Il Prologo del libro di Flores d’Arcais, Dio ha bisogno della democrazia? Falso! [Laterza, 2013]. Il filosofo del diritto ripercorre le ragioni della laicità e della separazione tra la sfera pubblica e un sentimento religioso necessariamente privato, se si ha in mente la democrazia.
Dio è compatibile con la democrazia? Domanda sconveniente, domanda tabù, che infatti non echeggia mai nei ricorrenti dibattiti su religione e politica, quasi che fosse temerario anche solo pensarla, e blasfemo formularla. Eppure la risposta dovrebbe essere un perentorio NO, se dovessimo adeguarci all’invito evangelico
“il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal Maligno”, Matteo 5,37.
Se vogliamo invece essere più precisi – cioè in questo caso più sfumati – dovremmo rispondere: difficilmente, solo sotto condizioni assai restrittive. Vale a dire: solo se il Dio che il credente si è creato lo lascia libero di scindersi tra credente e cittadino, di prescindere da Lui nella sfera pubblica. Di obbedire a Dio nella condotta personale ma di rifiutarsi che alla legge di Dio debba obbedire la comunità dei liberi ed eguali, che si dà da sé la propria legge. Questo è infatti la democrazia: autonomia, autos nomos.
Chi non riceve la legge da altri, fosse pure dall’Altro e dall’Alto, ma la crea. Sovranamente. E due sovranità non possono convivere nello stesso universo. Aut la sovranità di Dio aut la sovranità dei cittadini, perciò: una delle due deve essere proscritta dalla sfera pubblica, cedere il passo, come il “vile meccanico” di manzoniana memoria1.
Oggi sembra egemonico il pensiero opposto, che vede in Dio un ausilio delle democrazie in crisi. Tanto è vero che ormai da trent’anni uno spettro si aggira per l’Occidente, il laicismo, e una strana alleanza gli dà la caccia, proponendo di addomesticare la laicità sans phrase in laicità “positiva”, e anzi di rovesciarla. Si trattasse di una santa alleanza, quella delle religioni rivali affratellate per un momento contro la secolarizzazione che avanza, non ci sarebbe neppure la notizia. Invece, nello stracciarsi le vesti contro il laicismo si ritrovano, in sconcertante consonanza d’amorosi sensi, il filosofo dell’intransigenza repubblicana caro a quattro generazioni di sinistra e i papi della crociata contro i Lumi, un pensatore glamour del fondamentalismo islamico mascherato da liberal e troppe bandiere no global di «un altro mondo è possibile». Screziata alleanza che (si) propone di salvare la democrazia dalla sua lampante crisi ponendola sotto le ali protettrici di Dio, riconoscendo un ruolo pubblico a chiese e religioni. Sembrano obbedire in coro all’intimazione di Heidegger, secondo cui «solo un Dio ci può salvare». Ma l’esoterico filosofo dell’«invio dell’Essere» era un nazista (mai pentito), disprezzava la democrazia, e la “salvezza” che aveva in mente trasudava ipermetafisica da tutti i pori. L’alleanza che oggi invoca la presenza di Dio nell’agorà democratica è inquietante per la suameterogeneità. Procediamo a una prima ricognizione del suo variegato territorio ideologico, attraverso le parole dei suoi maîtres à penser.
Laici e credenti uniti nella lotta
Il 1° aprile 2005, mentre don Stanisław Dziwisz somministra l’estrema unzione a papa Wojtyła ormai al culmine dell’agonia, il cardinale Joseph Ratzinger tiene una conferenza il cui passaggio fondamentale recita:
Dovremmo capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur come se Dio ci fosse.
Quel discorso costituisce il vero e proprio “manifesto” anti-illuminista con cui Ratzinger, nel candidarsi alla successione di Giovanni Paolo II, formula un programma “secolare” ed “ecumenico” che si rivolge non solo al “gregge” cattolico ma anche al mondo dei non credenti e diversamente credenti. Jürgen Habermas gli fa immediatamente da sponda. L’erede della scuola di Francoforte se la prende infatti con gli «intellettuali laicisti di stampo francese» e il loro «zelo militante a difesa della tradizione universalistica dell’illuminismo», che avrebbe il torto di poggiare su un «postulato filosofico assai discutibile», secondo cui «la religione dovrebbe ritirarsi dalla sfera pubblica politica e restringersi all’ambito privato».
Tariq Ramadan, vezzeggiato come liberal da troppi media occidentali, ci va addirittura a nozze, e un suo sostenitore americano può così riassumerne la posizione:
il cristianesimo ha molto da imparare dall’esperienza moderna dell’islam e dalla sua resistenza feroce a certe forme di compromesso con la filosofia dei Lumi, come la riduzione della religione alla sfera privata e l’erezione di un muro a tenuta stagna tra la religione e lo Stato.
Anche Ratzinger chiede comunque il rovesciamento radicale della modernità e della laicità, cancellando oltre tre secoli di quel “disincantamento del mondo” che in ambito politico aveva trovato con Grozio la formulazione che ora si vuole ribaltare: nelle relazioni pubbliche agire etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. A questo punto si impone un caveat di speranza: è possibile che il pontificato di Francesco segni un mutamento sostanziale in tema di laicità così come annuncia di fare – e già realizza simbolicamente – in tema di rapporti della Chiesa con il denaro. Nella sua prima enciclica, però, il papa che viene «dai confini del mondo» ribadisce, seppure in un contesto scevro dalla baldanza crociata di Benedetto XVI, la posizione del suo predecessore:
Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno… Se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, si affievolirà la fiducia tra di noi, ci terremmo uniti soltanto per paura, e la stabilità sarebbe minacciata.
Chi vivrà vedrà.
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