Homo sapiens, la filogenesi umana

by gabriella

Homo sapiens

Indice

1. La filogenesi della specie Sapiens del genere Homo
2. La Rift Valley
3. Il genere Homo
4. Out of Africa
6. L’evoluzione del cervello umano

6.1 Conclusioni: encefalizzazione, linguaggio e cultura negli ominidi

 

6.2 Cavalli Sforza, Evoluzione culturale ed evoluzione biolog
6.3 Homo sapiens. La grande storia della diversità umana

1. La filogenesi della specie Sapiens del genere Homo

L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo – una fune sopra l’abisso.
Pericoloso l’andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via,
pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l’arrestarsi.
Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere un ponte, non una meta:

ciò che si può amare nell’uomo è l’essere una transizione e un tramonto.

Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

La vita sulla terra è iniziata circa 4 miliardi di anni fa. I primi mammiferi compaiono intorno a 200/250 milioni di anni fa, mentre l’esistenza di mammiferi bipedi con caratteristiche umane è datata 6 milioni di anni fa. 

Si ipotizza, infatti, che tra i 7 e  5 milioni di anni fa, sia vissuto in Africa l’antenato comune tra la nostra specie e gli scimpanzé del quale non abbiamo ancora testimonianze fossili. L’uomo, quindi, non discende dalla scimmia, ma ha un antenato in comune con essa vissuto in un passato relativamente recente.

Il più antico ominide in grado di camminare eretto è Sahelanthropus tchadensisi cui frammenti fossili ritrovati in Ciad risalgono a circa 7 milioni di anni fa, prima della separazione evolutiva del genere Homo e il genere Pan, gli scimpanzé.

Ricostruzione al computer del volto di Lucy, scimmia australe della regione di Afar

Nell’arco di tempo che va dai sei milioni ai 200.000 di anni fa, sono vissute in Africa – poi negli altri continenti – molte specie di ominidi, tra i quali il celebre Australopithecus Afarensis (Lucy), datato 3 milioni e 200.000 anni fa (gli Afarensis sono comparsi 4 milioni e centomila anni fa).

L’Afarensis è stato contemporaneo di molte altre specie di australopitecine e di Parantropus estintisi un milione di anni prima della comparsa del genere Homo.

Anche la specie Sapiens del genere Homo, comparsa circa 200.000 anni fa e attualmente l’unica vivente del genere umano, ha condiviso il pianeta con altre specie umane, spesso presenti contemporaneamente nello stesso territorio, come l’Homo Floresiensis, l’Homo di Denisova, l’Homo di Neanderthal e altri ancora:

 

1. Telmo Pievani, L’evoluzione umana: gli inizi, 6 milioni di anni fa in Africa

 

2. La Rift Valley

Durante i sei milioni di anni coperti dalla separazione degli ominini dagli scimpanzé, nei territori dell’Africa centro-meridionale in cui sono vissuti i nostri progenitori (Rift Valley) si è verificato un cambiamento significativo che ha progressivamente diversificato il versante orientale da quello occidentale.

I movimenti della crosta terrestre causarono un innalzamento della parte orientale del continente africano, incidendo profondi solchi conosciuti con il nome di Rift Valley.

Poiché a ovest della Rift Valley non c’è traccia di fossili di ominidi, mentre a est non c’è traccia di fossili di panidi, si ritiene che, mentre il gruppo delle ominidae ad ovest avrebbe continuato a evolversi in un ambiente non troppo dissimile da quello precedente, cioè la foresta tropicale umida, quello a est si sarebbe evoluto in presenza di condizioni ambientali molto diverse.

L’innalzamento della crosta terrestre aveva infatti causato l’inaridimento del suolo e la progressiva scomparsa della foresta alla quale subentrò la savana.

Ciò sembra aver favorito il bipedismo, forse utile anche per permettere agli ominidi di vedere lontano nascosti dalla vegetazione della savana, il quale però, a lungo non implicò una esclusiva vita a terra, visto che gli alberi consentivano un valido riparo da molti predatori.

Due milioni e mezzo di anni fa (Pleistocene) il genere homo si è separato, con la specie Habilis, da comuni progenitori australopitecini (scimmie australi).

Tuttavia, per tutto il Pleistocene, molte specie di Homo, di Paranthropus e di australopitecine hanno coabitato in Africa e, dopo l’emigrazione dell’Homo erectus, anche nel resto del mondo.

 

3. Il genere homo

australopithecusHomo habilisIl genere Homo appartiene alla famiglia degli Ominini, comprendente numerose specie estinte e un’unica esistente senza sottospecie: l’Homo sapiens, cioè l’uomo moderno.

Come si è visto, l’uomo compare, a partire da progenitori australopitecini, all’incirca 2,5 milioni di anni fa con la specie Homo habilis.

L’avvento del genere Homo coincide con la comparsa nei giacimenti fossili di utensili in pietra (Olduvaiano) e perciò, per definizione, con l’inizio del Paleolitico Inferiore.

bambino Neanderthal - elaborazione computer grafica a partire da un reperto cranico

bambino Neanderthal (Homo Sapiens Neanderthalensis) – elaborazione computer grafica a partire da un reperto cranico

Gli appartenenti al genere mostrano un’accresciuta capacità cranica rispetto agli altri ominidi (600 cm³ di H. abilis contro 450 cm³ di Australopithecus Garhi), con un aumento particolarmente significativo nei reperti databili a 600 000 anni fa (1 200 cm³ in H. heidelbergensis).

Sono state classificate una ventina di specie diverse, tutte estinte con l’eccezione dell’Homo sapiens. Fra esse Homo neanderthalensis, considerato l’ultima specie congenere sopravvissuta, scomparsa in un periodo collocato tra i 25 000 e i 30.000 anni fa.

Più recenti scoperte suggeriscono che un’altra specie, Homo floresiensis, potrebbe essere sopravvissuta fino a 12 000 anni fa. Fino a 40.000 anni fa, quindi, sulla terra erano ancora presenti tre specie umane.

2. Telmo Pievani, Un cespuglio di ominini e
3. L’alba del genere Homo

 

4. Out of Africa: tre partenze dall’Africa

Laetoli (Tanzania), Orme di ominidi - 3 milioni e 700.000 anni fa

Laetoli (Tanzania), Orme di ominidi – 3 milioni e 700.000 anni fa

C’è una sorta di cesura che segna come uno spartiacque l’avventurosa storia evolutiva della nostra specie, cioè del genere homo: un confine collocato a circa due milioni di anni fa e denominato “out of Africa” [si veda il servizio di Leonardo da 6:52].

Quando, cioè, Homo Ergaster, una specie collocata tra Homo habilis ed Homo erectus, aveva abbandonato la natia culla africana per avventurarsi nel resto del mondo, dilagando poi dall’Asia all’Europa (in Australia giungerà circa 40.000 anni fa essendo già diventato Homo sapiens e in America ancora dopo, dai 12 ai 15.000 anni orsono).

Insomma, nelle ricostruzioni dei paleoantropologi l’albero delle “scimmie australi” (gli australopitechi) aveva cominciato a diradarsi 4 milioni di anni fa per dare luogo ad alcuni rami più fortunati o vigorosi che col tempo (centinaia di migliaia di anni) avevano acquistato la statura eretta e quindi il bipedismo, liberando così gli arti superiori ed acquisendo la visione stereoscopica che li rendeva capaci di controllare un ampio arco di savana per evitare i predatori.

out of africa

Oggi si tende a spostare indietro di 800.000 anni, tra l’abilis e l’erectus, l’Out of Africa

Più tardi, due milioni e mezzo di anni fa erano evoluti in Homo Habilis, in grado cioè di costruirsi con materiale litico i primi strumenti: raschiatoi, asce, sassi aguzzi e taglienti, mentre le dimensioni cerebrali fino a allora modestissime aumentavano fino a circa 600 centimetri cubici e, come si è visto, un milione e ottocentomila anni fa, la specie Georgicus era già presente nel Caucaso.

Oggi sappiamo che 800.000 anni fa una seconda migrazione dall’Africa aveva portato un’altra specie di homo, l’Homo heidelbergensis, in Europa e in Asia, mentre la terza, avvenuta 120/130.000 anni fa, aveva ripetuto il cammino con Homo Sapiens.

Tra i 600 e i 700.000 anni fa – sempre in Africa – la specie Erectus, più evoluta, più grande e con un cervello maggiore, presentava già le caratteristiche distintive dell’uomo paleolitico.

L’erectus era capace di costruirsi strumenti di difesa e di offesa, di controllare il fuoco e, secondo molti paleoantropologi, possedeva già il linguaggio.

Quando abbiamo popolato il continente americano? 20.000 anni fa la migrazione dalla Siberia

 

5. L’evoluzione del cervello umano

Phillip Vallentine Tobias, paleoanthropologist (1925-2012)

Tratto da Phillip V. Tobias, Il bipede barcollante, cit.

La documentazione fossile di cui disponiamo, mostra che la tendenza all’aumento encefalico inizia con Homo habilis, due milioni e cinquecentomila anni fa.

Durante il primo stadio dell’ominazione, quello degli Australopitechi, il cervello restò piuttosto piccolo (300/400aree del linguaggio ml), nel secondo, il cervello di media grandezza di Homo habilis raggiunse i 650 ml, ingrandendosi sproporzionatamente (in modo allometrico) rispetto alla corporatura che restava medio piccola.

Nel terzo, infine, che inizia con l’Erectus, l’encefalo non solo è più che raddoppiato (880 ml) rispetto agli australopitechi, ma si è anche differenziato funzionalmente, possedendo l’equipaggiamento biologico (neocorteccia, aree di Broca e Wenicke; fonte Tobias, 1982)  e culturale (linguaggio, manipolazione oggetti) per uscire dall’Africa.

In seguito, circa duecentomila anni fa, emersero ominidi con un cervello ancora più grande (1350 ml), che il naturalista svedese Linneo chiamò nel suo Systema Naturae, Homo sapiens (l’uomo moderno).

Si pone quindi il problema di interpretare questo aumento cerebrale, anche perché un encefalo più grande non implica necessariamente maggiore intelligenza.

Sappiamo, ad esempio, che uomini che si sono distinti in vari campi hanno avuto cervelli grossi (ad e. il biologo Georges Cuvier, 1830 gr; il medico John Abercrombie, 1785 grammi; ecc.) e cervelli piccoli (come lo statista francese Léon Gam­betta, gr. 1294; l’anatomista Johann Dollinger, gr. 1207; il poeta Walt Whitman, gr. 1282). Il cranio di esseri umani attuali dotati di una normale funzionalità può infatti  variare da una capacità di 790 a una capacità di 2350 ml.

Questa amplissima variabili­tà ci ricorda che il solo volume (o peso) encefalico ha scar­so valore quando tentiamo una distinzione fra uomo e non­-uomo, fra ominide e non-ominide. Ad esempio, benché l’uomo abbia una dimensione encefalica pari a 3,5 volte quella dello scimpanzé, possiede solo 1,25 volte la quantità dei suoi neuroni corticali (Tobias, pp. 92 ssg.).

crani homo

Questa considerazione ci pone dinanzi a un paradosso: da un lato, la tendenza più persistente e pervasiva mostrata dalla filogenesi umana è quella verso un aumento allometrico della dimensione dell’encefalo; dall’altra, nell’ambito della specie umana attuale, il fatto di avere un cervello piccolo o grande è pressoché irrilevante.

Perché, dunque, questa espansione ha avuto un’importanza cosi evidente nel passaggio da specie a specie nel corso degli ultimi tre milioni di anni e tuttavia la variabilità della dimensione encefalica appare cosi priva di conseguenze di rilievo nell’ambito della nostra specie?

Lascaux, Mani ritratte dall'artista rupestre 17.000 anni fa

Lascaux, Mani ritratte dall’artista rupestre 17.000 anni fa

La possibile risposta è che aumentando lo spazio tra neuroni e neuroni, aumenta la possibilità di interconnessioni e che questo aumento di dimensioni si accompagnò a un mutamento cellulare che presentò diversi vantaggi adattivi nel corso della filogenesi umana: fu possibile memorizzare più informazioni, si accrebbe la capacità di apprendimento, permise lo sviluppo di sistemi complessi di comunicazione, facilitò i comportamenti di cooperazione e comunicazione necessari per la caccia in gruppo, facilitò la produzione di manufatti culturali.

L’espansione cerebrale venne favorita da un’intera serie di adattamenti sociali e comportamentali, compresa  la simbolizzazione, la caccia di gruppo e la spartizione del cibo, con conseguente aumento dell’efficienza culturale e della durata della dipendenza infantile (pp. 121-122).

Charles Darwin

Charles Darwin

La rapidità di questa evoluzione (dell’evoluzione umana) fu fonte di controversia fra Charles Darwin e Alfred Russel Wallace. Nel corso di quella disputa, spesso ignorata, Darwin sostenne fermamente che la selezione naturale era in grado di spiegare l’emergere dell’uomo e del suo encefalo – anche se ne L’origine dell’uomo capisce l’importanza della selezione sessuale, dunque culturale, dei caratteri e la pone implicitamente all’origine dell’accelerazione della variabilità umana – mentre Wallace affermò che

nella formazione dell’uomo dovette operare un processo evolutivo più rapido di quello prospettato dalla filosofia darwiniana.

Sette anni prima che Darwin pubblicasse L’origine delle specie, Wallace aveva affermato che nell’uomo culturale, l’evoluzione era in gran parte psichica, tuttavia egli non compì il passo successivo, cioè postulare che questa stessa cultura era giunta a dominare i processi selettivi.

Al contrario, poiché non riuscì a ipotizzare l’esistenza di un’ultra forza che spiegasse il rapido evolversi dell’encefalo umano, Wallace invocò

l’intervento di una forza spirituale della quale non si sarebbe potuta dare una spiegazione in termini puramente meccanicistici.

Nel 1961 avanzai l’ipotesi (Tobias, 1961) che un meccanismo alternativo avrebbe potuto spiegare la rapida evoluzione umana e proposi che, alle particolari condizioni di vita sociale e culturale dell’uomo, il ritmo dell’evoluzione sarebbe stato più rapido quando la selezione naturale e la selezione culturale o sociale tendevano verso la medesima direzione.

boscimani

Cacciatori San

L’idea mi venne riflettendo sui fattori che determinarono la comparsa della steatopigia nei San (Boscimani). Il termine definisce un circoscritto accumulo di grasso nelle cosce e nelle natiche. Le ricerche sul campo che conducemmo negli anni Cinquanta ci portarono a concludere che la steatopigia si riduce in caso di malnutrizione e di disidratazione, come accade in età avanzata o nei periodi di grave siccità.

Sembrava che la steatopigia potesse essere considerata un carattere adattivo associato non specificamente alla vita nel deserto – c’erano prove che questa si manifestasse anche in climi più miti – ma a un’economia di caccia e raccolta, che inevitabilmente comporta periodi di carestia.

Uno studio più approfondito rivelò un altro possibile meccanismo: grosse natiche sono molto apprezzate tra i San, e per essi costituiscono una larga parte delle attrattive sessuali della donna. Per qualche tempo mi domandai se la comparsa della steatopigia potesse essere spiegata mediante il meccanismo della selezione naturale oppure quello della selezione sociale. Successivamente divenne chiaro che entrambi potevano essere validi.

La selezione sociale o culturale poteva essersi assommata a quella naturale, aumentando il vantaggio selettivo della steatopigia e accelerando cosi l’affermazione del carattere. Se alla forza della selezione naturale si fosse aggiunta quella della selezione sociale o culturale che premeva nella stessa direzione, il ritmo del mutamento evolutivo avrebbe potuto esserne notevolmente accelerato.

È possibile che, nel vistoso accrescimento dell’encefalo umano, abbiano operato non soltanto alcuni dei fattori di selezione naturale di cui abbiamo parlato in precedenza, imi forse anche la selezione culturale o sociale. Non sto insinuando che gli uomini con la testa più grossa avessero maggior successo nella competizione per i favori delle donne disponibili (o viceversa) e che quindi generassero una prole più numerosa. Forse, tuttavia, qualcuno dei vantaggi conferiti da un encefalo più sviluppato potrebbe aver riscosso particolare favore. Il linguaggio articolato, per esempio, potrebbe essere stato culturalmente molto apprezzato e, al contempo, vantaggioso in termini di selezione naturale (pp. 123-125).

Dello stesso avviso è Francesco Remotti che (citando Clifford Geerz), osserva:

Nel rapporto tra biologia (o natura) umana e e cultura, ciò che vi è di mezzo è il cervello. La tesi più ovvia è sempre stata quella secondo cui dapprima l’uomo conquista evolutivamente la propria attrezzatura organica (tra cui il cervello) e poi sviluppa la cultura. Le indagini paleantropologiche degli ultimi decenni hanno invece posto in luce che lo sviluppo cerebrale tipicamente umano è avvenuto in un ambiente già ampiamente caratterizzato dalla cultura. E questo ha portato a sostenere che il cervello non è soltanto fattore, condizione o causa effciente della cultura (tesi che nessuno si sognerebbe di negare), ma che è anche il suo prodotto [F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, pp. 12-13].

 

5.1 Conclusioni: encefalizzazione, linguaggio e cultura negli ominidi

Tutti i mammiferi possono assumere comportamenti acquisiti, ma con la complessità di tali modelli aumenta anche la complessità dei meccanismi di trasmissione culturale necessari. Le scimmie antropomorfe, per comunicare c’on i loro simili, usano un’appropriata gamma di gesti e segnali sia manuali che facciali e vocali. Possiamo supporre con sicurezza che Australopithecus utilizzasse un analogo sistema di comunicazione e che, avendo un cervello espanso soprattutto nelle aree importanti per il linguaggio verbale, sapesse fare anche di meglio. Ma una cultura cosi complessa come quella sviluppata dall’uomo non può essere tramandata ai figli per mezzo di un linguaggio simile a quello delle scimmie: man mano che le attività culturali divenivano più complesse, anche il sistema per comunicare doveva evolversi.

Quando archeologi preistorici e paleoantropologi parlano della cultura, pare a volte che si riferiscano solamente agli strumenti litici e in genere alle manifestazioni della cultura materiale. In effetti, questi sono i suoi aspetti tangibili, ma ne costituiscono soltanto una parte. Nel 1937 R. H. Lowie ne diede la seguente definizione:

Con cultura intendiamo tutto ciò che un individuo trae dalla società in cui vive: convinzioni, consuetudini, canoni artistici, abitudini alimentari, abilità manuali che egli non acquisisce con la propria creatività, ma in quanto eredità del passato, trasmessagli mediante l’educazione formale o informale.

La cultura umana viene tramandata attraverso il meccanismo dell’eredità sociale – cioè l’insegnamento – e non attraverso quello dell’eredità genetica. Dicendo questo presupponiamo di avere a che fare non con un primate privo della parola, bensì con un animale dotato di linguaggio articolato. I comportamenti sociali dell’uomo derivano dal linguaggio (capacità cognitive e di parola). Il cervello dell’uomo è tale che non solo egli apprende il linguaggio verbale con la massima facilità, ma, affinché non lo apprenda, devono intervenire condizioni estreme.

Il comportamento sociale dell’uomo deriva dalla sua capacità di parlare, e sebbene le differenze cognitive tra antropomorfe e uomo possano essere quantitative il linguaggio verbale è una novità proprio perché nasce da ampie aree del cervello la cui esistenza non ha potuto essere dimostrata in alcun primate non umano.

L’espansione e la riorganizzazione dell’encefalo umano, come abbiamo visto, hanno proceduto parallelamente alla rapida evoluzione di una cultura sempre più complessa, dalla quale l’uomo ha finito per dipendere per la propria sopravvivenza. La trasmissione della cultura nelle sue formi più complesse richiedeva l’uso di un linguaggio parlato, le cui basi anatomiche e fisiologiche sono distribuite nella sua ampia e labirintica corteccia cerebrale.

Se l’espansione della corteccia ha migliorato le basi fisiche della trasmissione della cultura, allora tale espansione deve aver determinato anche rilevanti vantaggi selettivi, in quanto più il linguaggio parlato è evoluto, più sono efficienti sia i modelli di comportamento sociale e culturale sia la loro trasmissione, e ciò aumenta le probabilità di successo delle generazioni che seguono. Sostengo, in breve, che la comparsa del linguaggio fu la chiave dello sbalorditivo incremento del volume cerebrale che si verificò negli ultimi due milioni di anni (pp. 133-135).

 

6. Cavalli Sforza, Evoluzione culturale ed evoluzione biologica

«Il nostro patrimonio culturale è soggetto a una evoluzione nel tempo e nello spazio, così come il nostro Dna».

Il lungo anno delle celebrazioni di Charles Darwin volge al termine (con il 2009 coincidono il bicentenario della nascita dello scienziato britannico e i 150 anni dalla pubblicazione de L’origine delle specie) e i molteplici filoni di ricerca sulla natura della specie umana che dalla teoria evoluzionista del naturalista inglese hanno preso linfa saranno analizzati dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza nella lectio magistralis che inaugura la tre giorni del festival della Mente di Sarzana.

Per meglio comprendere se c’è un nesso tra la sua affermazione e i risultati degli studi più avanzati in campo psichiatrico, i quali riconoscono che – diversamente dagli animali che sono dotati di istinto – nel caso dell’essere umano, grazie alla capacità di immaginare e di scelta, il pensiero esercita una precisa influenza sulla biologia.

 

Esercitazione

1. Spiega perché nella Rift Valley gli ominidi si sarebbero evoluti separatamente dai panidi e con quali effetti.

2. Illustra la teoria dell’Out of Africa e le sue conseguenze sul piano antropologico

3. Illustra le tappe delle evoluzione umana da Homo habilis ad Homo erectus.

4. L’evoluzione umana mostra che, parallelamente all’aumento del volume cerebrale, la nostra specie ha sviluppato il linguaggio, la capacità di simbolizzazione, la caccia di gruppo ed altri comportamenti cooperativi, la cui veloce comparsa è inspiegabile con il solo aumento del cervello. Indica quale ipotesi ha formulato Philipp Tobias al riguardo, sulla base della controversia tra Darwin e Wallace.

 

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6 Responses to “Homo sapiens, la filogenesi umana”

  1. Bellissimo. Sto proprio ora leggendo Ian Tattersall, “I signori del pianeta”

  2. Trackbacks

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