Mario Perniola, La società dei simulacri nel tempo del governo dei peggiori. Oclocrazia

by gabriella

Ho aspettato trent’anni per ripubblicare questo libro, nonostante  le ripetute sollecitazioni di lettori e di editori. Infatti solo ora i fenomeni sociali descritti allora, al loro sorgere, il potere delle organizzazioni criminali e la decadenza del sapere, hanno raggiunto il loro momento culminante.

Si è così verificata un’inversione di tendenza: qualcuno si è finalmente accorto che la distruzione sistematica dell’eredità civile, culturale, morale ed estetica  dell’Occidente e dei criteri di legittimazione  elaborati attraverso più di due millenni, giova alla diffusione dell’ignoranza e della paura, sulle quali prosperano le mafie e il conformismo consumistico. E comincia ad avere il coraggio di dirlo e trova anche spazio in qualche quotidiano senza essere censurato dal timore dei capo-redattori e dei direttori dei giornali di vendere qualche copia in meno o di dispiacere ai loro padrini politici. Nel momento in cui l’amministrazione della giustizia e le istituzioni sanitarie, scolastiche ed accademiche collassano, si è manifestato finalmente il dubbio che il furore contro le aristocrazie scientifiche, intellettuali e burocratiche ha portato al trionfo delle oclocrazie, cioè al governo dei peggiori. Spacciare l’oclocrazia per democrazia è un errore fatale che gli antichi Greci non avrebbero mai commesso.
Il successo che ha ottenuto la prima edizione di questo libro, al punto di essere il più citato tra i miei lavori, si è basato spesso su di un equivoco. Infatti la nozione di simulacro è stata per lo più intesa come sinonimo di falsità, d’inganno, di frode e quindi come una teoria della manipolazione mass-mediatica; al contrario, essa è un salvagente per galleggiare nel tempestoso oceano della comunicazione, in cui tutti siamo, volenti o nolenti, immersi. La posta in gioco era la seguente: inutile impegnarsi nella difesa degli intellettuali, nelle tre forme classiche di giornalisti, professori e politici. Già nel 1980 – anzi già dal 1968 – era evidente che la civiltà di cui erano stati i protagonisti stava tramontando: lungo trent’anni, hanno cercato di difendersi con le unghie e con i denti in una società che non aveva più bisogno di loro, sposando via via le opinioni più idiote, purché sembrassero nuove, up-to-date, riformiste, e contribuendo così in modo determinante al totale sfacelo delle loro istituzioni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ai giornalisti non è rimasta altra strada che quella di trasformarsi in investigatori rischiando la vita; i professori, posti continuamente sotto accusa di autoritarismo e destituiti dal loro compito fondamentale di educatori, sono oggi privi di ogni autorevolezza e completamente demotivati; infine i politici hanno cessato da tempo di essere degli intellettuali, non hanno più bisogno di una legittimazione proveniente dalla leggi e dal sapere, perché fondano il loro potere sull’appoggio delle organizzazioni criminali e di  masse che sono tanto più manipolabili quanto più sono ignoranti. Le premesse di questo collasso erano già evidenti nel 1980, ma troppi pregiudizi ideologici legati alle teorie politiche del passato o alla controcultura sessantottesca impedivano di vederle.

Il simulacro è qualcosa che, ponendosi al di là del vero e del falso, è più prossimo al gioco, all’arte e alla cultura, che alla metafisica, all’etica e alle ideologie politiche. Non a caso, il primo ad introdurre questo termine nel pensiero filosofico del Novecento e forse l’unico a farne un uso coerente e chiaro, è stato Roger Caillois nel volume I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958). Egli distingue quattro tipi fondamentali di giochi: l’agon (competizione), l’alea (fortuna), mimicry (simulacro) e ilinx (vertigine).  I primi due  formano una coppia, così come gli ultimi due. La competizione e la fortuna obbediscono allo spirito di contesa, sia pure regolandola in modo opposto (nel primo caso col merito e nel secondo col caso). Anche il simulacro e la vertigine sono strettamente connessi tra loro: l’imitazione, spinta al suo estremo, cancella l’originale risultando inseparabile dall’esperienza del vuoto. Il simulacro non è uno spettacolo ricreativo, né una messa in iscena manipolatoria e mistificante, ma un mimetismo che implica la scoperta della precarietà dell’esistenza e la sospensione della soggettività individuale: esso è una terapia per sopravvivere, trasformando il sentimento di smarrimento e di demoralizzazione in una volontà di sfida e in un’ebbrezza prossima alla trance.

La società dei simulacri in tempo di pace

Inoltre bisogna tenere presente che il contesto storico in cui uscì La società dei simulacri, consentiva ancora una certa leggerezza di spirito unita a prospettive di attesa positive. Il discorso della pace regnava incontrastato dalla fine della Seconda guerra mondiale: la cosiddetta “guerra fredda” non diventò mai calda. Diede luogo a guerre limitate e locali (Corea, Vietnam…), ma i discorsi di entrambe le grandi potenze rimasero “pacifisti”. Quando il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, eletto nel 1981, cominciò due anni dopo a descrivere l’Unione Sovietica come “l’impero del male”, la maggior parte dell’opinione pubblica europea non gli diede troppo peso, considerando questa espressione come una semplice manifestazione della propaganda anti-sovietica.

Quindi era ancora possibile da un lato intraprendere strategie raffinate e sottili come quella che sottende a questo libro, dall’altro pronunciarsi senza riserve a favore delle trasformazioni in atto: l’operazione culturale che succede alla politica ideologica, la logica della seduzione che prende il posto della razionalità dialettica, l’olografia sociale che  sostituisce la società totalitaria. In altre parole, la società dei simulacri presuppone il rispetto del diritto internazionale stabilito nel 1949 delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri, sulla protezione delle persone civili e così via. In realtà, la rivoluzione iraniana del 1979 aveva cominciato a destabilizzare questo quadro, ma per quasi tutti gli anni Ottanta i pensatori europei (con l’eccezione di Michel Foucault e di qualche altro) avevano preferito chiudere gli occhi sull’irruzione di questo evento impensabile attraverso le categorie del pensiero moderno occidentale: l’idea di una rivoluzione teocratica appariva infatti come qualcosa di inconcepibile.

Il mio libro rimase perciò impigliato nella rete del postmoderno, del quale a ben vedere costituiva la critica. La mia polemica con Gianni Vattimo contro il “pensiero debole” nel 1983 svelò subito l’equivoco, ma ormai la parola “società del simulacro” era entrata nell’uso comune come sinonimo di “società dello spettacolo”, esattamente il contrario di quello che significava in Caillois, Klossowski e  perfino in Baudrillard.


La società dei simulacri al tempo della neoguerra

Poco prima che scoppiasse la Prima guerra dell’Iraq, in occasione del corso Figuras del secreto, organizzato da Jorge Lozano nella sede estiva dell’Università  Complutense di Madrid, all’Escurial  nel luglio 1989, in occasione del sessantesimo compleanno di Baudrillard, io mi resi conto tuttavia che l’equivoco che permaneva intorno alla nozione di simulacro, doveva essere dissipato. Ne seguì un’accanita polemica tra lui e me intorno ai limiti di questa parola, che, a mio avviso, non poteva essere estesa fino a comprendere tutti gli aspetti della società moderna. Il ritorno del discorso della guerra due anni dopo mi diede ragione: tuttavia l’enorme apparato propagandistico messo in piedi da una coalizione diretta dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna insieme  alla brevità del conflitto non incrinarono in modo determinante la fiducia nel carattere progressivo della comunicazione. Sebbene l’arte già alla fine del decennio precedente avesse imboccato la strada del ritorno al reale, per tutti gli anni Novanta il clima culturale occidentale fu caratterizzato da un entusiasmo smisurato nei confronti della Computer-mediated communication (CMC) e da una crescente ostilità nei confronti delle discipline umanistiche.

 

La società dei simulacri al tempo della guerra infinita

A partire dal momento in cui il discorso bellico si radicalizza al punto da proclamare la possibilità di una guerra infinita, espressione assurda per la polemologia classica, è chiaro che il processo di autodistruzione della società occidentale ha raggiunto il suo apice. Nel 2000 è nata questa rivista il cui senso, nei diciannove numeri pubblicati, è stato quello di riaffermare la possibilità di una cultura estetica in un mondo che pare averla completamente dimenticata. Cosa vuol dire cultura estetica? Ciò che Kant e Schiller avevano chiaramente espresso nell’età dell’Illuminismo: disinteresse, assenza di preconcetti, indipendenza nei confronti del raggiungimento di uno scopo ed emancipazione dalla particolarità del singolo individuo. In altre parole, occorre  fare un passo indietro verso il proprio passato, e prendendo ad esempio la politica culturale di alcune grandi civiltà orientali, ristabilire il rapporto tra l’innovazione economica e tecnologica e l’eredità plurimillenaria che ha consentito all’Occidente di elaborare  concezioni del mondo e stili di vita universalmente validi. Parafrasando George Kubler, chi lavora continuamente al proprio miglioramento non è mai solo nel mare magnum della storia. Tutti gli esseri umani attivi sono collegati tra loro; le loro esistenze sono allacciate dinamicamente tra loro per sempre. Infatti chi cerca di dare un senso alla propria vita sta, come gli angeli di Tommaso d’Aquino, in una dimensione intermedia tra l’eternità e il tempo:  dimora nell’aevum, cioè in una durata che ha un inizio, ma non una fine!

Conclusione

1. Encomio di Elena

Le due prospettive secondo cui è tradizionalmente pensata la seduzione sono quella teologica e quella libertina. La prima considera la seduzione come male e vede nel seduttore un corruttore e nel sedotto un corrotto. La seconda intende la seduzione come affermazione della volontà del singolo che sa farsi padrone delle volontà altrui. Il teologo ovviamente condanna ciò che il libertino esalta: il primo vede orgoglio diabolico là dove il secondo vede il trionfo prometeico della abilità umana, ma entrambi definiscono il sedurre come l’imposizione di una volontà soggettiva mediante l’inganno, e l’essere sedotti come un’adesione più o meno consapevole alla volontà altrui. Le due prospettive sono dunque riportabili ad un unico concetto di seduzione, secondo il quale il desiderio soggettivo impone la propria sovranità per mezzo della frode e nell’ambito del quale il seduttore è il protagonista attivo, il sedotto la sua vittima per metà beffata e per metà colpevole.

Completamente differente da questo concetto teologico-libertino della seduzione è l’idea sofistica dellapát?. Essa costituisce uno dei cardini della riflessione di Gorgia di Leontini, il quale libera da ogni biasimo e da ogni colpa la vittima, considera la seduzione come l’ingresso in una logica che s’impone innanzitutto al seduttore, dissolve la dimensione dell’inganno e della frode. Ne emerge una concezione della seduzione opposta a quella della metafisica occidentale, la quale si fonda tanto sulla condanna pronunciata da Socrate e Platone nei confronti della sofistica, quanto sull’anatema espresso dal monoteismo nei confronti della seduzione idolatrica. Gorgia nel suo discorso Encomio di Elena sottrae la vittima di Paride alla cattiva fama e alla riprovazione di cui ella è stata oggetto: chi si lascia sedurre dalla parola non è affatto colpevole, anzi è più saggio (dikaióteros) di chi non si è lasciato sedurre; “infatti si lascia vincere dal piacere delle parole l’essere che non è privo di sensibilità”.1 Solo colui che è “troppo privo di un’assennata esperienza (amathósteros)” non può essere sedotto: cedere alla seduzione implica, secondo Gorgia, una saggezza speciale. Il biasimo di chi si fa sedurre è perciò ingiusto e deriva dall’insufficienza dell’opinione (dóxas amathía). “Ma l’opinione è malsicura e priva di fondamento e perciò nel viluppo di deviazioni malsicure e prive di fondamento getta coloro che ad essa ricorrono”,2 mentre la seduzione, l’ apát, ha la necessità del lógos.

Dunque esiste una logica della seduzione, che s’impone tanto a chi è sedotto quanto al seduttore, che ha una dimensione completamente indipendente ed opposta alla loro volontà soggettiva, che è in rapporto con il kairós, con l’occasione. Quindi l’attività del seduttore non è affatto l’affermazione della sua volontà soggettiva, non è l’attuazione di una trama, di un disegno tenebrosamente concepito, bensì riesce ad essere seduzione efficace, persuasione che trasforma mediante una malia fascinatrice, solo nella misura in cui obbedisce all’occasione. Il kairós non è un criterio, non ha “l’arroganza del diritto positivo”, né “il rigore della legge”, non segue la logica dell’identità, ma apre un ambito di differenza radicale. Il kairós non è la giustizia cosmica che si esprime in una legge universale ed assoluta, ma piuttosto l’epieik?s, ciò che è conveniente e corretto in un particolare momento e che perciò è per definizione differente, continuamente contraddittorio rispetto a se stesso. Il processo di seduzione perciò implica obbedienza illimitata alla logica del kairós, perché solo a questa condizione la parola può diventare “un potente sovrano, che con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine”. La seduzione non è affatto imporre se stessi, ma al contrario implica una completa ascesi che faccia “dire e tacere, fare e tralasciare ciò che si deve nel dovuto momento”3 La seduzione è così unione tra ragione (gnõm?) e forza (rõm?) “in modo da prendere decisioni con quella e ottenere un risultato pratico con questa”. È implicito nel concetto di seduzione la sua riuscita pratica; la riuscita non si aggiunge successivamente al momento logico, come nella realizzazione di un progetto: l’occasione è appunto coincidenza di lógos e realtà. Perciò Gorgia ripete ciò che già diceva Pitagora: bisogna essere “prepotenti coi prepotenti, saggi coi saggi, intrepidi con gli intrepidi, tremendi in situazioni tremende”. 

Il seduttore, ben lungi dall’essere un superuomo o una personalità soggiogante, risulta privo d’identità. Questa mancanza di identità presenta vari aspetti. Il seduttore è innanzitutto polútropos, come diceva Omero a proposito di Ulisse: tale aggettivo non deve essere inteso nel senso di ingannatore, bensì nell’accezione letterale di versatile e vario. Il seduttore non occupa un solo luogo, non ha un’identità, ma è differente, disposto ad occupare molti luoghi. Egli in fondo è Nessuno. La situazione in cui è costretto a muoversi gli è via via imposta dall’occasione, dal kairós: Ì termini concreti del gioco sono stabiliti dal sedotto; egli ha possibilità di azione solo se li accetta. Sfugge alle possibilità del seduttore la trasformazione metafisico-morale del mondo: “nulla esiste, se anche vi è un’esistenza non può venir rappresentata, se anche può venir rappresentata, non può certamente essere comunicata e spiegata agli altri”4.

La condizione di colui che adopera il discorso è tanto più drammatica quanto più ritiene di essere nel vero, di farsi interprete di una realtà, di conoscere un rimedio efficace: infatti, come osserva Tucidide, “i buoni consigli, schiettamente espressi, danno adito a sospetti non meno di quelli dannosi”5. La difesa di un innocente richiede per essere efficace non meno apàte che la difesa di un colpevole: la verità dei fatti non risulta affatto “pura e manifesta” dalle argomentazioni. L’autodifesa che Gorgia fa pronunziare a Palamede sottolinea appunto in modo drammatico il fatto che la chiave della persuasione non sta in chi parla, ma in chi ascolta. Palamede può essere perfettamente innocente, ma se coloro che lo devono giudicare non hanno prestato attenzione o non si ricordano di ciò che egli ha detto, sarà condannato. Il sedurre non è una prevaricazione sugli altri, ma al contrario implica un’infinita obbedienza all’occasione, o come dice Gorgia a proposito delle gare olimpiche, richiede ostinatezza (tólma) e abilità (sofia): “ostinatezza per affrontare il pericolo, abilità per conoscere ciò che è conveniente”.

Tutto ciò comporta il dissolvimento dei concetti di verità e di inganno, di realtà e di apparenza: queste distinzioni appartengono alla metafisica e non hanno significato nella prospettiva aperta da Gorgia. Per lui “l’essere riesce oscuro se non coincide con l’apparenza; l’apparenza è inconsistente se non coincide con l’essere”6.  Egli sviluppa così nel mondo antico la possibilità di un’estetica della seduzione opposta all’estetica aristotelica dell’imitazione, che è solidale alla metafisica occidentale.

2. Il nome segreto di Roma

Se dall’apate sofistica si passa alla seductio latina, la logica della seduzione si arricchisce di nuove articolazioni che confermano e sviluppano le opinioni di Gorgia. L’etimologia della parola seduco conferma la concezione della seduzione come annullamento e ascesi del seduttore: infatti non deriva da “sui-duco” (trarre a sé), ma da sed-duco, trarre in disparte, separare, dividere, disgiungere, in conformità al significato della particella sed che indica la separazione, l’allontanamento, la disgiunzione. La seductio dunque significherebbe l’atto che sottrae al contesto originario, una specie di détournement.

Nella storia dell’antica Roma, l’esempio più sorprendente di una seductio politico-militare è connessa al rituale religioso dell‘evocatio. Mentre le popolazioni semitiche (Assiri e Babilonesi) combattevano insieme i nemici e i loro dei, i romani (come gli Hittiti) concepivano le divinità del nemico come separabili dalle città e dalle popolazioni cui erano connesse. Mentre i semiti quindi pensavano la guerra come qualcosa di totale, che coinvolgeva anche gli dei, i Romani ritenevano di non poter conquistare una città, se non dopo avere sedotto, o con termine tecnico, appunto evocato la divinità che la tutelava. Questa veniva perciò invitata ad abbandonare la sua residenza e a trasferirsi a Roma, dove riceveva in cambio l’erezione di un tempio e l’organizzazione di un culto. Condizione indispensabile della riuscita della evocatio è il fatto che la città e il dio fossero designati col loro vero nome.7

Questo rituale, il cui significato è insieme militare, politico, culturale e religioso, si muove in una prospettiva opposta a quella della metafisica occidentale. I Romani invece si appropriano di ciò che è estraneo: secondo l’evocatio romana la conquista è impossibile se non sì assimila il patrimonio spirituale e culturale del nemico, che deve essere oggetto di rispetto e di culto; anzi condizione della sconfitta del nemico è il fatto che egli sia separato dalla propria radice culturale e religiosa, che sia privato della sua identità: egli può così entrare nella logica della seduzione, la quale mostra il carattere relativo e provvisorio di tutte le opposizioni, il movimento attraverso cui il nemico si trasforma in amico e viceversa, l’enantiodromia per cui ogni cosa si capovolge nella cosa contraria. Il rapporto seduttore-sedotto non è infatti riconducibile né ad un rapporto di amicizia, né ad un rapporto di inimicizia, non è né amore, né odio, ma semmai l’iniziazione del sedotto da parte del seduttore ad una dimensione, la cui logica s’impone con lo stesso rigore ad ambedue.

Gli dei sedotti non perdono nulla della loro dignità: essi vengono a Roma non come prigionieri, ma di loro volontà. Il muto annuire della statua era considerato come una condizione del trasporto, che doveva essere effettuato da giovani. La costruzione di un tempio, generalmente sull’Aventino, garantiva loro un’adeguata sistemazione.

L’evocatio è il contrario della prevaricazione: Roma non porta i propri dei nella città nemica, ma fa loro spazio nel suo ambito. Stabilisce così con le città vìnte un rapporto di seduzione che si trasmette successivamente agli abitatori di queste: essa diventa così la nuova patria, il nuovo centro di attrazione delle popolazioni soggette. Non un Vaterland, basato sulla devozione, ma mi Kinderland, basato sulla seduzione.

Nel rituale della evocatio esiste un secondo aspetto ancor più sorprendente. Per evitare che Roma stessa fosse oggetto di evocatio da parte delle popolazioni nemiche, i Romani — dice Macrobio — vollero che rimanesse ignoto il dio sotto la cui protezione è posta la città di Roma e il nome latino della città stessa. Ne segue che la logica della seduzione costringe i Romani e Roma ad essere privi di dio e di nome: invece di porsi come soggetto, il seduttore può essere tale solo a condizione di essere nessuno, un puro spazio vuoto occupato dagli dei e dai nomi dei sedotti.

Hegel ha colto con acume, sebbene in modo aspramente critico, questo aspetto del mondo romano, quando dice che a Roma la realtà esteriore è qualcosa di diverso e di segreto: “lo stesso oggetto esteriore viene considerato [dai Romani] sotto un duplice aspetto, una volta come mera esteriorità e una seconda volta come contenente in sé qualcosa di interiore, di sacro, che d’altro canto non perviene a manifestazione”. Ne deriva che tutto presso i Romani si presenta come misterioso e duplice.8 Questo duplice aspetto dell’esteriorità è appunto il carattere essenziale del simulacro, che dissolve la distinzione tra apparenza e realtà a favore di una terza dimensione che le oltrepassa. Il fatto che la maggiore potenza politica dell’antichità si fondasse sul divieto rigorosamente rispettato di accedere al proprio vero nome e al proprio vero dio, cioè alla fonte della propria identità, fa di tutta la civiltà romana una simulazione: ma questa simulazione è al di là della distinzione tra verità e menzogna; essa nasconde soltanto un nome e un dio che non esiste, o almeno di cui in ogni caso si può fare completamente a meno. La problematica della seduzione si rivela così inseparabilmente connessa a quella del simulacro.

3. Il Teseo francese e il convitato di pietra

La logica della seduzione torna ad esprimersi nel Seicento, per esempio nel trattato El Héroe di Gracián. Non a caso Gorgia, che vantava la concisione del proprio discorso, che chiamava gli avvoltoi “tombe viventi” e che aveva introdotto nella politica il linguaggio poetico, è stato considerato come un anticipatore del gusto barocco.9 È noto inoltre che il mondo romano costituiva un punto di riferimento fondamentale per Gracián.

L’estrema indeterminatezza delle qualità del seduttore è messa bene in evidenza dalle considerazioni di Gracián sul despejo, il quale “consiste en una cierta airosidad, en una indecible gallardia, tanto en el decir como en el hacer, hasta en el dicurrir”10. II traduttore francese settecentesco di Gracián, il gesuita Joseph de Couberville, autore di una versione molto libera del Héroe traduce il despejo con “le je ne sais quoi”.11 Nella parola spagnola ancor più che nella locuzione francese è bene indicata l’assenza di identità del seduttore, il cui fascino consiste proprio nell’essere sgombro, libero, aperto, nel fare spazio alle particolarità dell’occasione, alle determinazioni del sedotto. La precisazione di questo “je ne sais quoi” dipende dall’impressione che esercita su coloro che seduce. Perciò saranno i sedotti ad attribuire al seduttore ora la maestosità e la grandezza, ora la fierezza e la grazia, ora la vivacità e la dolcezza e così via…; “les uns voient le Je ne sais quoi où les autres ne l’aperçoivent pas: et c’est encor une de ses propriétés de ne frapper pas egalement tout le monde, mais de ne nous frapper que conformément à la manière dont chacun de nous est sensible“. Il seduttore apre un ambito vuoto che ognuno può riempire con ciò che vuole, che aspetta un contenuto dall’occasione, e tuttavia non si confonde con questa, perché l’occasione in se stessa conta meno della capacità di còglierla. Un “heroico desembarazo” attribuisce Gracián a Enrico IV, il “Teseo francese” che  “con el hilo de oro del despejo supo desligarse de tan entricado laberinto”.

Con Gracián la seduzione è riconosciuta come la condizione essenziale del governare, alternativa sia rispetto al carisma, che implica un’autorità fondata su qualità che ineriscono essenzialmente al capo, sia rispetto al consenso, che presuppone un insieme di credenze condivise dalla maggior parte dei membri della società; le seduzione è autosoppressione dell’identità del potere e ripetizione simulata delle identità dei sedotti. La logica della seduzione è solidale al processo di derealizzazione e culturalizzazione radicale che investe il mondo barocco.

Qualche anno prima della pubblicazione deSVHéroe di Gracián, nel 1630 era uscito il dramma di Tirso de Molina El burlador de Sevilla y convidado de piedra, una delle più importanti se non la prima delle tante opere che nel corso del Seicento e del Settecento porteranno sulla scena il mito di don Giovanni. Se si paragona don Giovanni con l’eroe di Gracián, la differenza è abissale: il don Giovanni di Tirso è un volgare imbroglione che raggiunge i suoi scopi sostituendosi ad un’altra persona oppure facendo promesse ài matrimonio che sa bene di non mantenere. I don Giovanni successivi, a cominciare da quello di Molière, si caricano di uno spessore psicologico del tutto estraneo alla problematica della seduzione sofistico-barocca, quando non ricadono nella mera dimensione libertina. Eppure l’opera di Tirso de Molina segna ancora un momento importante nella problematica barocca della seduzione non tanto per la figura di don Giovanni, quanto per il rapporto di questi col suo nemico, don Gonzalo de Ulloa, il convitato di pietra. La parte finale del dramma, il duplice invito e la duplice cena, che è stata generalmente considerata come un epilogo edificante e moralistico, contiene invece il significato profondo dell’opera. Il generalmente considerata come un epilogo edificante e moralistico, contiene invece il significato profondo dell’opera. Il vero seduttore infatti non è don Giovanni, ma il convitato di pietra, il quale gioca sul terreno di don Giovanni, accetta il suo invito a cena e contraccambiandolo riesce a portarlo nel sepolcro.

Il centro drammatico di quest’ultima parte sta tutto nella domanda: perché don Giovanni, così abituato a mentire spudoratamente, mantiene la promessa fatta al simulacro del commendatore e va sul serio alla cena fatale? Don Gonzalo mette subito in evidenza il paradosso: “non credevo — dice — che tu m’avresti serbato fede, tu che ti prendi gabbo di tutti”.12 Perché don Giovanni corre incontro alla propria rovina solo per mantenere la parola data ad una statua? La spiegazione di questo paradosso deve essere ricercata nella virtù gesuitico-barocca, l’indifferenza. Il convitato di pietra è appunto un modello irraggiungibile di indifferenza: “È un uomo assai temibile — dice il servo a don Giovanni — esso è di pietra e tu sei di carne”. I precedenti successi di don Giovanni non fanno che mettere in evidenza il successo finale del convitato di pietra: sedurre il seduttore. I successi di don Giovanni sono raggiunti con l’inganno, il successo del convitato di pietra si fonda invece sull’attrazione irresistibile che egli esercita su don Giovanni. Ancora una volta simulacri e seduzione sono congiunti. La logica della seduzione s’impone al di sopra delle singole soggettività.

4. L’olografia sociale

L’eclissi della seduzione è parallela all’affermazione della civiltà politico-culturale aperta dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. Questa, fondandosi sull’entusiasmo e sull’occultamento, sull’impegno emotivo e sul travestimento, si muove secondo una prospettiva che è opposta a quella delineata da Gorgia, dall‘evocatio romana e dal mondo barocco.

L’ideologia politica è completamente priva di seduzione: essa è troppo sovraeccitata e troppo mistificatoria per poter lasciar posto, far spazio, consentire al kairós di manifestarsi; non può cogliere l’occasione, perché prevarica anticipatamente su di essa investendola emotivamente e coprendola di significati. Ignora le premesse della seduzione, cioè il silenzio e l’attesa, il suo processo fatto d’indifferenza e di trasparenza, il suo successo che è condizionato dall’obbedienza al dato nell’operazione simulatrice e dalla dissoluzione del modello.

L’età aperta dall’Illuminismo conosce una divaricazione radicale tra potere e seduzione: chi sostiene che “là dove c’è potere non c’è seduzione e viceversa là dove c’è seduzione non c’è potere” si riferisce appunto a tale civiltà politica. In effetti in quella età da un lato il potere ha assunto una dimensione soggettiva, individuale (come nelle dittature) oppure collettiva (in nome della nazione, del popolo, del proletariato…), dall’altro la seduzione è rimasta relegata nell’ambito del negativo, della trasgressione, del resto.

L’avvento della società dei simulacri ristabilisce la connessione tra potere e seduzione. Il potere infatti non è più la rappresentazione di una volontà politica dotata di contenuti e di significati, ma l’operazione formale che derealizza qualsiasi dato, e quindi è indifferente ai singoli contenuti concreti. Se il modello cui s’ispirava il potere ideologico era il teatro, con la sua pretesa di partecipazione emotiva e l’inevitabile mascheramento istrionico, il modello del nuovo potere è l’olografia, cioè la resa tridimensionale dell’immagine di un oggetto. La seduzione dell’ologramma sta proprio nel fatto di essere vuoto, di non giustificare nessuna illusione e nessuna speranza, e ciononostante nell’essere esperibile ed apprezzabile per quello che mostra.

Naturalmente la pretesa di trasformare l’intera società in un ologramma sarebbe una stupida utopia tecnocratica, se la società non fosse già un ologramma che sfugge ad ogni velleità di controllo tecnocratico. L’alternativa non è tra un mondo vero, fatto di carne e di sangue, ed un mondo finto, fatto di immagini e di luce, ma tra lo scambiare l’ologramma per un oggetto “reale” e il vederlo come tale. Questa alternativa ovviamente non è una questione morale o una “presa di coscienza”: semmai è piuttosto un semplice imperativo di “realismo politico” che impone la secolarizzazione e il disincanto. Ma tali espressioni sono del tutto inadeguate di fronte ad una situazione che chiede di essere voluta, per cosi dire “a scatola chiusa”, proprio perché forse non ha molta importanza che cosa contenga la scatola.

Il simulacro di società che l’olografia sociale delinea non seduce per una sua forma determinata o per una sua unica prospettiva, ma al contrario per la sua indeterminatezza, per la sua disponibilità ad assumere a seconda del punto di vista dell’osservatore forme molteplici. Un potere seducente è alternativo rispetto al carisma, fondato sul mito e sulla fede, e al consenso, fondato sulla socializzazione del pensiero. A partire dal momento in cui la seduzione diventa una questione politica, il ruolo e la funzione di quella Lumpen-intelligentsia, di quella intellettualità priva di una precisa identità di classe che, in opposizione all’intellettualità del giornalismo, dell’università e della politica, ha gestito finora l’ambito di una seduzione senza potere sembra destinata a mutare in modo radicale: ad essa si pongono compiti assolutamente nuovi che non possono essere risolti con un ribellismo pregiudiziale, né con un negativismo programmatico.

L’estetica, intesa come teoria generale di una seduzione potente e di un potere seducente, succede alla politica ideologica, la logica dell’occasione alla razionalità dialettica, il social network manager all’intellettuale, l’olografia sociale alla società dello spettacolo.

Tratto da: http://www.agalmaweb.org/articoli.php?rivistaID=20

Filippo Grillo, Oclocrazia

Dal greco òchlos, folla, moltitudine, plebe, e kratèin, dominare: il dominio della moltitudine, del popolo quindi; ma con un significato distruttivo di ogni garanzia democratica. Perché il governo olocratico permette a un tiranno il sostegno di quella moltitudine e dunque un governo assolutista, antilibertario e incentrato sull’egolatrìa del medesimo tiranno.
Nella sua “Storia universale” Polibio, dopo aver spiegato ogni forma di governo del consorzio sociale, dalla monarchia alla tirannide, passando per l’aristocrazia e l’oligarchia e dunque alla forma perfetta di governo, la democrazia, ci dice che quest’ultima forma di governo può degenerare in una oclocrazia.
Pare oggi che questo trauma voglia evitare il deputato Remigio Ceroni (Pdl) che così modificherebbe l’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale”.
Mia domanda: la volontà popolare potrà esprimere anche l’indicazione di chi potrà farsi tiranno? L’argomento comprende il dovere di scrivere pagine ma le condizioni poste dal Corriere non me lo permettono. Allora faccio solo osservare che ci si può chiamare come si desidera meglio ma sono i FATTI che varranno sempre e comunque. I FATTI aldilà e prima delle parole. E i FATTI non debbono mai andare contro il rispetto della dignità di ogni persona, nel suo completo e più alto significato, a parte la “dignità” inesistente del tiranno.
Mi permetto ricordare, con il pensiero di Piero Calamandrei, “dove è nata la nostra Costituzione”: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
Consiglio a tutti i “riformatori” della nostra Costituzione di mai dimenticare questa testimonianza. E di chiedersi invece, di quali fatti si siano resi autori per migliorare l’esistenza del “Popolo sovrano”, quando questo ha espresso la sua volontà, ieri e oggi, ma già con questa Costituzione la quale, qualora disattesa, non prevederebbe ancora addobbi di sorta. Sarebbero inutili, senza valore e senza significato.

1 Plutarcus, de gloria Atheniensium, 5 p. 348 c, in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, Firenze, La Nuova Italia, 1961 2°, fasc. II.

2 Gorgia, Helena, in op. cit.

3 Planudes, in Hermogenem, V, 548 Walz, in op.cit.

4 Sextus Empiricus, adversus mathematicos,  VII, 65 e segg, in op.cit.

5 Thuciydides, III, 43.

6  Proclus, in Hesiodi opera, in Sofisti, Testimonianze e frammenti, op. cit.

7 Macrobius, Saturnalia, III, 9, 1-9. Cfr. V. Basanoff, Evocatio. Ètude d’un rituel militaire romaìn, Paris, P.U.F., 1947.

8 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschite, Hamburg, Meiner, 1923, III, 2 (tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 1963, voi. III).

9 Th. Gomperz, Griechìsche Denken, Leipzig, Veit, 1896-1902 (tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 1944-62).

10 B. Gracián, El héroe, cap. XII, in Obras Completas, Madrid, Aguilar, 1967 (tr. it. Milano, Bompiani, 2008).

11 B. Gracián, Le héros, tr. franc, de J. de Couberville, Paris, Pissot, 1725.

12 Tirso De Molina, El burlador de Sevilla y convidado de piedra, scena XXI, in Obras dramáticas completas, Madrid, Aguilar, 1946 e segg. voi. II, scena XXI, (tr. it. Lanciano, Carabba, 1916).

Tratto da: http://forum.corriere.it/scioglilingua/21-04-2011/-oclocrazia-1776549.html

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