Leibniz

by gabriella
Gottfried Wilhelm von Leibniz

Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 – 1716)

Indice

1. Il ritorno ad Aristotele
2. La logica

2.1 Il principio di non contraddizione e il principio di ragion sufficiente
2.2 Il Dio di Leibniz e la natura della libertà umana

 

3. La metafisica dell’infinitesimale

3.1 La sostanza individuale: dall’organismo alla monade
3.2 Le caratteristiche della monade

 

4. La risposta di Leibniz a Locke e i principi di un nuovo innatismo

 

1. Il ritorno ad Aristotele

L’affascinante complessità della figura di Leibniz – ingegno precocissimo e multiforme applicato ai campi più svariati del sapere, dalla matematica alla logica, dalla metafisica alla linguistica – sembra discostarsi sensibilmente dal solco della filosofia post-cartesiana.

Se Descartes aveva ripudiato la propria formazione scolastica, Leibniz rivendica la necessità di restare, almeno in certa misura, fedeli ad Aristotele, e a 15 anni già si chiede se non sia opportuno reintrodurre in metafisica le vecchie e screditate forme sostanziali.

Con esse, una parte consistente dei concetti scolastici, che sembravano ormai condannati all’abbandono, torna a penetrare nel pensiero moderno. Nelle mani di Leibniz, tuttavia, essi concorrono a formare un sistema nuovo, originale e coerente, cui nella sostanza – se non nel vocabolario – non si può negare il carattere di modernità. Un esempio si trova nei fondamentali principi logici leibniziani.

 

2. La logica

2.1 Il principio di non contraddizione e il principio di ragion sufficiente

descartes

Réné Decartes

La “cellula” elementare della logica leibniziana è costituita non da singole idee o concetti isolati, ma dal giudizio, che rappresenta la loro unità organica; se tale unità venisse meno, anche i suoi componenti sembrerebbero perdere il proprio significato. Se a Descartes interessava soprattutto l’intuizione chiara e distinta di singoli termini o idee, diciamo x o y, a Leibniz interessa soprattutto il giudizio “x è y”. La forma più elementare di giudizio, in logica, è infatti: S è P, dove “S” sta per il soggetto, “P” per il predicato, “è” per la copula che riferisce il predicato al soggetto e rappresenta insieme l’unità della forma giudicativa.

Spinoza

Baruch Spinoza

Secondo il rigido determinismo causale di Spinoza, il giudizio (es. “il sole è caldo”) non è che la traduzione dei rapporti consequenziali che intercorrono tra gli enti: dato cioè un certo x (il sole), ad esso segue necessariamente una sua proprietà y (il calore), come un effetto segue a una causa e può essere interamente ricondotto ad essa. Per questo non esistono giudizi che possano essere ora veri e ora falsi. Da tutta l’eternità e per tutta l’eternità, ciò che è possibile necessariamente accade, e ciò che non accade è impossibile. Non possono pertanto esistere giudizi contingenti, nei quali il predicato potrebbe appartenere o non appartenere al soggetto (es. “la sedia è gialla”). Il predicato si deduce sempre dal soggetto con la necessità di un rapporto causale rigoroso.

Anche l’uomo è però – e anzi lo è per eccellenza – soggetto di giudizi, cosicché una prospettiva come quella di Spinoza gli sottrarrebbe ogni libertà pratica e morale. Comprendiamo così il difficile equilibrio che Leibniz tenta di realizzare nella sua logica:

Da un lato, infatti, Leibniz si rende conto delle ragioni di Spinoza: se «ogni predicazione vera», scrive Leibniz, «ha qualche fondamento nella natura delle cose», il predicato non può aggiungersi da fuori, ma deve derivare dalla stessa natura del soggetto. In caso contrario, varrebbe l’ingenua idea scolastica che vede gli accidenti passare liberamente da una cosa all’altra e “appiccicarsi” casualmente alle sostanze [il legame tra sostanza è accidenti non è necessario, ma puramente accidentale]. La concezione leibniziana è perciò strettamente analitica: l’analisi di S deve mostrare che P vi è già contenuto, che non si aggiunge da fuori ma deriva dal suo interno, cosicché la forma generale della verità può definirsi come segue:

«il predicato è contenuto nel soggetto»,

ovvero A=A. Ogni verità dev’essere riducibile a un’identità, perché questo – e non la casualità delle predicazioni – è ciò che richiede l’immagine scientifica del mondo.

2. Dall’altro lato, si tratta di opporsi duramente alle conseguenze metafisiche e morali tratte da Spinoza, che distruggono il concetto di possibilità e con esso la libertà dell’uomo. Si tratta dunque di restaurare una filosofia del possibile, mostrando che, se anche è certo che determinati predicati appartengono analiticamente al soggetto, non per questo si tratta di un’appartenenza necessaria.

Leibniz deve, a tale scopo, distinguere tra due tipi di verità: le verità di ragione e le verità di fatto. È a questo punto che la sua logica s’intreccia indissolubilmente con la sua metafisica, e in particolare con una concezione di Dio nettamente antispinoziana. Fermo restando che tutte le verità, quali che siano, sono analitiche, cioè risolvibili in un’identità A=A, i due tipi di verità appena menzionati rispondono a due principi formalmente distinti, il principio d’identità e quello di ragion sufficiente.

[…] prima di procedere oltre occorre cercare di sciogliere una grave difficoltà che può sorgere dai fondamenti posti. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza individuale racchiude […] tutto ciò che le potrà accadere e che, considerando tale nozione, vi si può scorgere tutto ciò si potrà enunciare con verità di essa, così come nella natura del cerchio possiamo scorgere tutte le proprietà che vi si lasciano dedurre. Sembra con ciò che la differenza tra verità contingenti e verità necessarie sia distrutta, che la libertà umana non abbia più alcun luogo  e che una fatalità assoluta debba regna re su tutte le nostre azioni, così come sul resto degli avvenimenti del mondo.

A ciò rispondo che bisogna distinguere tra ciò che è certo e ciò che è necessario. Tutti sono d’accordo che i futuri contingenti sono certi dal momento che Dio li prevede: ma non si riconosce per questo che siano necessari. Senonché, si dirà, se una qualsiasi conclusione si lascia dedurre infallibilmente  da una definizione o nozione, essa sarà necessaria. Ora, si è detto che tutto ciò che deve accadere a una persona è già compreso virtualmente nella sua natura o nozione, come le proprietà nella definizione del cerchio : perciò la difficoltà sussiste ancora. Per risolverla fondatamente, dico che la connessione o conseguenza è di due specie: l’una assolutamente necessaria, il cui contrario implica contraddizione, e questa ha luogo tra le verità eterne, quali quelle della geometria, l’altra è necessaria soltanto ex hypothesi e, possiamo dire, per accidente: è contingente in se stessa, dal momento che il contrario non implica contraddizione. Tale connessione è fondata non sulle pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui suoi liberi decreti e sullo svolgimento dell’universo [Discorso di metafisica, § 13].

Gottfried Wilhelm Leibniz

Leibniz

Le verità di ragione sono quelle logico-matematiche, del tipo «la parte è minore del tutto», «7 + 5 = 12», «il triangolo ha la somma degli angoli interni = 180». In esse è possibile, analizzando S, ricavare P in un numero finito di passi, riconducendo quindi i due termini ad un’identità certa ed evidente. La verità della predicazione viene qui stabilita, dunque, mediante il principio d’identità. Al contrario di quello che Descartes credeva, si tratta di verità eterne e necessarie che Dio non può modificare: esse sono contenute nel suo intelletto, ma fuori dall’ambito della sua volontà. Ciò significa che non esiste universo possibile che non le contenga, o che possa contenerne di diverse. Lo dimostra il fatto che, per ciascuna di esse, la sua negazione non è solo falsa, ma contraddittoria, dunque impossibile.

Le verità di fatto mostrano un grado di complessità molto superiore. Si tratta della massa infinita di enunciati contingenti, quali: «Cesare varcò il Rubicone». Anche qui, in base al criterio del predicatum inest subjecto, è necessario ammettere che P (“varcò il Rubicone”) dev’essere già contenuto, da tutta l’eternità, in S (“Cesare”). Ma questi enunciati si comportano diversamente, perché la loro negazione non è impossibile, ma tutt’al più falsa, anche se perfettamente sensata.

Cesare avrebbe potuto benissimo non varcare 0 Rubicone, dunque non era necessario che lo varcasse; anche se, già nel primo momento della creazione del mondo, era certo che l’avrebbe varcato. Questa certezza, che vige da tutta l’eternità, non toglie che lo stato di cose opposto resti logicamente possibile, e che dunque, quando Cesare varca il Rubicone, lo varchi liberamente.

Queste verità rispondono a un principio apparentemente distinto dal primo, quello di ragion sufficiente. La distinzione è perlopiù apparente perché, se potessimo applicare alle verità di fatto il calcolo infinitesimale, potremmo approssimarle all’infinito a verità di ragione. Ciò significa che per Dio tutto è verità di ragione, risolvibile analiticamente in identità a priori, mentre noi possiamo giudicare vera una predicazione di fatto non perché riusciamo a risolverla in un’identità, ma perché troviamo in stati di cose (o predicazioni) antecedenti una ragione sufficiente, ovvero una «buona ragione», per giudicarla così. La complessità di S è qui tale che non potremmo mai svolgerne un’analisi completa: le caratteristiche di Cesare, le sue singole azioni sono già esse di numero infinito; bisognerebbe poi aggiungervi tutte le relazioni con altri uomini, situazioni, e le relazioni di relazioni, ecc., fino a includervi la totalità dell’universo.

Non possiamo dunque conoscere la verità di “Cesare varcò il Rubicone” analiticamente a priori, ma solo a posteriori, riferendola alle sue ragioni: Cesare varcò il Rubicone perché riteneva maturo il momento dello scontro con Pompeo, lo riteneva maturo perché era tornato dalle Gallia da trionfatore, ecc. La nostra natura finita c’impone di limitarci a un numero finito (“sufficiente”) di ragioni per stabilire la verità di una predicazione, tuttavia, questa catena può virtualmente regredire fino al primo perché.

Questa volta, però, all’origine non troviamo solo un’idea nell’intelletto di Dio, ma un autentico atto di volontà, cioè di libera scelta. Dio ha scelto di creare Cesare in un determinato modo e non in un altro, con certi predicati e non con altri, e con esso ha deciso di creare un intero universo pieno di certi fatti e non di altri. La sua scelta, come ogni scelta, è determinata da un criterio, che è il massimo bene possibile. Ciò d’altra parte non toglie a Cesare la sua libertà, perché nella mente di Dio si trovano infinite altre varianti di “Cesare”, anche se non sono state né saranno mai create. Se Cesare sarebbe potuto essere diverso, ciò che egli fa non è necessario, ma libero.

 

 

2.2 Il Dio di Leibniz e la natura della libertà umana

DioLa reintroduzione, in logica, della modalità del possibile, configura in Leibniz la restaurazione di un’immagine di Dio cristianamente ortodossa e nettamente antispinoziana.

a. Dio ha un intelletto, nel quale sono contenute, da tutta l’eternità, le idee delle verità di ragione e quelle delle verità di fatto. Per quanto riguarda le prime, si tratta di idee necessarie. Le seconde sono solo possibili, nei senso che per ogni cosa – Cesare, questo tavolo, quella nuvola che ora sta passando – sono contenute nella mente di Dio le sue infinite varianti, ciascuna diversa dall’altra anche solo per una modificazione infinitesimale.

Le uniche idee che la mente di Dio non contiene sono quelle impossibili, cioè autocontraddittorie (quadrato rotondo, ferro di legna ecc.), perché la loro impossibilità le rende eguali a nulla.

Il migliore dei mondi possibili

Il migliore dei mondi possibili

b. Nell’intelletto di Dio, oltre alle infinite possibilità, esiste anche una loro prima riduzione: il sottoinsieme delle compossibilità, cioè delle combinazioni di idee reciprocamente compatibili. L’idea di Cesare che adotta Ottaviano non sarebbe compossibile con quella – per sé egualmente possibile – di Ottaviano che adotta Cesare, perché produrrebbe con essa una contraddizione.

c. La volontà di Dio opera un’ulteriore riduzione sulle compossibilità, selezionando, tra tutti gli universi di idee compossibili, quello migliore, ovvero il «migliore dei mondi possibili», e lo fa passare all’esistenza effettiva. La ragione di ultima istanza è il massimo bene, e l’universo assume così un aspetto chiaramente finalistico. Per quanto riguarda le verità di ragione, invece, la volontà di Dio non opera su di esse nessuna scelta, ma le crea necessariamente insieme all’universo che sceglie di creare. Ciò mostra che la logica non risponde a criteri o fini etici.

creazione leibniz

Due grandi problemi sono connessi a questa complessa costruzione logica e metafisica: il primo riguarda Dio, il secondo l’uomo. Il primo problema è quello della teodicea, cioè della giustificazione di Dio rispetto al male nel mondo.

Il terremoto di Lisbona (1755) che sconvolse Voltaire e i suoi contemporanei

Il terremoto di Lisbona (1755) che sconvolse Voltaire e i suoi contemporanei

Rifiutata l’idea spinoziana per la quale Dio crea per necessità un universo che, non potendo essere diverso da com’è, si pone al di là del bene e del male, si riapre un antico problema: se l’universo è stato creato dalla libera scelta di Dio, perché non è migliore di come appare, e perché Dio ha creato con esso il male?

Il filosofo illuminista Voltaire (1696-1778), ponendo ripetutamente in ridicolo l’espressione «il migliore dei mondi possibili» – e con essa il cosiddetto ottimismo leibniziano -, colse probabilmente il senso autentico di una posizione piuttosto tragica che ottimistica. Leibniz non parla infatti del mondo migliore, ma del migliore mondo possibile, il che significa che meglio di così neppure Dio avrebbe potuto fare, né noi potremo mai sperare.

Dio deve tener conto, come in un immenso algoritmo, della compossibilità di tutte le idee create, e se dal nostro miope e limitato punto di vista sembra ovvio e facile correggere questo o quell’aspetto altrettanto limitato, dal punto di vista del tutto la minima modifica produrrebbe una contraddizione logica nel sistema, portandolo al collasso. L’imperscrutabilità del disegno di Dio non è così altro che la coerenza logica del mondo creato, e il male non è affatto voluto, ma semplicemente permesso da Dio.

Non meno grave è il problema della libertà umana. Il fatto che nella mente di Dio vi siano idee alternative di noi e delle nostre azioni, e che per ciascuna di queste sia concettualmente pensabile la sua negazione, ci convince davvero della realtà effettiva, e non solo della pensabilità concettuale, della nostra libertà?

La libertà è davvero garantita dal solo fatto che possiamo sempre pensare il contrario, anche se – da sempre e per sempre – non potremo mai farlo? Sembra che i valori della possibilità e della libertà non si lascino facilmente fondare da tesi logiche. Quando Cesare varca il Rubicone, Leibniz afferma che lo fa liberamente, nel senso che Dio aveva deciso fin dall’inizio che egli l’avrebbe liberamente varcato: avrebbe certamente fatto questo e non il contrario, ma come libera azione.

In questo modo però egli deve fare della libertà un predicato, e sottoporlo, come tutti i predicati, al principio di ragion sufficiente. La libertà deve essere inserita così nella catena delle cause e dei perché, rischiando di costituire – proprio in quanto libertà causata – un’idea impossibile e contraddittoria, quindi nulla e inesistente. Contro questa trasformazione della libertà in un predicato reagirà, non a caso, Kant nella sua filosofia morale.

 

 

3. La metafisica dell’infinitesimale

La macchina calcolatrice di Leibniz

La macchina calcolatrice di Leibniz

Se è soprattutto a partire dall’infinito che la metafisica moderna ha pensato la realtà (l’infinito universo di Bruno, il Dio di Descartes, la sostanza di Spinoza), Leibniz prende le mosse da un’idea analoga ma distinta, quella dell’infinitesimale. Il calcolo infinitesimale, che egli aveva genialmente formalizzato per via puramente matematica, non consente soltanto di mettere a fuoco l’infinitamente piccolo, vale a dire il microscopico, ma – ancor più fruttuosamente – ci fornisce gli strumenti rigorosi per tematizzare la variazione continua per passaggi impercettibili.

Tutta la metafisica leibniziana risente dell’impiego di questo strumento matematico, e senza di esso risulterebbe incomprensibile. Distinguendosi in ciò radicalmente dalla rigidità dell’estensione cartesiana e spinoziana, la realtà di Leibniz è al contrario eternamente e infinitamente fluida, cangiante, elastica: in una parola, viva. Contro il morto meccanicismo di Descartes, si profila qui una filosofia dell’organismo vivente.

 

3.1 La sostanza individuale: dall’organismo alla monade

L’esempio più chiaro del «ritorno ad Aristotele» tentato da Leibniz va ricercato nella sua teoria della sostanza individuale. Contro il dualismo cartesiano e il monismo spinoziano, viene riaffermata l’esistenza di un’infinità di sostanze, ciascuna individuata da propri tratti singolari e irripetibili. Dai punto di vista logico, questi tratti non sono altro che la catena dei predicati che individuano le sostanze distinguendole una dall’altra.

La sostanza è infatti – conformemente all’insegnamento di Aristotele – innanzitutto il soggetto della predicazione, ovvero ciò che può essere sempre solo soggetto, e mai predicato; e in secondo luogo, come si è visto, ciò a cui corrisponde una nozione completa, tale da consentirci di dedurne analiticamente tutti i predicati.

Dal punto di vista metafisico, a questa concezione della sostanza si aggiunge un altro tratto nettamente aristotelico e anticartesiano. La sostanza non s’identifica con l’estensione e il movimento, ma con la vita. Ferma restando la verità del meccanicismo – mai contestata da Leibniz – sul piano fisico, il piano metafisico più profondo risponde ad altre leggi e ad altri criteri, che non sono più quelli dell’urto meccanico e della trasmissione del moto per contatto. La materia (l’estensione, per Descartes) non può essere sostanza, perché è divisibile all’infinito, proprietà che c’impedirebbe di giungere a un soggetto stabile e unitario di predicazione.

Ciò comporta che la sostanza non può identificarsi con estensione, figura e movimento, e che bisogna pertanto riammettere le antiche «forme sostanziali» di Aristotele e degli scolastici.

«Esaminando la nozione che io ho di ogni enunciato che sia vero trovo che ciascun predicato, necessario o contingente, passato, presente o futuro, è compreso nella nozione del soggetto, e non chiedo altro. L’enunciato in questione è di grande importanza e merita d’essere ben chiarito, perché da esso consegue che ogni anima è come un mondo a parte, indipendente da tutto il resto fuorché da Dio; che non soltanto ogni anima è immortale e per così dire impassibile, ma che essa contiene nella propria sostanza tracce di tutto ciò che le accade».

Ciò implica che le sostanze non agiscono le une sulle altre, ma concordano tutte nel rispecchiare l’universo, ciascuna dal suo punto di vista. Non ci può essere alcuna interazione, perché tutto ciò che accade in ciascun soggetto fa parte della sua stessa nozione e ha determinato ab aeterno l’esistenza della sostanza stessa [Lettera di Leibniz ad Antoine Arnauld, logico e teologo giansenista].

II legame che stringe indissolubilmente tra loro le nozioni di unità, vita e forma è quello di organismo. La sostanza, secondo Leibniz, può identificarsi unicamente con l’organismo vivente. Vediamo infatti che:

Organismo vivente: unitario, complesso, non composto, potente

Organismo vivente: unitario, complesso, non composto, centro di forza che tende ad espandersi

a. il meccanismo non ha un’unità propria: un orologio può essere smontato e rimontato, i suoi pezzi possono essere sostituiti da altri. Un organismo è intrinsecamente uno: non può essere tagliato e poi ricomposto senza perdere la propria vita, dunque il proprio essere. Ancora di più: un organismo non ha propriamente parti, perché ogni cosiddetta “parte” esiste solo in funzione delle altre. Esso può dirsi pertanto complesso, ma non composto. Separata dalle altre, ogni parte non è più quello che era, ma un’altra cosa, così come per Aristotele un dito morto, separato dal corpo, resta un dito solo «in modo equivoco», cioè solo «per modo di dire».

b. Il fatto che l’organismo sia vivo significa che esso non rappresenta solo un tramite del sistema fisico che, ricevendo e trasmettendo moto, ne mantiene la quantità costante (come in Descartes). Ciò che si mantiene costante in natura è piuttosto la forza viva, e ogni organismo è pertanto un centro di forza vivente che tende a estrinsecarsi ed espandersi per quanto può.

c. La materia inerte è amorfa finché non interviene una forza esterna a darle forma. Un organismo dà a se stesso la propria forma: se una sua parte è amputata, tende da sé a rigenerarla e a ricostituire la forma precedente, mentre se togliamo una molla da un orologio, questo non è in grado di rigenerarla da sé.

La monade

La monade è semplice e unitaria, dunque immateriale

Quando, nell’elaborazione più tarda della sua metafìsica, Leibniz tende a sostituire al concetto di organismo quello di monade, non rinnega questi presupposti, ma semplicemente li reinterpreta in una forma alternativa. Ciò che è sostanza individuale dev’essere semplice e unitario, pertanto – dato che la materia è sempre ulteriormente divisibile – non può essere materiale.

Questo carattere di immaterialità proprio dell’organismo, che al contrario dell’estensione materiale è indivisibile (non composto di parti) e unitario, diviene meno paradossale e più coerente se lo traduciamo nel concetto di monade. La monade è infatti allo stesso tempo infinita complessità e semplicità assoluta, integrale assenza di composizione e dunque totale immaterialità. Non può essere neppure un punto fisico, che resterebbe una realtà materiale, e come tale divisibile, pertanto non “puntuale”. Sarà dunque un punto metafisico, inesteso, una pura forma caratterizzata solo da una forza interna di autosviluppo.

 

3.2 Le caratteristiche della monade

Come l’organismo non è un aggregato esteriore di parti, ma un’unità complessa di componenti, così in ogni sostanza l’ultimo Leibniz individua l’esistenza di una monade dominante, chiamata anima o – aristotelicamente – entelechia, che rappresenta l’unità, la forma, l’atto o il «vincolo sostanziale» del tutto (es. il nostro organismo). Ogni componente (es. una mano), se presa separatamente dalle altre, diventa poi naturalmente un’altra cosa, cioè un’altra sostanza individuale, a sua volta dotata di una monade dominante che regola l’unità delle sue componenti (es. le dita), e così via, in una continua riduzione infinitesimale che tuttavia – dato il carattere dell’organismo – non contraddice al carattere semplice e unitario di ogni monade, a qualunque livello la prendiamo.

La logica ci ha mostrato che una sostanza non riceve i propri predicati dall’esterno, ma li contiene già tutti in sé, limitandosi a dispiegarli; allo stesso modo la monade va intesa come una piega che contiene virtualmente in sé non solo quelli che Aristotele avrebbe individuato come i suoi caratteri sostanziali, bensì tutte le sue percezioni e i suoi pensieri, anche quelli «accidentali», limitandosi a dispiegarli in successione. Essa infatti, in quanto inestesa, non potrebbe ricevere nessun influsso meccanico dall’esterno.

Le sue caratteristiche, in luogo dell’estensione e del movimento, sono: la percezione, per la quale la monade coincide con la serie delle sue interne rappresentazioni del mondo; e l’appetizione, per la quale ogni percezione non risulta isolata, ma tende a prolungarsi e a completarsi in altre percezioni, sforzandosi in particolare di conseguirne di sempre più chiare. Questo carattere corrisponde metafisicamente alla forza della monade. L’appetizione, intesa come progressiva estrinsecazione di tutte le rappresentazioni interne, dimostra – contro Descartes – che non vi è distinzione reale né tra qualità soggettive e oggettive dei corpi, né tra idee oscure e confuse e idee chiare e distinte, bensì un passaggio continuo e infinitamente graduato che corrisponde a una gerarchia delle stesse monadi. Quelle inferiori hanno solo percezioni istantanee e incoscienti; più in alto stanno monadi dotate di memoria, dunque di capacità cosciente di operare confronti tra rappresentazioni; al vertice della vita organica stanno gli esseri dotati di appercezione, cioè di autocoscienza, ovvero di percezione del proprio percepire: si tratta di tutti gli individui in grado di passare dal piano della vita biologica a quello della vita morale. La monade somma è naturalmente Dio, l’unica perfettamente trasparente quanto ai suoi stati interni, e padrona non solo di una conoscenza perfettamente distinta (possibilità che all’uomo è già preclusa, come vedemmo nel caso delle verità di fatto), ma addirittura intuitiva, cioè onnicomprensiva e concentrata in un unico istante. Dall’altra parte, al fondo di tutte le monadi – Dio escluso – sta un continuo “brusio” di petites perceptions, percezioni infinitesimali che non raggiungono la soglia cosciente. Rompendo il dogma cartesiano che identifica la percezione con la coscienza, Leibniz diviene cosi uno dei primi teorici moderni dell’inconscio.

gradi monadi
Dalla logica e dalla metafisica leibniziane scaturiscono i due ulteriori principi dell’identità degli indiscernibili e dell’armonia prestabilita. Nel principio dell’identità degli indiscernibili prevale l’aspetto logico. Secondo questo principio non esistono due sostanze eguali nell’universo, perché in tal caso sarebbero la stessa sostanza. Se due sostanze avessero identici predicati, non vi sarebbe stata infatti  nessuna buona ragione da parte di Dio per creare l’una piuttosto che l’altra, o per crearle entrambe, cosa che violerebbe il principio di ragion sufficiente, per il quale Dio non fa nulla senza una (buona) ragione.

Schiaffo e dolore corrispondente

Schiaffo e dolore corrispondente

Nel principio dell’armonia prestabilita prevale invece l’aspetto metafisico. Si tratta di risolvere il difficile problema di un’infinità di monadi, ciascuna chiusa in se stessa e perfettamente autosufficiente, che allo stesso tempo percepiscono tutte in modo coerente il medesimo universo e sembrano interagire a vicenda.

Com’è possibile, se non esiste nessun influsso reale da fuori a dentro? «Armonia prestabilita» significa che Dio ha coordinato, da tutta l’eternità, le rappresentazioni di ogni monade in maniera tale che esse si corrispondano perfettamente tra loro. A un mio stato attivo, ad esempio la rappresentazione dell’azione di dare uno schiaffo, corrisponde uno stato passivo in un’altra monade, ad es. il dolore: in tutto questo non c’è nessun influsso causale, ma solo coordinazione sincronica di stati.

In questo modo si può dire che tutte le monadi, nonostante il loro isolamento, percepiscano lo stesso universo, che è lo stesso non perché esista come tale prima delle percezioni, ma come conseguenza della loro armonia reciproca. Così come una città può essere percepita da differenti angoli visuali, ogni monade, dal suo angolo visuale più o meno limitato, esprime più o meno adeguatamente l’intero universo. Questo principio non è solo metafisico, ma anche logico: tutte le verità di ragione, avevamo visto, si implicano a vicenda nella loro totalità, cosicché ciascuna richiama, più o meno adeguatamente, ogni altra.

 

 

4. La risposta di Leibniz a Locke e i principi di un nuovo innatismo

John Locke (1632 - 1704)

John Locke (1632 – 1704)

In risposta all’Essay concerning Human Understanding, tradotto in francese nel 1700, Leibniz scrive nello stesso anno i Nouveaux essais sur l’entendement humain, un dialogo nel quale discute citandoli quasi letteralmente i passi del testo lockeano (sostenuti da Filalete e confutati da Teofilo).

In una lettera posteriore l’autore spiegherà il proprio dissenso rispetto all’empirismo lockeano osservando:

«Io sono per i principi innati, contro la sua tabula rasa. Nel nostro spirito non c’è infatti solamente una facoltà, ma anche una disposizione alla conoscenza, dalla quale possono essere ricavate le conoscenze innate».

Leibniz riconosce che la critica lockeana alle idee innate ha avuto il merito di incitare i metafisici a riprendere le ricerche sul valore della conoscenza, ma è convinto che la sola esperienza non sia sufficiente a spiegarla. L’universalità e la necessità della conoscenza non possono infatti avere un fondamento puramente empirico. Basti considerare, osserva Leibniz l’esempio delle matematiche: se ogni nozione matematica dovesse derivare dai sensi, non sarebbe possibile la dimostrazione di un solo teorema.

Sebbene necessari per tutte le nostre conoscenze pratiche, i sensi sono in grado di fornire solo verità particolari e contingenti (verità di fatto), esistono invece verità necessarie e di ragione che nessuna esperienza potrà mai dare all’uomo e che appartengono pertanto solo all’intelletto – ad esempio, quelle logico-matematiche o il principio di non contraddizione.

La mente non è quindi una tabula rasa, ma un principio attivo a priori indipendente e autonomo dall’esperienza e dai sensi. Leibniz condivide dunque il motto della scolastica secondo il quale

«nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu» (non c’è nulla nell’intelletto che non venga dai sensi), ma vi aggiunge, «excipe: nisi ipse intellectus» (tranne l’intelletto stesso).

Leibniz, dunque, considera innate nell’uomo non tanto delle nozioni positive, ma delle funzioni o delle forme a priori del pensare e del conoscere. Queste, al contrario di quanto avevano sostenuto i neoplatonici di Cambridge a proposito delle idee innate, non “si possono leggere” nell’anima come in un libro aperto. La conoscenza consiste anzi nel portare dall’oscurità alla chiarezza ciò che è virtualmente contenuto nell’anima. Il che avviene per Leibniz attraverso una sorta di reminiscenza di tipo platonico nella quale l’anima si rivela capace di scoprire in se stessa delle verità che non traggono la loro validità da alcuna conoscenza sensibile.

 

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: