Erasmo Modica, Sulla matematica al liceo: l’immaginazione è più importante della conoscenza. Ana Millan Gasca, I falsi miti che hanno oscurato il cervello dei nostri piccoli matematici

by gabriella

matematicaL’articolo di un collega di matematica che vorrebbe utilizzare l’insegnamento della sua disciplina per formare il pensiero piuttosto che per annoiare adolescenti.

Queste riflessioni prendono spunto da una lettera inviata all’ex Ministro dell’Istruzione Gelmini da parte di un collega e apparsa sul sito OrizzonteScuola. In tale lettera vengono avanzate delle proposte circa un possibile cambiamento della prova stessa, per renderla, secondo lo scrivete, più vicina agli “standard” degli alunni.

È certamente vero che la prova degli Esami di Stato mette in crisi anche studenti brillanti, ma bisognerebbe effettuare un’attenta analisi del perché questo accada. Innanzitutto i candidati che affrontano l’esame sono degli studenti di Liceo, che terminano quindi il ciclo di studi liceale, che ha delle ben precise finalità educative. Tali finalità sono molto diverse da quelle degli studenti universitari e, nello specifico, molto differenti dagli obiettivi che si vuol far conseguire a un alunno che affronta lo studio dell’Analisi Matematica 1 nelle Facoltà in cui l’insegnamento della disciplina è previsto.

Per quale ragione l’Analisi Matematica 1 deve essere considerata la naturale evoluzione del percorso liceale e non ci si debba dedicare alla Geometria o all’Algebra astratta? Qual è la naturale evoluzione del percorso liceale di uno studente che sceglie di frequentare un Corso di Laurea umanistico? È corretto formare delle calcolatrici? Oppure delle menti pensanti?È a mio avviso giusto ripensare a una formulazione più idonea della prova di Matematica, più vicina alle finalità educative del percorso liceale, ma ritengo fuorviante ed educativamente scorretto l’operato di chi sia convinto che l’Analisi si possa ridurre al semplice calcolo di forme indeterminate, all’applicazione di regole di derivazione e metodi di integrazione! Esercizi di puro calcolo mettono in evidenza la conoscenza delle tecniche e delle capacità di calcolo.

Come rilevare le capacità di astrazione, argomentazione, interpretazione, traduzione e modellizzazione? Facciamo perdere agli allievi ben cinque anni della loro vita, insistendo su qualcosa di poco utile e che poi sarà verificata con quattro esercizietti veloci agli Esami di Stato?

Addestrare gli allievi alla risoluzione di esercizi in stile Analisi 1, fa sì che si deprivi la Matematica “liceale” della sua valenza fondamentale nella formazione del cittadino! La comunità matematica, ossia le associazioni che si occupano di Didattica (UMI, Mathesis, AniMat, etc.), ha impiegato tantissimo tempo e ha tanto faticato per dare ai docenti la possibilità di utilizzare delle attività didattiche scritte ad hoc su argomenti inerenti al curricolo. Queste attività, si vedano a titolo di esempio quelle che sono raccolte sotto il nome MATEMATICA 2003, sono degli ottimi spunti per una didattica alternativa della matematica e sottolineano l’importanza della disciplina nei fenomeni tratti dall’esperienza quotidiana! Dobbiamo quindi cestinare tutto il lavoro fatto dall’UMI e dalle altre associazioni? Perché torturare tutti gli alunni con la risoluzione di problemi se alla fine basta che conosca delle semplici regolette, vedasi la razionalizzazione del denominatore di una frazione, per la risoluzione di una “meccanicissima” forma indeterminata?

In fin dei conti, volendo fare una paradossale analisi della situazione, i candidati potrebbero affrontare i quesiti dell’esame nuovo in “Calculus Style” senza mai studiare la geometria euclidea? Ma perché imparare a dimostrare? Perché torturare questi poveri ragazzi con tutta quella geometria razionale? In fondo, il Teorema di Pitagora non serve per le forme indeterminate, né per trovare le primitive di una funzione. O forse sarebbe il caso di iniziare a fare Analisi Matematica già dal terzo anno, cambiando totalmente approccio e convertendoci all’Analisi non standard? In questo modo basterebbe una buona conoscenza di algebra, quattro regolette e addio all’astruso concetto di limite! In questo modo l’algebra diventerebbe sovrana, rubando forse il posto alla classica e tanto amata Analisi del Quinto Liceo Scientifico!

Ribadisco che snellire il linguaggio non significa depauperare la matematica della sua valenza altamente formativa! Inoltre, rischieremmo di cadere nel classico errore dell’insegnamento della Matematica fine a se stessa e tanto odiata dagli alunni, togliendo completamente spazio alla Matematica Applicata. Proprio a quest’ultima dovrebbe essere dato un fortissimo risalto, per far sì che gli allievi comprendano che forse la disciplina serve a qualcosa nella vita! È inconcepibile tornare indietro nel 2012!

Non ritengo corretto affermare che il linguaggio utilizzato nei Temi d’Esame sia un linguaggio “da indovinello”, ma piuttosto capita spesso che noi insegnanti non riusciamo a far sì che gli allievi si applichino nella modellizzazione e traduzione dal linguaggio naturale a quello simbolico.

Non voglio essere né concreto né propositivo, quindi non allegherò alcun tipo di proposta di Tema d’Esame, confidando fortemente nelle capacità critiche e nelle competenze dei tecnici preposti alla redazione della prova stessa! I problemi della prova sono altri, ne ho abbondantemente discusso in un post pregresso su Matematica OrizzonteScuola, bisognerebbe rivederne i contenuti nella maniera più consona agli allievi, non impoverirla e ridurla a mero calcolo!

Per sentire la campana di chi sta al di fuori, ho chiesto il parere di Antonia Travaglione, docente universitario di Analisi Matematica 1, che gentilmente ha scritto quanto di seguito proporrò e che ringrazio vivamente per il tempo che ha dedicato nella stesura di queste righe.

«E’ fuor di dubbio che i prerequisiti richiesti dalle facoltà scientifiche in ingresso diventano, di anno in anno, sempre più lontani dalle nozioni che gli studenti hanno appreso al liceo e che l’assenza di raccordo disorienta non poco questi ultimi, tuttavia, a mio avviso, ridurre i quesiti proposti agli esami di Stato agli esempi riportati dal collega nella lettera al Ministro, mi sembra davvero riduttivo. A breve, infatti, che io sappia dall’anno scolastico 2012-13,sarà consentito usare agli esami la calcolatrice grafica che propone, in tutti i tipi già in commercio, il calcolo numerico, il calcolo integrale-differenziale, le operazioni matriciali e vettoriali, il calcolo di numeri complessi, etc., il tutto per adeguarsi ai paesi europei che ne consentono l’uso ormai da anni; dunque anche i quesiti proposti in alcune facoltà scientifiche, non tutte, simili agli esempi riportati nella lettera, vanno assolutamente riformulati.

Mi viene in mente ciò che già vari anni fa Gabriele Lolli scriveva nel suo bel libro Il riso di Talete: “Ragiona, non perderti nei calcoli! Non lasciarti legare dai dati, ma allarga lo sguardo; vola sopra piuttosto che percorrere il labirinto; cerca una strategia invece di applicare ciecamente le regole. Quello che bisogna evitare con la matematica è proprio la matematica”.

Allora, se la tecnologia ci libera sempre più dei calcoli, a maggior ragione, va posto l’accento sullo sviluppo del pensiero critico, della creatività, dell’elaborazione di concetti e della capacità argomentativa, evitando la “fossilizzazione monodirezionale dell’intelligenza”.

Agli Esami di Stato i quesiti devono essere impostati in maniera da calibrare le difficoltà, ma soprattutto devono richiedere vie di risoluzione non uniche che permettano strategie personali e, prescindendo da calcoli laboriosi, diano spazio a un impegno espositivo teso a chiarire ed argomentare la motivazione della scelta operata. Non credo che ciò non sia avvenuto nel passato, tanto che qualche quesito proposto lo scorso anno da cui sembrava trasparire una certa vicinanza alla tipologia delle prove Invalsi, mi ha trovato fortemente critica perché, a mio avviso, sulla validità delle prove Invalsi ci sarebbe molto da discutere, ma non mi sembra questa la sede per farlo.

Vorrei, poi, sottolineare che in una società in cui la flessibilità del lavoro diventa una necessità per effetto di mutamenti molto rapidi nelle tecnologie, ai giovani vengono richieste sempre più capacità multiple ed integrate per adattarsi con efficienza al nuovo, dunque si deve sempre più dare spazio alla visione interdisciplinare ovvero alla cosiddetta “quarta cultura”, cioè al dialogo tra la cultura scientifica e le scienze umane, sociali ed artistiche. D’altra parte già De Finetti, per definire la natura soggettiva della probabilità, ebbe a servirsi di un passo di “Uno, Nessuno, Centomila “ di Pirandello ed il conte Monaldo sottoponeva ogni anno i due figli maschi alla prova di algebra e geometria.

Dunque io auspico sempre più quesiti aperti e temi pluridisciplinari che consentano allo studente bravo di evidenziare il tipo di organizzazione che ha dato alle sue conoscenze.

Infine mi sembra indispensabile porre l’accento sulle motivazioni storiche che hanno portato i matematici, fin dai tempi dei Greci, ad affrontare alcuni problemi, cercandone la soluzione anche per secoli, “provando e riprovando” e talvolta non l’hanno trovata, e penso a Jeans Dieudonné il quale scriveva che “non è possibile capire la matematica contemporanea se non si ha almeno un’idea sommaria della sua storia”, dunque i quesiti come quello sulla quadratura del cerchio mi sembrano più che idonei a misurare quella che un tempo veniva chiamata, più propriamente, prova di maturità: sarebbe bastato che qualcuno avesse insegnato allo studente che anche in matematica sarebbe opportuno usare il vocabolario di italiano e che la derivata e la primitiva hanno lo stesso significato del nome primitivo e derivato in grammatica.

Ma qualcuno glielo aveva mai detto?

Se alcuni docenti si ostineranno ad assegnare un rosario di esercizi meccanici e ripetitivi senza dare spazio all’immaginazione e alla creatività, non faranno che favorire, giustamente, nello studente l’avversione per la disciplina e noi non potremo che ancora parafrasare Dieudonné: “la Matematica è progredita, ma, a parte i matematici, quasi nessuno se n’è accorto e la scuola superiore mette in contatto gli studenti con concetti tutti anteriori al 1800”.

D’altronde anche un famoso economista sosteneva che la ripetizione pigra non aguzza l’ingegno.

Quanti sono, statisticamente, gli studenti che, alla fine del liceo scientifico odiano la matematica e come mai i ragazzi che hanno frequentato il liceo classico, per mia diretta esperienza, spesso raggiungono risultati molto brillanti nelle discipline scientifiche?

Qualche docente se lo è mai chiesto?

Io, come Einstein, preferisco pensare che “l’immaginazione è più importante della conoscenza”.

Sulla seconda prova scritta di Matematica del Liceo Scientifico…quali cambiamenti?

Ana Millàn Gasca, I falsi miti che hanno oscurato il cervello dei nostri piccoli matematici

Riporto questo bellissimo articolo sul declino della matematica in Occidente (suggerito dal mio Tutor LIM) apparso su Il sussidiario.net, al quale il titolo non rende giustizia. Si tratta della stupefacente ricerca condotta da una ricercatrice cinese che dimostra la circolazione di saperi da Occidente a Oriente e certifica il declino della conoscenza matematica nella scuola occidentale. Leggendolo, sembra di rivedere lo stesso meccanismo che permise all’Europa, dopo le invasioni barbariche e il crollo dell’impero romano, di rientrare in possesso delle proprie conquiste culturali attraverso la cura sapiente degli arabi, salvo però che stavolta il declino non è stato prodotto da nessuna grande catastrofe, salvo la distruzione della scuola nei paesi del libero mercato.

L’anno scorso è stata pubblicata negli Stati Uniti un’edizione “commemorativa”, a dieci anni dalla prima edizione, di un piccolo libretto scritto da una studiosa cinese, Liping Ma, su un argomento all’apparenza soltanto per pochi addetti ai lavori, ossia un confronto fra la comprensione della matematica elementare da parte dei maestri cinesi e da parte dei maestri statunitensi. Eppure il libro, che in origine era la tesi di dottorato di Ma (Knowing and Teaching Elementary Mathematics, Routledge), ha avuto un grande successo, anzi è intervenuto come un grande scossone in mezzo al già accesissimo dibattito sull’insegnamento della matematica che è in corso negli Stati Uniti – al punto che si parla di “math wars” – e per un momento è sembrato mettere d’accordo tutti, sottoponendo all’attenzione pubblica una situazione veramente drammatica.

La divisione tra coloro che promuovono la trasformazione radicale dell’insegnamento tradizionale all’insegna del “non lasciare nessuno indietro”, della scuola che “accoglie” e “facilita” e coloro che rivendicano invece la validità delle forme classiche dell’insegnamento della matematica (sforzo, spirito di superamento di sé stessi con un lavoro assiduo) è sembrata di secondaria importanza quando, con la sua ricerca, Ma ha messo il dito nella piaga di un problema critico del sistema educativo americano: i maestri americani (che da anni sono formati nei “college of education”) semplicemente non conoscono la matematica.

Sottoponendo alcune questioni di matematica elementare – e del suo insegnamento ai bambini – ad un gruppo di insegnanti americani di esperienza ed età diversa, la diagnosi è stata impietosa: i maestri americani, pur animati dalle migliori intenzioni nei confronti dei loro piccoli alunni, hanno mostrato di non conoscere le formule dell’area e del perimetro di un rettangolo, di non sapere che l’algoritmo in colonna della moltiplicazione sfrutta la proprietà distributiva della moltiplicazione, di essere incapaci di calcolare la divisione 1(3/4):(1/2), di non avere cognizione della “rete di nessi logici” (per usare l’efficace espressione del matematico francese Laurent Lafforgue) che rende così fondamentale la matematica della scuola di base.

Liping Ma è stata maestra per anni in Cina prima di laurearsi in scienze dell’educazione nel suo paese e poi ottenere il dottorato presso la Stanford University; l’efficacia della sua ricerca risiede nella sua capacità di individuare una serie di quattro “scenari”, come lei li chiama, dove si incontrano alcuni aspetti prettamente matematici (la base teorica degli algoritmi in colonna, le operazioni con frazioni e decimali, la idea di decomposizione e di rappresentazione aritmetica, le formule di aree e perimetri) con alcuni aspetti didattici (insegnare una procedura, confrontarsi con l’errore da parte dei bambini, saper collegare un concetto matematico con un esempio concreto, sviluppare nei bambini lo spirito di indagine e il “fare da sé”).

Il secondo merito del libro è che l’autrice, con coraggio intellettuale in questi tempi di grandi numeri, invece di condurre un’indagine a tappeto con metodi statistici, ha avuto il coraggio di collocare un gruppo piccolo di maestri in questi scenari, porre loro delle domande e registrare la loro riflessione: sia sul versante americano, sia su quello cinese, emerge un racconto efficace e profondamente umano, che non a caso ha suscitato un grande interesse. La domanda che si pone allora, urgente, è: come rimediare una tale situazione? Può servire l’esempio cinese? Con il libro di Ma si ripropone, nel livello dei maestri, il confronto che le indagini internazionali sul rendimento degli studenti degli ultimi anni hanno stabilito tra studenti di diversi paesi, mettendo in risalto in particolare il “successo” degli alunni orientali. Tuttavia, le indagini statistiche sono inficiate da un’enormità di rischi: come sono scelte le domande dei test? Come sono preparati i bambini e ragazzi al momento di affrontare il test? Che valore ha un test per capire veramente quanto conosce e ha assimilato un allievo la matematica? L’approccio umanista di Ma apre invece la strada a una riflessione storica e culturale.

Si è di fronte a un paradosso veramente notevole. Come scrive l’autrice nella sua prefazione per questa edizione, oggi può sembrare difficile crederlo, ma cent’anni fa i cinesi scrivevano i numeri usando la scrittura cinese (quindi in verticale e senza il principio per cui la posizione dei simboli indica se si tratta di unità, decine, centinaia e così via) e “facevano di conto” usando l’abaco. E fu proprio uno statunitense, il missionario Calvin Wilson Mateer, l’autore del primo sussidiario sul “calcolo con carta e penna” ampiamente usato in Cina nel periodo, a cavallo del 1900, in cui il paese abbandonò l’aritmetica tradizionale cinese nell’alfabetizzazione numerica dei bambini.

Mateer scrisse un libro pensato con intelligenza per suscitare l’interesse in Cina, adattando i classici problemi “pratici” dei sussidiari di aritmetica alla vita quotidiana del paese. Nel contempo, egli usufruì della tradizione europea di alfabetizzazione numerica dei bambini, che aveva raggiunto alla fine dell’Ottocento una grande maturità. Questa tradizione deriva direttamente dall’insegnamento della matematica pratica nelle scuole d’abaco italiane del tardo medioevo, ed è un esempio straordinario di continuità culturale contrassegnata da profonde innovazioni che sono il frutto del dinamismo culturale europeo. Le innovazioni sono state portate sia dal desiderio di diffondere l’istruzione a strati sempre più larghi della popolazione, sia da una maggiore attenzione al mondo dei bambini, al loro modo di ragionare e alla loro maturazione, e infine anche da una comprensione più profonda da un punto di vista teorico della natura dei concetti di base della matematica, il numero da una parte, gli oggetti astratti della geometria dall’altra. Di conseguenza, attorno al 1900, l’aritmetica di base era considerata, oltre che un insieme di nozioni utili, una degna e fondamentale porta di ingresso dei fanciulli alla cultura.

Così, la cultura matematica dei maestri cinesi, che ha tanto colpito i lettori contemporanei americani del libro di Ma, in realtà non è altro che un’eredità culturale occidentale, ricevuta dalla Cina di oggi: la “comprensione concettuale della matematica elementare”, scrive Ma, “illustra semplicemente la comprensione da parte dei maestri cinesi del sistema ragionato per l’aritmetica sviluppato da autori europei e statunitensi”.

L’autrice non tenta una spiegazione del paradosso che descrive in modo così efficace. Si tratta del risultato disastroso di un’evoluzione che uno studioso europeo dell’insegnamento della matematica, Florian Cajori, buon conoscitore della scuola americana, aveva già previsto all’inizio del Novecento. Infatti, proprio nel momento in cui la tradizione europea – nella quale si iscriveva pienamente la scuola primaria americana – aveva raggiunto quel traguardo della matematica elementare come formazione della mente dei bambini, era già in atto una frattura che avrebbe radicalmente messo in discussione e scardinato tale tradizione, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

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