Posts tagged ‘Leibniz’

28 Febbraio, 2024

Locke

by gabriella

John Locke (1632 – 1704)

La teoria della conoscenza e la filosofia politica del fondatore del pensiero liberale.

Indice

1. Il problema della conoscenza tra 600 e 700

1.1 Il razionalismo
1.2 L’empirismo e la critica dell’innatismo
1.3 Il problema della conoscenza per Locke
1.4 La critica all’innatismo e la teoria delle idee
1.5 La critica della metafisica e dell’idea di sostanza
1.6
L’analisi del linguaggio e la concezione della conoscenza

 

2. Il pensiero politico

2.1 Due Trattati sul governo civile: lo stato di natura e la fondazione della proprietà privata

2.1.1 L’importanza del pensiero politico lockeano
2.1.2 I due Trattati sul governo
2.1.3 La confutazione delle tesi di Filmer
2.1.4 Lo stato di natura e la fondazione del diritto di proprietà
2.1.5 La spinta naturale all’autoconservazione
2.1.6 La derivazione della proprietà dal lavoro
2.1.7 Le due fasi dello stato di natura e la legittimazione del possesso privato

2.2 Locke teorico dello stato liberale

2.2.1 Socievolezza e insocievolezza secondo Locke
2.2.2  La divisione dei poteri dello Stato
2.2.3 I poteri illegittimi e il diritto alla rivoluzione

 

 

1. Il problema della conoscenza tra 600 e 700

Niente è nell’intelletto che non fu già nei sensi.

Tommaso d’Aquino

Il problema del valore della conoscenza, cioè della corrispondenza delle nostre rappresentazioni con la realtà esterna, è il problema specifico della filosofia moderna da Cartesio a Kant.

Tra il seicento e il settecento la questione decisiva diventa la determinazione di quanto, nel processo conoscitivo, derivi dall’esperienza e quanto dall’attività dell’intelletto.

Razionalismo ed empirismo possono essere considerate, al riguardo, le due grandi modalità attraverso cui la filosofia tenta di risolvere la discussione circa l’origine, i limiti e la validità della conoscenza.

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15 Febbraio, 2015

Paolo Bussotti, Il concetto di causa

by gabriella

principio di causalitàUn estratto dell’articolo pubblicato dalla Rivista della scuola superiore dell’economia e delle finanze.

 

1. Il principio di causalità nel pensiero moderno

Il principio di causa-effetto è una correlazione tra due fenomeni per cui il secondo, l’effetto, è prodotto dal primo, la causa. Di questa proposizione si danno essenzialmente due interpretazioni: una ontologico-oggettivistica e una gnoseologico-soggettivistica. Secondo la prima sono i fenomeni in quanto tali ad essere legati dal nesso di causalità; vi sarebbe pertanto una forma di necessità in base alla quale, avvenuto un fatto, ne avviene un altro da questo causato. L’altra interpretazione afferma invece che il principio di causa-effetto non sussiste necessariamente nel mondo esterno, ma è un postulato generale inventato dall’uomo come criterio conoscitivo e ordinatore che consente di mettere in correlazione insiemi di fatti e di orientarci in un universo altrimenti caotico. Per questa seconda interpretazione si pone il problema di spiegare come un principio di ragione consenta di dar conto dei fenomeni. In genere si intende il nesso causa-effetto come una corrispondenza biunivoca, cioè un effetto è prodotto da una sola causa e viceversa una causa produce un solo effetto. Tuttavia questa ulteriore condizione non è necessaria e può ben darsi che una causa produca una molteplicità di effetti e che un effetto sia occasionato da una pluralità di cause.

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28 Giugno, 2014

Leibniz

by gabriella
Gottfried Wilhelm von Leibniz

Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 – 1716)

Indice

1. Il ritorno ad Aristotele
2. La logica

2.1 Il principio di non contraddizione e il principio di ragion sufficiente
2.2 Il Dio di Leibniz e la natura della libertà umana

 

3. La metafisica dell’infinitesimale

3.1 La sostanza individuale: dall’organismo alla monade
3.2 Le caratteristiche della monade

 

4. La risposta di Leibniz a Locke e i principi di un nuovo innatismo

 

1. Il ritorno ad Aristotele

L’affascinante complessità della figura di Leibniz – ingegno precocissimo e multiforme applicato ai campi più svariati del sapere, dalla matematica alla logica, dalla metafisica alla linguistica – sembra discostarsi sensibilmente dal solco della filosofia post-cartesiana.

Se Descartes aveva ripudiato la propria formazione scolastica, Leibniz rivendica la necessità di restare, almeno in certa misura, fedeli ad Aristotele, e a 15 anni già si chiede se non sia opportuno reintrodurre in metafisica le vecchie e screditate forme sostanziali.

Con esse, una parte consistente dei concetti scolastici, che sembravano ormai condannati all’abbandono, torna a penetrare nel pensiero moderno. Nelle mani di Leibniz, tuttavia, essi concorrono a formare un sistema nuovo, originale e coerente, cui nella sostanza – se non nel vocabolario – non si può negare il carattere di modernità. Un esempio si trova nei fondamentali principi logici leibniziani.

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22 Novembre, 2013

Il deismo

by gabriella

Traggo dalla voce “deismo” dell’Enciclopedia Treccani e del Dizionario storico della Svizzera questa efficace presentazione della religione naturale e della versione offertane da Rousseau.

Viene chiamata deismo, in senso stretto, quella corrente di pensiero fiorita tra il Sei e il Settecento in Inghilterra, iniziata con E. Herbert of Cherbury (1581-1648), detto “il padre del deismo”, e sviluppatasi con F. Toland (1670-1722), A. Collins (1676-1727), M. Tindal (1656-1733), T. Chubb (1679-1747), H. Bolingbroke (1698-1751) e altri.

Campanella

Tommaso Campanella

I precedenti storici di questo movimento vanno indubbiamente ricercati nella filosofia religiosa del Rinascimento italiano, specie del Campanella, alla cui dottrina si riannoda per più rispetti quella herbertiana, mentre d’altra parte, mutati molti altri termini, un certo deismo si trova nella filosofia religiosa di Hume, di Voltaire, di Rousseau, di Lessing e Leibniz, e, in fondo, dello stesso Kant.

Hume

David Hume

voltaire

François-Marie Arouet, detto Voltaire

Caratteristica del deismo in senso stretto è la contrapposizione alle religioni positive di una religione “naturale”, fondata cioè su quel conato verso l’infinito che attraversa tutta la natura, come semplice oscura tendenza alla conservazione nell’essere, e che nell’uomo diventa luminosa consapevole aspirazione alla divinità (Campanella e Herbert).

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21 Settembre, 2013

Sossio Giametta, Schopenhauer in cinque piccole lezioni

by gabriella

giamettaIl Rasoio di Occam propone in anteprima uno stralcio del volume di prossima pubblicazione L’oro prezioso dell’essere di Sossio Giametta – collaboratore della prestigiosa edizione Colli-Montinari di Nietzsche – dedicato alla rilettura di Schopenhauer. L’ipotesi di partenza di Giametta è classica: Schopenhauer rappresenta la reazione ad Hegel, un Hegel ottimisticamente panlogista, apologeta dello spirito assoluto incarnato nello stato prussiano.

Contro lo spirito, la natura; contro la divinizzazione del mondo, la diabolicizzazione del mondo; dopo il noumeno e fenomeno, la volontà e rappresentazione, dopo il razionalismo, l’irrazionalismo: queste le svolte impresse alla storia della filosofia occidentale da Schopenhauer, filosofo, moralista e artista, come approdo finale del processo negativo innescato dal decline and fall del cristianesimo, su cui rimbalzerà l’affermazione tragica di Nietzsche, la sua fondazione della religione laica.

In effetti, Schopenhauer reagì alla propria ricezione di Hegel, inaugurando la perpetua riduzione della sua  filosofia all’ultima figura del sistema che affligge ancora oggi la manualistica filosofica. Giametta ha comunque il merito di ricordarci come la letteratura scientifica più aggiornata abbia finalmente capito il ruolo di Schopenhauer nell’anticipazione di concetti chiave della contemporaneità, a partire dalla centralità del corpo e della logica materiale del vivente.

1. Natura vs spirito

Il filosofo impara dalla vita e non dai libri. Ma per capire bene un filosofo bisogna vedere a quale filosofo reagisce. L’ha detto Bergson, e non ha detto una cosa peregrina: ogni filosofo pensa in reazione a un altro pensatore. Ai filosofi si applica la legge che uno dei primi filosofi greci, Anassimandro, applica a tutti gli enti: essi sono connessi alla fine, “secondo l’ordine del tempo”, per una legge di giustizia. Cioè perché, con l’unilateralità che ciascuno rappresenta e non può non rappresentare, infrangono l’unità, la compattezza, l’integrità, l’universalità della vita. È come il reato che, con la sua sporgente unilateralità, sfonda l’ordine giuridico. Il filosofo successivo è la correzione e l’incremento, per contrasto e integrazione, del filosofo precedente, in corrispondenza della successione delle epoche, che i filosofi sempre rappresentano e che sono, come ha detto Platone, le facce cangianti dell’eternità.

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14 Aprile, 2012

Armando Massarenti, Apologia di Leibniz

by gabriella

Secondo l’appassionata apologia di Massarenti, il meglio di Lebniz sarebbe nel suo insospettabile aristotelismo politico. Già, anche se non fosse un pensatore immenso, lo ameremmo per quella sua idea  «che stranamente non conforta potenti né monarchi né allora né oggi». 

«Quelli che hanno affermato che tutto va bene han detto una castroneria» spiega Pangloss al giovane Candide. «Bisognava dire che meglio di così non potrebbe andare». Distinzione sottile per dire che, nonostante l’esistenza del male, della malvagità umana, delle guerre di religione e di sciagure naturali come cataclismi, terremoti, tsunami, malattie, viviamo nel migliore dei mondi che Dio avrebbe potuto creare, il «migliore dei mondi possibili».

Il riferimento è, naturalmente, alla Teodicea, l’unica opera che Leibniz ha pubblicato in vita. ma è giusto che un pensatore così erudito e prodondo finisca per essere ricordato solo per la caricatura di Voltaire? In uno spiritoso dizionarietto dei luoghi comuni si legge che Leibniz scriveva cose del genere solo per confortare i monarchi. Con i quali, com’è noto, ebbe grandi frequentazioni in qualità di filosofo, diplomatico, linguista, storico, giurista, bibliotecario. Era anche fisico, geologo, matematico, logico, metafisico, e se non pubblicò molto di tali speculazioni – dice sempre il nostro vademecum flaubertiano – è perché sevivano a poco per confortare i potenti presso i quali amava soggiornare.

In realtà, in vita, oltre alla Teodicea egli pubblicò altri saggi, coem le Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, o quello su alcuni «errori commessi» da Cartesio, e ultimo anche una confutazione sistematica del pensiero di Locke, intitolata Nuovi saggi sull’intelletto umano che poi non ha pubblicato avendo saputo della morte del padre del’empirismo. La propria idea di natura è espressa nella Monadologia, e pure questa ha suscitato commenti semiseri, anche da parte dei suoi più ingegnosi ammiratori, come Carlo Emilio Gadda che sulla metafisica leibniziana ha scritto la tesi di laurea: «la mia monade e il mio io sono delle baracche sconquassate rispetto alle pure sfere d’acciaio di Leibniz e hanno finestre e fessure».

Anche su un altro scrittore, Jorge Luis Borges, hanno avuto un duraturo effetto gli innumerevoli scambi epistolari, gli articoli brevi su problemi enormi (perché esiste qualcosa invece del nulla?), gli schizzi intellettuali buttati giù per puro divertimento del filosofo. Al punto che leggendo Leibniz, a volte sembri aprorpio di leggere Borges.

Leibniz è un autore modernissimo, che scrive nel pieno della rivoluzione scientifica e del trionfo del meccanicismo. Ma, come ha messo bene in luce Massimo Mugnai, uno dei più importanti studiosi del suo pensiero, la sua fantasia filosofica non ha freni inibitori, e il suo equilibrio, la sua chiarezza e il suo rigore si nutrono anche delle visioni che la Nuova Scienza sembra contraddire. Con i peripatetici gli piace fare il cartesiano, mentre con questi ultimi si diverte a recuperare finalismi ed entelechie.

Come per Cartesio, il suo lascito più duraturo riuguarda la matematica. Indipendentemente e quasi in contemporanea con Newton, è l’inventore del calcolo differenziale e integrale. A esso si lega uno dei suoi sogni più ambiziosi. Mentre affrontava un problema di logica, «come spinto da una necessità interna, a questa idea straordinaria: che doveva essere possibile costruire una caratteristica universale della ragione, mediante la quale, in qualisiasi dominio, tutte le verità si presenterebbero alla ragione in virtù di un metodo di calcolo, come nell’aritmetica o nell’algebra. Di conseguenza, quando sorgeranno controversie tra due filosofi, non sarà più necessaria una discussione; sarà sufficiente infatti che prendano in mano le penne, si siedano di fronte agli abachi e si dicano l’un l’altro “calculemus!”».

Tutta la logica era da reimpostare e Leibniz intuì che bisognava partire da un sistema binario. Come ci arrivo? Attraverso uno dei libri che dalla Cina giunsero in Europa dopo la spedizione di Matteo Ricci: gli I-Ching, il libro dei mutamenti, le cui figure, come nella logica che Leibniz vagheggiava – e che oggi fa funzionare i nostri computer – sono combinazioni di due soli elementi, le linee lunghe e le linee spezzate, equivalenti all’uno e allo zero. In quel sistema Leibniz vide una conferma della possibilità di comprendere la lingua che la mente divina parla nel libro della natura. Della «clavis universalis» e della «mathesis universalis», queste idee così metafisiche, rimane traccia nei simboli che usiamo ancora oggi quando facciamo dell’analisi matematica.

Leibniz coltivava anche dei sogni «sociali». Scrisse un piano per la costruzione di una Società  delle Arti e delle Scienze in Germania e un abbozzo su società ed economia, nei quali sviluppava una ragionevole utopia: l’obiettivo primario dello stato deve essere quello di liberare i cittadini dalle fatiche del mondo fisico, perché «tutti possano costantemente sperimentare tutti i tipi di pensieri e idee innovatrici, proprie a loro stessi e agli altri, senza perdere tempo prezioso». La schiavitù del lavoro non migliora la produttività, produce solo ingiustizia. Ecco una bella idea, di quelle che stranamente con confortano potenti e monarchi, né allora né oggi.


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