Posts tagged ‘Benjamin’

6 Marzo, 2019

Le comunicazioni di massa 2. I media elettrici ed elettronici

by gabriella

Seconda parte della lezione dedicata ai mass media. Qui l’introduzione e la trattazione dei media «alfabetici».

 

Indice

1. Un medium elettrico

1.1 Il cinema

 

2. I media elettronici

2.1 La radio

2.1.1 L’uso della radio del nazismo
2.1.2 L’uso della radio del fascismo
2.1.3 L’uso bellico e civile della radio durante e dopo la guerra

2.3 La televisione

2.3.1 Lettura: Massimo Panarari, Siamo ancora figli della trash TV

 

3. I New Media

3.1 La rete delle reti
3.2
La rivoluzione informazionale
3.2 Web is Us/ing, la rete siamo noi ma ci sta usando
3.3 I social media [in stesura]

 

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1. Un medium elettrico

1.1 Il cinema

Il cinema racconta storie

Narrazione in pietra a Notre Dame

Se la stampa è lo strumento, per eccellenza, dell’informazione e, per questo, il mezzo principale di costruzione dell’opinione pubblica nel XIX secolo, il cinema è la forma più diffusa di racconto ed è dunque veicolo di modelli culturali e luogo di creazione dell’immaginario sociale, con un’influenza ancora più profonda sui suoi pubblici.

Come mostrano le cattedrali gotiche, l’immagine è sempre stata il mezzo di comunicazione diretto al popolo analfabeta. Il suo potere comunicativo e seduttivo è quindi storicamente noto. Il cinema però unisce immagine e movimento, moltiplicando il potere seduttivo di questa forma di narrazione e facendone una forma di spettacolo.

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24 Settembre, 2017

Silvano Cacciari, Gilles Deleuze e l’immagine politica

by gabriella

Silvano

In questo saggio del 1996 – all’epoca l’abstract della sua tesi di DEA – Silvano proponeva un’archeologia dell’immagine politica dedicata ai meccanismi del nuovo regime di governamentalità che Deleuze chiamò «società di controllo». Il nostro illustrava l’ingegneria sociale che l’immagine in movimento è in grado di produrre, con l’obiettivo di aprire il varco a una nuova analisi della sfera pubblica, capace di svelare la formula della magia nera evocata dal capitalismo contemporaneo tra economia e politica, informazione e immagine seduttiva.

Quando la filosofia dipinge il suo grigiore nel grigiore una manifestazione della vita finisce il suo corso. E si tratta di una manifestazione che non si può ringiovanire ma solo conoscere.

Jean Luc Godard, Allemagne Neuf Zero, 1991

Punto uno. A ciascuno la sua magia nera
Punto due. Lo choc comunitaristico dell’immagine
Punto tre. Le società di controllo
Punto quattro. Immagine-movimento e immagine-tempo

 

Punto uno. A ciascuno la sua magia nera

Karl Kraus

Karl Kraus (1874 – 1936)

Benjamin

Walter Benjamin (1892 – 1940)

Walter Benjamin definì Karl Kraus «Angelus, messaggero di antiche incisioni» (1), all’interno di una serie di scritti (2), nei quali Kraus, definitivamente separato dalle mode del Ring viennese, appariva sia come il fulmine critico che inceneriva all’istante i bastioni della società dell’informazione sia come colui che apriva un varco per far passare un’antica forma di riscatto.

Ora, quest’antica forma di riscatto, che in Angelus Novus si serve dell’apporto discreto della metafisica «che è brutta e piccina e non vuol essere vista da nessuno»(3), ha dovuto seguire proprio il destino della metafisica: ridursi alla discrezione, mettersi al nascosto servizio di qualcuno e seguire un tacito patto di non nominarsi e di non far nominare il proprio nome.

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30 Luglio, 2015

Walter Benjamin, Processi per stregoneria

by gabriella
Walter Benjamin nel 1929

Walter Benjamin nel 1929

Il piccolo saggio Processi alle streghe (Procès de sorcières) è tratto dalla versione francese dei racconti radiofonici per ragazzi (Lumières pour enfants), realizzata da Walter Benjamin dal 1929 al 1932 per le radio di Berlino e Francoforte. L’intellettuale racconta con semplicità e raccapriccio la storia della repressione di maghi e streghe, sapienti e scienziati di un tempo in cui le scienze teoriche non erano ancora separate dalle scienze applicative o tecniche, il rinascimento appunto. Nel farlo rovescia il rapporto, oggi chiarito dagli storici, tra eresia e stregoneria trascurando, a vantaggio della scorrevolezza di un racconto per ragazzi, gli elementi di chiarificazione politica della caccia alle streghe. Traduzione mia.

Sono stati Hansel e Gretel a presentarvi la vostra prima strega. Come la vedevate? Una donna nel bosco, brutta e pericolosa che è meglio non incontrare. Non avete cercato di sapere se era dalla parte del diavolo o del buon Dio, da dove venisse, né cosa facesse o non facesse. Ebbene, la gente ha fatto come voi per secoli. In generale, credeva alle streghe come i bambini piccoli credono alle favole. Ma come i bambini, anche i più piccoli, non confondono la vita con le storie, le persone dei secoli passati non si sognavano di modellare la loro vita su questa convinzione.

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27 Marzo, 2013

Riccardo Antoniucci, Intervista a Marc Crépon su Jacques Derrida

by gabriella

JacquesDerridaDal Rasoio di Occam, l’intervista di Riccardo Antoniucci a Marc Crépon, direttore dell’École Normale Supérieure, a margine del convegno sul pensiero politico di Jacques Derrida, tenutosi ad Atene dal 24 al 26 gennaio 2013.

Professor Crépon, la prima domanda che vorrei porle, e che, trattandosi di una questione sul senso, non è aliena da una certa “bêtise”, riguarda proprio i due aggettivi con cui si è voluto qualificare il pensiero di Derrida durante questo convegno: “politico” ed “etico”. Possiamo tentare di chiarire meglio il nesso esistente tra il pensiero di Derrida e i campi descritti dai due termini. “Pensiero politico” e “pensiero della politica” non sono la stessa cosa, ovviamente. Eppure, di solito, un pensiero non è detto “politico” se non è anche riconosciuto, parallelamente, come “pensiero della politica”, o del politico. Cioè come pensiero delle condizioni e delle tecniche proprie all’azione politica in un contesto storico determinato. Per cui spesso la “filosofia politica” si riduce a una serie di riflessioni su problemi che sono posti dall’attualità della pratica di governo o dell’amministrazione della società. Tuttavia, questo parallelismo non sembra operativo nel pensiero di Derrida: la sua riflessione, senza essere stata “condizionata” da temi provenienti dal dibattito politico, li ha piuttosto “rilanciati”, riverberati, in un’altra forma; addirittura, in alcuni casi, li trasformati, passandoli al filtro del suo singolare approccio filosofico. Per esempio, ha rilanciato il problema della democrazia attraverso il concetto di ospitalità. Insomma, il pensiero di Derrida si presenta come un caso singolare di pensiero. che non è un pen siero della politica. La sua battaglia, dunque, si muove piuttosto nell’elemento della filosofia politica oppure della “politica della filosofia”, che non si interessa delle pratiche concrete di governo?

Marc Crépon – È vero che nell’opera di Derrida non si trova una riflessione sviluppata intorno alle forme di governo. Eppure, la possibilità di qualificare il suo pensiero come “politico” è innegabile, a dispetto di tutte le riserve che impone l’idea stessa di “qualificazione” in generale. Ed è innegabile almeno per due ragioni. La prima è che, se è vero che, a partire dai tre grandi libri del 1967 (1), uno dei fili conduttori del suo pensiero è stata la decostruzione del soggetto sovrano, era allora inevitabile che Derrida incrociasse la questione della sovranità in sé, nella sua accezione politica.

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19 Marzo, 2013

Agamben, Elogio della profanazione

by gabriella

Giorgio_AgambenIn questa potente indagine genealogica del sacro, Agamben demistifica il significato della religione, mostrando come essa non sia affatto ciò che lega l’umano e il divino (religio), ma al contrario, ciò che li tiene separarati (relego). Nella sua analisi, il frammento su capitalismo e religione di Walter Benjamin contenuto nelle Tesi sul concetto di storia, serve a precisare la natura del capitalismo, inteso non tanto – come voleva Max Weber – come un gigantesco processo di secolarizzazione del numinoso, ma come un fenomeno religioso esso stesso, nato all’interno del cristianesimo e divenutone poi il parassita.

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13 Marzo, 2013

Eleonora de Conciliis, Walter Benjamin. Capitalismo e religione

by gabriella

angelo benjaminianoTraggo dal portale di Kainos questo articolo sul frammento benjaminiano del “capitalismo divino” contenuto nell’edizione italiana delle Tesi sul concetto di storia (Einaudi, 1997, pp. 284-287).

Il bisogno e il lavoro, sollevati a[ll’]universalità,
formano… un immenso sistema di… dipendenza reciproca;
una vita del morto moventesi in sé.

Hegel, Filosofia dello Spirito jenese

Premessa

Da qualche anno in Italia gli studiosi hanno riscoperto, o meglio si sono accorti dell’esistenza di un frammento che Walter Benjamin scrisse con ogni probabilità nel 1921, e che è apparso in traduzione italiana nel 1997, insieme ai materiali preparatori per le celebri Tesi sul concetto di storia del 19401. Un po’ come è accaduto a queste ultime a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, una volta ripubblicato da Editori Riuniti in una nuova raccolta e con una nuova traduzione2, il frammento, cui si è deciso di dare il titolo Capitalismo come religione, è stato per così dire sur-interpretato, divenendo anche per i non specialisti del filosofo una sorta di vademecum teorico, se non profetico, attraverso cui ripensare l’attuale assetto dell’economia politica occidentale.

Si tratta di uno scritto scarno e talora criptico, poco più di un appunto esteso con le indicazioni dei testi di riferimento, com’era nello stile di Benjamin, e che sembra tuttavia prestarsi a un facile lavoro di decodifica concettuale, poiché rinvia, da un lato, a due pietre miliari del pensiero politico e sociologico moderno (Marx e Weber), dall’altro a due critici radicali della metafisica (Nietzsche e Freud), con la quale Benjamin, negli anni dieci e venti, intratteneva ancora rapporti assai stretti.

Il détournement di queste pagine dal loro specifico contesto teorico – cioè la loro estrapolazione rispetto al tentativo, compiuto da un giovane Benjamin ancora influenzato da Bloch e lettore di Schmitt (la Teologia politica è del ’22), di analizzare in termini originalmente politico-religiosi l’eclissi dell’escatologia giudaico-cristiana e la sua moderna metamorfosi nichilistica3 – ha portato gli interpreti a valorizzare quella che sembra essere la principale e geniale intuizione contenuta nel frammento e lanciata ai posteri con straordinario anticipo sui tempi, ovvero la descrizione del capitalismo come religione di puro culto, dunque senza contenuti trascendenti e senza dogmi, capace di parassitare il cristianesimo e di prenderne il posto, non attraverso una deriva (la secolarizzazione weberiana), bensì grazie a un’inquietante metamorfosi, come sintetizza efficacemente lo stesso Benjamin:

Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo.4

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13 Marzo, 2013

Walter Benjamin, Capitalismo e religione

by gabriella

Benjamin

Due saggi, di Giorgio Agamben e Giorgio Fontana, sul frammento benjaminiano Capitalismo e religione.

Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.

Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:

1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha signigicato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.

2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.

3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa.

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16 Gennaio, 2013

Donatella Di Cesare, La lingua madre parlò la lingua della morte

by gabriella

heidegger

Come una specie di seconda pelle, che ci avvolge dal primo all’ultimo giorno, l’idioma materno non si può tradurre e non si può tradire. E’ la sola dimora che resta, malgrado la spaesatezza dell’uomo nel mondo: una idea rassicurante. Per gli esuli, innanzi tutto, da Arendt a Améry, da Adorno a Canetti, da Anders a Celan. Ma è davvero così? L’estraneità e l’ostilità con cui la lingua tedesca ha investito gli ebrei dice il contrario. Se è vero che la lingua è matrice della ragione, allora condivide le colpe del nazismo

Non sentirsi a casa propria è per Heidegger, già in Essere e tempo, la peculiarità dell’uomo moderno. Subito dopo la guerra, nella famosa Lettera sull’«umanismo» del 1946, il filosofo tedesco dichiara:

La spaesatezza diviene un destino mondiale.

Ma l’assenza di patria, di Heimat, intesa soprattutto come esilio dalla verità, lascia aperta la domanda sul ritorno. Ci sarà ancora la possibilità, una volta perduto l’antico terreno, di trovarne uno nuovo? Si potrà recuperare l’origine, e la propria terra d’origine? La questione del «ritorno in patria» esplode però alla fine degli anni `40, quando comincia il rientro degli emigrati nei paesi d’origine. Se la patria è la Germania, e gli esuli sono ebrei, la questione diviene conflittuale, ma anche perspicua, e offre lo spunto per una riflessione generale sull’esilio. Nella diaspora ebraica, prima e durante la Shoah, si comincia a vedere prefigurata la condizione umana dell’esilio nell’età della mondializzazione.

Di quanta patria ha bisogno l’uomo?

– si chiede Jean Améry, pseudonimo francese per il tedesco Hans Mayer, nel suo libro Intellettuale a Auschwitz. La risposta che dà è ferma ma, nella sua fermezza, è conservatrice: l’uomo ha bisogno di molta patria, e ne ha tanto più bisogno quanto meno può portarne via con sé. La patria è il luogo d’origine insostituibile: «una nuova patria non esiste». Se l’esilio, sopportato perché temporaneo, è stato ed è – come direbbe Cioran – solo una «Città del Nulla», che cosa resta agli esuli, espatriati, privati dal nazismo della loro origine?

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31 Agosto, 2012

Giorgio Agamben, Crisi e tempo presente.

by gabriella

agambenDue interventi di Giorgio Agamben su crisi, presente e futuro.

Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche? 

“Crisi” e “economia”  non sono oggi usati come  concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi”  dura ormai  da decenni e  non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.

Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità,  una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro.

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1 Gennaio, 2012

La Spoon River dei grandissimi

by gabriella

Carlo Michelstaedter

Si è detto di lui che si suicidò per ragioni filosofiche, nel 1910, all’età di 23 anni. Il giorno dopo doveva sostenere la sua tesi di laurea in filosofia all’Università di Firenze: la stanchezza, la depressione, la convinzione che nessuno l’avrebbe capito, lo sprofondarono nella vertigine. E’ stato il filosofo della mia giovinezza: la mia tesi di laurea trattava della sua.

 

Vladimir Majakovskij

Orfano a sette anni, con un’infanzia difficile alle spalle, il poeta era stato un appassionato sostenitore della rivoluzione russa e aveva messo la sua arte al servizio di questo ideale. Si suicidò nel 1930, uscendo da una rottura sentimentale. Nella sua lettera di commiato scrisse:

«A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia e’ Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio.[…] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si e’ spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici».

 

Virginia Woolf

Le sue frequenti crisi depressive si erano aggravate con la guerra. Temendo di impazzire, si tolse la vita nel 1941, lasciandosi cadere nel fiume vicino a casa, con le tasche piene di sassi. Lo spiegò al marito con queste parole:

«Sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che chiunque avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se chiunque avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V».

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