competenti. Dopo altri ricordi e un breve excursus di carattere letterario, la lettera vira improvvisamente e assume un tono solenne e drammatico:

Aimè Soniucka; qui ho provato un dolore molto intenso.

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12 Novembre, 2013

Leonardo Daddabbo, Il potere

by gabriella

Oltre il Leviatano 1. Hannah Arendt, potere, relazione, azione

Una nuova visione della politica

“Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono” scrive Hannah Arendt in Vita activa (p. 147, edizione citata in bibliografia). Questa breve citazione è forse già sufficiente a spiegare la presenza di Arendt fra gli autori che hanno sperimentato, nella seconda metà del Novecento, nuovi modelli di pensiero politico. Il potere non è qui un comando proveniente dall’alto, ma un’attività generata dal basso, qualcosa che gli uomini fanno nascere agendo insieme. Ci troviamo di fronte a un pensiero che fonda la politica su elementi assai diversi da ogni precedente tradizione e afferma che la natura del politico può essere compresa solo ponendola in rapporto con la pluralità concreta degli uomini, con la loro capacità di stabilire relazioni, con le parole e le azioni che fanno apparire nel mondo qualcosa di nuovo. L’universo del Leviathan, fatto di obbedienza, rinuncia, autorità e gerarchia sembra quanto mai lontano.
Uno dei testi in cui questa impostazione si sviluppa è Vita activa (The human condition, 1958).

Vita activa

Nel termine ‘vita activa’ Arendt riassume le tre attività umane fondamentali: il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro è l’attività che produce i mezzi necessari a mantenere e riprodurre la vita. Il rapporto tra lavoro e vita è però di tipo ciclico: lavorare produce ciò che permette di vivere, ma una volta riprodottasi, la vita è nuovamente pronta al lavoro. La causa del processo ciclico risiede nel metabolismo dei processi vitali, che obbliga gli uomini a una continua attività il cui unico scopo è quello di alimentare un processo biologico che non può essere interrotto. In ultima analisi, il movimento logorante, ripetitivo e senza fine del lavoro dipende dal fatto che gli uomini hanno un corpo:

“il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo” (Vita activa, p. 81).

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20 Giugno, 2013

Eleonora de Conciliis, Elias Canetti e l’esperienza del potere

by gabriella

elias-canettiUno dei tre saggi di Eleonora de Conciliis su Elias Canetti pubblicati da Kainòs. Gli altri due sono: Identità e rifiuto: appunti per un’antropologia del postmoderno; Le metamorfosi della carne.

   Raggiungere l’immortalità è l’apice del potere.

Michel Foucault

Prologo

Come ben sanno coloro che studiano la sua opera a partire dagli specialismi di una disciplina (ad esempio provenendo dai recinti della germanistica, della filosofia politica, dell’antropologia o della sociologia), Elias Canetti non si lascia facilmente etichettare o imprigionare: la difficoltà principale incontrata dal lettore smaliziato, sia che prenda in esame la produzione narrativa – Auto da fé e l’autobiografia[1] –, sia che s’immerga nel freddo mare degli aforismi e dei saggi [2] o nei sofisticati giochi del suo teatro[3], sia, infine, che s’inoltri nella prismatica mole di Massa e potere[4], consiste nel dover immediatamente rinunciare tanto al proprio lessico concettuale, quanto ad ogni velleità d’interpretazione unitaria ed esaustiva. E questo non perché un’interpretazione non sia possibile, ma perché essa diventa tale solo a patto di non sovrapporre ai testi canettiani la miope gabbia definitoria di un singolo ‘campo’ accademico[5]: solo una sorta di libertà trasversale consente agli specialisti di leggere Canetti senza rimpicciolirsi, ovvero senza pagare un prezzo alla sciocca pretesa di ridurlo a se stessi.

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19 Giugno, 2013

La positività della massa in Elias Canetti. Valentina Sperotto, La struttura di Massa e potere

by gabriella

La positività della massa in Elias Canetti [tratto da I barbari]

operaiCanetti esplora un mondo che a noi moderni può apparire al rovescio giacché abbiamo concepito l’individuo come portatore di ordine, razionalità e progresso al contrario delle masse sempre viste come irrazionali e regressive. Questa prospettiva è completamente ribaltata dal filosofo che vede la massa come l’unico luogo in cui si concretizza la vera uguaglianza e l’umanità stessa. Canetti anziché il “singolo” ha come rifeimento la “specie” e quindi non è l’individuo che forma la massa ma l’esatto contrario. Individuo e Potere quindi diventano sinonimi facendo acquisire così il significato di male assoluto al potere. Solo fondendosi nella massa l’individuo riesce a spossessarsi del suo “IO” e cancellare la paura ancestrale di essere “toccato”, il grumo in cui si alligna il potere stesso creando distanza fra gli esseri umani.

Sconcerta la lettura di questo libro in cui apparentemente Canetti usa un metodo anarchico per sondare l’alchimia delle masse; preferendo affidarsi alle immagini, ai simboli, alle narrazioni, l’autore zigzaga tra i vari saperi che spaziano dalla sociologia alla antropologia, dalla psicologia alla mitologia, dalla storia alla filosofia alla etologia. Si analizzano aggregati dell’umano sentire come la pioggia, il vento, il mare, la sabbia,le feste le epidemie e da qui ricavarne assunti per approdare alla validità della massa sull’individuo.

muta di guerraE’ vero, questo è un lavoro che ha assillato l’autore per oltre trent’anni elaborando un’ossessione nata in gioventù all’età di 17 anni quando al giovane Canetti studente a Francoforte nel 1922 capita di assistere a una manifestazione di protesta contro l’assassinio di Walter Rathenau (ministro della repubblica di Weimar) grande intellettuale liberal-progressista ebreo, ammazzato da sicari dell’estrema destra. Quella fiumana di persone che protestano sprigiona in Canetti un magnetismo che mai più lo abbandonerà:

“Mi sarebbe piaciuto essere uno di loro, non ero un operaio, eppure quelle grida mi toccavano come se lo fossi. Il ricordo di quella manifestazione rimase vivissimo in me. Non riuscivo a dimenticare l’attrazione fisica, il violento desiderio di partecipare”.

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9 Maggio, 2013

Francescomaria Tedesco, Kafka il dio delle talpe

by gabriella

Talpa europaea“Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati”.

Così Elias Canetti traduceva in un lampo di antropologia filosofica l’interpretazione di un sogno che Franz Kafka diede per Felice, nel quale le spiegava che se non si fosse sdraiata non sarebbe sopravvissuta all’‘angoscia della posizione eretta’, così la chiama Kafka. Sdraiarsi per terra in mezzo agli animali significa non solo ‘scendere dal livello umano a quello bestiale, ma non rappresentare più un bersaglio facilmente individuabile. La posizione eretta è la posizione del potere, ma è anche (o forse proprio per questo) la posizione della vulnerabilità. Kafka usava, nella sua relazione con il potere, questo escamotage: farsi piccolo piccolo, immedesimarsi con gli esseri più minuscoli, oppure fare della propria magrezza lo stigma della sua resistenza, o sarebbe meglio dire ostinatezza.

In una lettera a Max Brod del 1904, Kafka ventunenne descrive l’incontro tra lui e il suo cane, e una talpa. Il cane, incuriosito dalla talpa, le saltava addosso. La talpa terrorizzata emetteva un sibilo, uno ‘cs, css’. Secondo Canetti, che riporta l’episodio in un breve testo tratto dall’Altro processo e di recente ripubblicato in Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione (Adelphi, Milano 2013), a un certo punto Kafka si immedesimerebbe nella talpa, rispondendo a quel suo modo di metamorfarsi in ciò che è piccolo:

“Cs, css, grida la talpa, e in virtù del suo grido lui, che sta a guardare, si trasforma in talpa, e senza dover temere il cane, che è suo schiavo, sente che cosa vuol dire essere talpa” (p. 43).

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16 Gennaio, 2013

Donatella Di Cesare, La lingua madre parlò la lingua della morte

by gabriella

heidegger

Come una specie di seconda pelle, che ci avvolge dal primo all’ultimo giorno, l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire. E’ la sola dimora che resta, malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo: una idea rassicurante. Per gli esuli, innanzi tutto, da Arendt a Améry, da Adorno a Canetti, da Anders a Celan. Ma è davvero così? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca ha investito gli ebrei dice il contrario. Se è vero che la lingua è matrice della ragione, allora condivide le colpe del nazismo

Non sentirsi a casa propria è per Heidegger, già in Essere e tempo, la peculiarità dell’uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera sull’«umanismo» del 1946, il filosofo tedesco dichiara:

La spaesatezza diviene un destino mondiale.

Ma l’assenza di patria, di Heimat, intesa soprattutto come esilio dalla verità, lascia aperta la domanda sul ritorno. Ci sarà ancora la possibilità, una volta perduto l’antico terreno, di trovarne uno nuovo? Si potrà recuperare l’origine, e la propria terra d’origine? La questione del «ritorno in patria» esplode però alla fine degli anni `40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi d’origine. Se la patria è la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione generale sull’esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell’esilio nell’età della mondializzazione.

Di quanta patria ha bisogno l’uomo?

– si chiede Jean Améry, pseudonimo francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz. La risposta che dà è ferma ma, nella sua fermezza, è conservatrice: l’uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto più bisogno quanto meno può portarne via con sé. La patria è il luogo d’origine insostituibile: «una nuova patria non esiste». Se l’esilio, sopportato perché temporaneo, è stato ed è – come direbbe Cioran – solo una «Città del Nulla», che cosa resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?

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16 Gennaio, 2013

Alessandra Sarchi, Architettura e fascismo

by gabriella

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Quale può essere il senso di tradurre e pubblicare in Italia oggi Della compattezza. Architetture e totalitarismi (traduzione Giacomo Raccis, Jaca Book 2012, pp. 73, euro 9), il saggio che il filosofo Miguel Abensour licenziò in Francia nel 1997 in aperta polemica con la riabilitazione in chiave culturale di Albert Speer, operata dal belga Léon Krier autore di una monografia sull’architetto del Führer?

La ragione principale potrebbe essere nel fatto che Della compattezza, delineando lo statuto tutt’altro che neutro dell’architettura all’interno di quella forma inedita di governo che fu il totalitarismo nazista, invita a riflettere sui meccanismi del consenso e su quelli della cancellazione di spirito critico non solo nel singolo bensì nelle masse. Un fenomeno che a ben pensarci ci tocca da vicino, anche se con altri mezzi. Siamo più di sette miliardi sul pianeta connessi da reti di scambio e di comunicazione, da interessi che scavalcano di molto i confini nazionali e i popoli, di fatto siamo oggi più che mai massa nell’accezione che Elias Canetti ha dato al termine nel saggio Massa e potere (1960).

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