La relazione tra buone maniere e disciplinamento, corpi docili e ordine sociale ne Il mantra della sobrietà ai tempi di Mario Monti, da L’Indice dei libri.
C’è qualcosa di sinistro nel mantra della sobrietà. La buona educazione, le buone maniere sono un modo di disciplinare la società, di rendere il corpo sociale più docile e più malleabile, più addomesticato. La storica Luisa Tasca ha studiato il fenomeno in relazione ai codici di comportamento nell’Ottocento:
essi fornirono alle élites dell’Italia risorgimentale e postunitaria schemi per ordinare il corpo sociale secondo modelli più gerarchici che democratici, più equitari che egualitari, più classisti che abilitanti alla mobilità sociale, più disciplinanti che non fiduciosi nel libero protagonismo della società civile (L. Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell’Italia dell’Ottocento, Le Lettere, Firenze 2004, p. 17).
La buona educazione serviva a comporre il conflitto sociale, rendendo i subalterni remissivi e non contestativi: che le masse operaie sapessero qual era il posto che gli spettava nella società.
Per essere beneducati bisogna: non mettere i gomiti sulla tavola, camminare senza fare sporgere le scapole e senza ancheggiare, tenere in dentro il ventre, mangiare senza far rumore, non soffiare, non sbuffare, tenere la bocca chiusa, ecc., cioè tappare e limitare il corpo in ogni maniera, smussare i suoi spigoli (M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001, p. 353).
Michail Bachtin ci narra del valore contestativo del carnevale rabelaisiano: il basso corporeo che serve ad annunciare un mondo nuovo, rovesciato, in cui le volpi dicono messa, gli asini cavalcano gli uomini e i buoi macellano i beccai, in cui la merda e i peti servono a descrivere un mondo capovolto che rinasce. Disciplinare quel mondo significava reprimere il corpo e con esso il valore rivoluzionario che esso aveva nei confronti del potere costituito (la Chiesa in primis, ma anche il potere politico). Si trattava di ricondurre il grottesco nell’alveo della normalità, e riportare i contadini dalla crapula al duro lavoro (sia detto per inciso: quel grottesco cinquecentesco, gioioso e rigeneratore, niente ha a che vedere con il grottesco cupo del Settecento: anche in Sade c’è tanta merda, ma il clima libertino delle 120 giornate ha sole l’odore mefitico della morte, oltre che degli escrementi).
E non è forse il progetto della modernità quello di disciplinare il corpo e di risolvere il dilemma del rapporto tra Natura e Cultura? Non è forse iscritto nel codice genetico della modernità il compito di trasformare l’eteronomia in una sorta di eteronomia però in interiore homine, innestata direttamente nel cuore di ogni uomo e non fuori di esso? È quello che il giovane Hegel rimprovera a Kant, ed è quello che Marx rintraccia, in qualche misura, in Lutero (l’aver tolto i preti e aver innestato un prete nel cuore di ogni uomo).
Insomma, educare affinché si sappia da sé come si sta in società: sobri, composti, senza gomiti sulla tavola, senza dita nel naso. I galatei dell’Ottocento di cui ci riferisce Tasca sembrano quasi vademecum per i sindacalisti scritti dal governo:
Avvi un indicatore infallibile del benessere delle nazioni; è il grado di rispetto e di civiltà che esiste nelle relazioni tra operai e padroni.
Naturalmente, è superfluo ricordare chi dovesse decidere qual era questo grado di rispetto e civiltà, e in cosa consisteva. I padroni erano buoni e paterni, e gli operai come figli (può un figlio ribellarsi all’autorità paterna, tanto più quando il padre è così buono, modesto, sobrio? “i bambini buoni non devono disubbidire al loro papà”, cantava Corrado), dovevano essere sobri e apparire tali, ché sembrare più ricchi di quanto non si fosse era disdicevole e menzognero. Che i poveri vestano da poveri. Niente da dire, invece, se i lupi si travestono da agnelli e se i ricchi si fingono uguali ai poveri (“Il presidente-operaio”, “uno di voi”).
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