Posts tagged ‘Arendt’

13 Maggio, 2014

Matteo Vescovi, Testificare le menti, banalizzare la scuola

by gabriella

Un intervento di Matteo Vescovi sulla relazione valutativa e i test INVALSI uscito su Carmillaonline. In coda l’inchiesta di Silvia Di Fresco sulla chiusura di una piccola scuola e l’esclusione di chi ha di meno nell’Italia dei tecnocrati.

Silvia e Matteo, insieme a Girolamo De Michele miei amici e colleghi, sono diventati un costante punto di riferimento della scuola pubblica italiana più attiva, le penne capaci di esprimere il meglio di ciò che siamo. Hanno già scritto insieme L’arrestabile ascesa della scuola delle competenze e non li ringrazierò mai abbastanza.

I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizzazione: lo studente è completamente prevedibile, e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi.

Heinz Von Foerster

Che dalla voce di un Ministro “tecnico” di un governo “tecnico” non potessero che uscire elogi nei confronti di uno strumento anch’esso “tecnico” di valutazione “oggettiva” degli apprendimenti dei nostri studenti, certo non poteva stupirci. Come non ci ha stupito sentirlo tessere l’elogio di un sistema di valutazione finalmente “moderno” ed europeo che basandosi sulle evidenze di questi test possa fornire ai decisori gli strumenti necessari per conoscere e intervenire nel sistema di istruzione nazionale. Come non ci ha stupito nemmeno la sede squisitamente “tecnica” (un convegno organizzato dalle Fondazioni San Paolo e TreeLLLe) in cui queste affermazioni sono state rilasciate per la prima volta dal Ministro ai mezzi d’informazione.

Cerchiamo, però, di prendere in considerazione anche alcuni aspetti sgradevoli, ma purtroppo necessari quando si ha a che fare con “obsoleti” esseri umani e non con moderne tecnologie d’avanguardia.

Alcune ovvietà sulla relazione valutativa a scuola

Cominciamo esaminando alcuni aspetti generali della relazione valutativa [1]. Aspetti che ogni insegnante conosce bene anche se spesso rimangono sottintesi alla sua attività didattica. È evidente infatti che, prima ancora di qualunque riflessione sugli obiettivi e sulle metodologie, prima ancora delle griglie e delle scale alfanumeriche o delle strategie di correzione che fanno il mestiere dell’insegnare, l’attività di valutare è parte fondamentale della relazione educativa.

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12 Novembre, 2013

Leonardo Daddabbo, Il potere

by gabriella

Oltre il Leviatano 1. Hannah Arendt, potere, relazione, azione

Una nuova visione della politica

“Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono” scrive Hannah Arendt in Vita activa (p. 147, edizione citata in bibliografia). Questa breve citazione è forse già sufficiente a spiegare la presenza di Arendt fra gli autori che hanno sperimentato, nella seconda metà del Novecento, nuovi modelli di pensiero politico. Il potere non è qui un comando proveniente dall’alto, ma un’attività generata dal basso, qualcosa che gli uomini fanno nascere agendo insieme. Ci troviamo di fronte a un pensiero che fonda la politica su elementi assai diversi da ogni precedente tradizione e afferma che la natura del politico può essere compresa solo ponendola in rapporto con la pluralità concreta degli uomini, con la loro capacità di stabilire relazioni, con le parole e le azioni che fanno apparire nel mondo qualcosa di nuovo. L’universo del Leviathan, fatto di obbedienza, rinuncia, autorità e gerarchia sembra quanto mai lontano.
Uno dei testi in cui questa impostazione si sviluppa è Vita activa (The human condition, 1958).

Vita activa

Nel termine ‘vita activa’ Arendt riassume le tre attività umane fondamentali: il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro è l’attività che produce i mezzi necessari a mantenere e riprodurre la vita. Il rapporto tra lavoro e vita è però di tipo ciclico: lavorare produce ciò che permette di vivere, ma una volta riprodottasi, la vita è nuovamente pronta al lavoro. La causa del processo ciclico risiede nel metabolismo dei processi vitali, che obbliga gli uomini a una continua attività il cui unico scopo è quello di alimentare un processo biologico che non può essere interrotto. In ultima analisi, il movimento logorante, ripetitivo e senza fine del lavoro dipende dal fatto che gli uomini hanno un corpo:

“il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo” (Vita activa, p. 81).

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18 Gennaio, 2013

Hannah Arendt, Alle origini de “La banalità del male”

by gabriella

arendt

Traggo dal Repertorio di fonti della Biblioteca di Filosofia e Storia dell’Università di Pisa, i link agli articoli scritti da Hannah Arendt per il New Yorker sul processo Eichmann.

Nel 1961 Hannah Arendt seguì a Gerusalemme il processo Eichmann come corrispondente del «The New Yorker» e fu sulle colonne di quel giornale che questo resoconto (scritto tra l’estate e l’autunno del 1962 e terminato nel novembre del medesimo anno mentre la Arendt era ospite del Center for Advanced Studies della Wesleyan Universty) uscì per la prima volta, nel febbraio e nel marzo 1963.

Esso fu poi ripubblicato in forma più ampia, come libro, nel maggio 1963, con il titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality od Evil (nelle edizioni in lingua italiana: La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme).

Negli archivi online del «The New Yorker» si possono leggere le cinque parti del resoconto del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann nella sua versione originale (cliccare sulla riproduzione delle pagine per ingrandire le immagini, l’attesa può durare anche un paio di minuti):

>> Parte prima

>> Parte seconda

>> Parte terza

>> Parte quarta

>> Parte quinta

16 Gennaio, 2013

Donatella Di Cesare, La lingua madre parlò la lingua della morte

by gabriella

heidegger

Come una specie di seconda pelle, che ci avvolge dal primo all’ultimo giorno, l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire. E’ la sola dimora che resta, malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo: una idea rassicurante. Per gli esuli, innanzi tutto, da Arendt a Améry, da Adorno a Canetti, da Anders a Celan. Ma è davvero così? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca ha investito gli ebrei dice il contrario. Se è vero che la lingua è matrice della ragione, allora condivide le colpe del nazismo

Non sentirsi a casa propria è per Heidegger, già in Essere e tempo, la peculiarità dell’uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera sull’«umanismo» del 1946, il filosofo tedesco dichiara:

La spaesatezza diviene un destino mondiale.

Ma l’assenza di patria, di Heimat, intesa soprattutto come esilio dalla verità, lascia aperta la domanda sul ritorno. Ci sarà ancora la possibilità, una volta perduto l’antico terreno, di trovarne uno nuovo? Si potrà recuperare l’origine, e la propria terra d’origine? La questione del «ritorno in patria» esplode però alla fine degli anni `40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi d’origine. Se la patria è la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione generale sull’esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell’esilio nell’età della mondializzazione.

Di quanta patria ha bisogno l’uomo?

– si chiede Jean Améry, pseudonimo francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz. La risposta che dà è ferma ma, nella sua fermezza, è conservatrice: l’uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto più bisogno quanto meno può portarne via con sé. La patria è il luogo d’origine insostituibile: «una nuova patria non esiste». Se l’esilio, sopportato perché temporaneo, è stato ed è – come direbbe Cioran – solo una «Città del Nulla», che cosa resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?

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