Paolo Virno, Antropologia e teoria delle istituzioni

by gabriella

Non vi è indagine sulla natura umana che non porti con sé, come un passeggero clandestino, almeno l’abozzo di una teoria delle istituzioni politiche. L’analisi degli istinti e delle pulsioni della nostra specie contiene sempre un giudizio sulla legittimità del Ministero degli Interni. E viceversa: non vi è teoria delle istituzioni politiche degna di questo nome che non adotti, quale suo celato presupposto, l’una o l’altra rappresentazione dei tratti che distinguono l’Homo sapiens dalle altre specie animali. Per tenersi a un esempio liceale, poco si comprende del Leviatano di Hobbes se si trascura il suo De homine.

Il nesso tra riflessione antropologica e teoria delle istituzioni è stato formulato con grande schiettezza da Carl Schmitt nel settimo capitolo del suo Il concetto del ‘politico’ . Egli scrive:

Si potrebbe analizzare tutte le teorie dello Stato e le idee politiche in base alla loro antropologia, suddividendole a seconda che esse presuppongano, consapevolmente o inconsapevolmente, un uomo “cattivo per una natura” o “buono per natura”. […] Nell’anarchismo dichiarato è immediatamente chiara la stretta connessione esistente tra la fede nella “bontà naturale” e la negazione radicale dello Stato: l’una consegue all’altra ed entrambe si sorreggono a vicenda. […] Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana. […]

Se l’uomo fosse un animale mite, votato all’intesa e al reciproco riconoscimento, non vi sarebbe necessità alcuna di istituzioni disciplinanti e coercitive. La critica dello Stato, sviluppata da anarchici e comunisti, trae alimento, secondo Schmitt, dall’idea pregiudiziale di una “bontà naturale” della nostra specie. Se però, come tutto lascia credere, l’Homo sapiens è un animale pericoloso, instabile e (auto)distruttivo, sembra inevitabile, per tenerlo a freno, la formazione di un “corpo politico unitario” che eserciti, parole di Schmitt, un incondizionato “monopolio della decisione politica”.

Credo che bisogna confutare alla radice la tesi di Schmitt. A mio giudizio, la rischiosa instabilità dell’animale umano – il cosiddetto male, insomma – non implica affatto la formazione e il mantenimento della sovranità statale. Al contrario. Il “radicalismo ostile allo Stato” e al modo di produzione capitalistico, lungi dal presupporre l’innata mitezza della nostra specie, può trovare il suo autentico piedistallo nel pieno riconoscimento dell’indole “problematica”, cioè indefinita e potenziale (dunque anche pericolosa), dell’animale umano. La critica del “monopolio della decisione politica”, e in genere di istituzioni le cui regole funzionino come una coazione a ripetere, deve poggiare proprio sulla constatazione che l’uomo è “cattivo per natura”.

Il cosiddetto “male”

In che cosa consiste il “male” con cui, a detta di Schmitt, non cessa di confrontarsi ogni teoria delle istituzioni che dimostri un pizzico di realismo a proposito della natura umana? Mi limito, qui, a richiamare alcune idee fisse dell’antropologia filosofica.

L’uomo è “problematico, secondo Plessner e poi secondo Gehlen, perché sprovvisto di un ambiente definito, corrispondente punto per punto alla sua configurazione psicosomatica e al suo corredo pulsionale. Se l’animale incastrato in un ambiente reagisce con innata sicurezza agli stimoli esterni, traducendoli in un repertorio di comportamenti funzionali all’autoconservazione, l’uomo, disambientato com’è, ha da vedersela con un profluvio di sollecitazioni prive di una precisa finalità biologica. La nostra specie è contraddistinta dalla “apertura al mondo” – intendendo per ‘mondo’ un contesto vitale sempre parzialmente indeterminato e imprevedibile. La sovrabbondanza di stimoli non connessi all’uno o all’altro compito operativo suscita una costante incertezza e un disorientamento mai del tutto reversibile: nei termini di Plessner, l’animale “aperto al mondo” mantiene sempre una disaderenza, ovvero un “distacco”, nei confronti degli stati di cose e degli eventi in cui si imbatte. L’apertura al mondo, con il grado assai elevato di potenzialità indifferenziata che comporta, è correlata, sotto il profilo filogenetico, a una scarsa specializzazione istintuale, nonché alla neotenia, ossia alla permanenza di caratteri infantili anche in soggetti adulti.

Questi cenni sono sufficienti per circostanziare la “pericolosità” dell’Homo sapiens cui si appella, secondo Schmitt, la moderna teoria della sovranità statale. La sovrabbondanza di stimoli non finalizzati biologicamente e la conseguente variabilità dei comportamenti vanno di pari passo con una congenita fragilità dei meccanismi inibitori: l’animale “aperto al mondo” dà prova di una aggressività intraspecifica virtualmente illimitata, le cui cause scatenanti non sono mai riducibili a un catalogo definito (densità abitativa di un territorio, selezione sessuale ecc.), essendo esse pure variabili fino all’imponderabilità. Le lotte di puro prestigio, e perfino la nozione di “onore”, hanno un rapporto assai stretto con la struttura pulsionale di un vivente disambientato e, per ciò stesso, essenzialmente potenziale. La mancanza di un habitat univoco fa sì che la cultura sia “la prima natura dell’uomo” (Gehlen 1940, p. 109). Tuttavia, proprio la cultura, in quanto dispositivo biologico innato, mostra una sostanziale ambivalenza: smussa il pericolo, ma, per altri versi, moltiplica e diversifica le occasioni di rischio; “difende l’uomo dalla sua stessa natura”, evitandogli di fare esperienza della “propria terrificante plasticità ed indeterminatezza” (Gehlen 1956, p. 97), ma, essendo essa stessa la principale manifestazione di tale plasticità e indeterminatezza, favorisce a un tempo il pieno dispiegamento di quella natura da cui doveva difendere.

Il cosiddetto “male” può essere descritto anche richiamando l’attenzione su alcune prerogative salienti del linguaggio verbale. Problematico, ossia instabile e pericoloso, è l’animale la cui vita è caratterizzata dalla negazione e dalla modalità del possibile. La negazione fa tutt’uno con un certo grado di “distacco” dal proprio contesto vitale, talvolta addirittura con la provvisoria messa tra parentesi di uno stimolo sensoriale. La modalità del possibile coincide con l’eccesso pulsionale non finalizzato biologicamente, nonché con il carattere non specializzato dell’animale umano. L’angoscia (ossia un timore indefinito, non vincolato all’uno o all’altro stato di cose) è il risvolto sentimentale della modalità del possibile. E la negazione sta alla base dell’eventuale fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. L’evidenza percettiva ‘questo è un uomo’ perde la propria incontrovertibilità allorché è soggetta all’opera del ‘non’: l’antropofagia e Auschwitz stanno lì a dimostrarlo. Il linguaggio, lungi dall’attenuare l’aggressività intraspecifica (come assicurano Habermas e un certo numero di filosofi cuorcontenti), la radicalizza oltremisura.

Ambivalenza

Ciò che rende pericolosa la nostra specie è anche ciò che la rende capace di compiere azioni innovative, tali cioè da modificare abitudini e norme consolidate. Che si parli di eccesso pulsionale o di negazione linguistica, di un “distacco” dal proprio contesto vitale o della modalità del possibile, è del tutto evidente che si stanno indicando in un colpo solo tanto le premesse della sopraffazione e della tortura, quanto i requisiti che consentono l’invenzione dei consigli di fabbrica o di altri organismi democratici. Sia la “virtù” che il “male” presuppongono un deficit di orientamento istintuale. Le condizioni bio-linguistiche del “male” sono le stesse condizioni bio-linguistiche che innervano la “virtù”.

La piena coestensività tra pericolo e riparo permette di porre su basi più solide il problema delle istituzioni politiche. Almeno per due motivi. Anzitutto, perché insinua il dubbio che l’apparente riparo (la sovranità statale, per esempio) costituisca, in certi casi, la più intensa manifestazione del pericolo (aggressività intraspecifica). Poi, perché suggerisce il seguente criterio metodologico: le istituzioni proteggono realmente se, e solo se, si giovano delle stesse condizioni di sfondo che, per altri versi, non cessano di fomentare la minaccia; se, e solo se, traggono risorse apotropaiche dall’“apertura al mondo” e dalla facoltà di negare, dalla neotenia e dalla modalità del possibile.

Il pensiero critico contemporaneo – penso in particolare al post-strutturalismo francese – ha preso le distanze dalla dialettica, diffidando dalla sua vocazione alla “sintesi”. Benissimo. Senonché, il pensiero critico contemporaneo ha ritenuto conveniente espungere dal proprio orizzonte, insieme alla dialettica, anche solo il ricordo del negativo, ossia delle pulsioni (auto)distruttive che caratterizzano la nostra specie. In tal modo, il pensiero critico contemporaneo rischia di corroborare la diagnosi di Schmitt:

il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana.

Si tratta di un vicolo cieco. Anziché abrogare il negativo pur di sfuggire alla macina dialettica, occorre sviluppare un intendimento non dialettico del negativo. Tornano utili, a tal scopo, tre parole-chiave: ambivalenza, oscillazione, perturbante. Ambivalenza: come dicevo, unica è la radice dell’innovazione libertaria e della distruttività. Non vi è un terzo termine risolutivo, ossia una sintesi dialettica o un superiore punto di equilibrio: ciascuna polarità rimanda all’altra; anzi, già la contiene in sé, già la lascia intravedere nella sua stessa filigrana. Oscillazione: il reciproco riconoscimento tra conspecifici è segnato da un incessante moto pendolare che va dalla parziale riuscita al fallimento incipiente. Perturbante: spaventoso non è mai l’inconsueto, ma soltanto ciò con cui abbiamo la massima dimestichezza (eccesso pulsionale, strutture portanti del linguaggio verbale) e che, in diverse circostanze, ha assolto o potrà assolvere anche una funzione protettiva.

Le mormorazioni nel deserto

Il rapporto tra aspetti temibili della natura umana e istituzioni politiche è, senza dubbio, una questione metastorica. Per affrontarla, serve a poco evocare il caleidoscopio delle differenze culturali. Tuttavia, come sempre accade, una questione metastorica guadagna visibilità e pregnanza soltanto in una concreta congiuntura storico-sociale. Il problema dell’aggressività intraspecifica balza in primo piano oggi, allorché lo Stato centrale moderno conosce un vistoso declino, costellato però da convulse spinte restaurative e da inquietanti metamorfosi. È nel corso di questo declino, e a causa di esso, che torna a farsi valere in tutta la sua portata bio-antropologica il problema delle istituzioni, del loro ruolo regolativo e stabilizzatore.

Lo sgretolamento del “monopolio della decisione politica” deriva tanto dalla natura dell’attuale processo produttivo (basato sul sapere astratto e la comunicazione linguistica), quanto dalle lotte sociali degli anni Sessanta-Settanta. Non importa, qui, soffermarsi su queste cause o ventilarne altre eventuali. Ciò che conta sono piuttosto gli interrogativi che campeggiano nella nuova situazione. Quali istituzioni politiche al di fuori dell’apparato statale? Come tenere a freno l’instabilità e la pericolosità dell’animale umano, là dove non si può più contare su una “coazione a ripetere” nell’applicazione delle regole di volta in volta vigenti? In che modo l’eccesso pulsionale e l’apertura al mondo possono fungere da antidoto politico ai veleni che essi stessi secernono?

Questi interrogativi rimandano all’episodio più scabroso dell’esodo ebraico: le “mormorazioni” nel deserto, ossia una sequenza di conflitti intestini di rara asprezza. Invece di sottomettersi al faraone o di insorgere contro il suo dominio, gli ebrei hanno messo a frutto il principio del tertium datur, cogliendo una possibilità ulteriore e misconosciuta: abbandonare la “casa della schiavitù e del lavoro iniquo”. Si inoltrano così in una terra di nessuno e, lì, sperimentano forme inedite di autogoverno. Ma il vincolo di solidarietà si indebolisce: cresce il rimpianto per l’antica oppressione, il rispetto per i compagni di fuga si rovescia repentinamente in odio, dilagano la violenza e l’idolatria. La moltitudine deve affrontare, e governare, il “male” o, se preferite, la negatività che la pervade: divisioni, sopraffazione, aggressività polimorfa ecc. La narrazione dell’esodo costituisce, forse, il più autorevole modello teologico-politico di oltrepassamento dello Stato. Perché prospetta la possibilità di spezzare il faraonico monopolio della decisione mediante una sottrazione intraprendente; ma anche perché, dando grande risalto alle “mormorazioni”, esclude che questa sottrazione abbia a proprio fondamento la naturale mitezza dell’animale umano. L’esodo smentisce Schmitt: una Repubblica non più statuale intrattiene un rapporto assai ravvicinato, e privo di veli, con l’innata distruttività della nostra specie.

Istituzioni post-statali

Vorrei esporre, ora, alcune congetture sulla forma e il funzionamento di organismi politici che, pur confrontandosi da vicino con gli aspetti temibili della natura umana, risultino però incompatibili con il “monopolio della decisione politica”, cioè con la sovranità statale..

Cercherò di affrontare questo problema senza fare cenno a ciò che potrebbe essere, ma puntando lo sguardo su ciò che c’è già da sempre. Detto altrimenti: trascuro per un momento la necessità di inventare categorie politiche all’altezza delle trasformazioni sociali in corso, per fissare l’attenzione su due macroscopiche realtà antropologiche che sono, a tutti gli effetti, istituzioni: la lingua e il rito. Queste due istituzioni storico-naturali non sono, però, istituzioni politiche. Non si deve escludere, tuttavia, la possibilità di reperire nella nostra tradizione uno o più dispositivi concettuali che rappresentino l’equivalente propriamente politico della lingua o del rito. Nella nostra tradizione: anche qui, come si vede, non faccio appello a ciò che verrà, ma a ciò che è stato. A proposito del rito, propongo la seguente ipotesi: il modo in cui esso affronta e mitiga sempre di nuovo la pericolosa instabilità dell’animale umano ha un corrispettivo nella categoria teologico-politica del katechon. Questa parola greca, utilizzata dall’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi e poi costantemente ripresa dalle dottrine conservatrici, significa: “ciò che trattiene”, una forza che differisce sempre di nuovo l’estrema distruzione. Ecco, a me sembra che il concetto di katechon, in quanto risvolto politico delle pratiche rituali, concorra non poco a definire l’ordito e i compiti di istituzioni non più statuali. Lungi dall’essere un intrinseco addentellato della teoria della sovranità, come pretendono Schmitt e soci, l’idea di una forza che trattiene il cosiddetto “male”, senza però mai poterlo espungere (giacché la sua espunzione corrisponderebbe alla fine del mondo, o meglio, alla atrofia della “apertura al mondo”), si attaglia piuttosto alla politica antimonopolitica dell’esodo.

Lingua, rito, katechon: ecco su che cosa vertono questi appunti finali sulle istituzioni della moltitudine o, se si preferisce, sulla possibilità di una sfera pubblica non-statale.

1. Lingua. La lingua ha una vita preindividuale e sovrapersonale. Concerne il singolo animale umano solo in quanto costui fa parte di una “massa di parlanti”. Proprio come la libertà o il potere, essa esiste unicamente nella relazione tra i membri di una comunità. La vista bifocale, autonomo patrimonio di ogni uomo isolato, può essere considerata poi, a buon diritto, una prerogativa condivisa dalla specie. Non così la lingua: nel suo caso è la condivisione a creare la prerogativa; è il tra della relazione interpsichica a determinare poi, per riverbero, un patrimonio intrapsichico. La lingua storico-naturale attesta la priorità del “noi” sull’“io”, della mente collettiva sulla mente individuale. Per questo, non si stanca di ripetere Saussure, la lingua è un’istituzione. Per questo, anzi, essa è l’“istituzione pura”, matrice e pietra di paragone di tutte le altre.

Un giudizio siffatto non sarebbe pienamente giustificato, tuttavia, se la lingua, oltre a essere sovrapersonale, non svolgesse anche una funzione integrativa e protettiva. Ogni autentica istituzione, infatti, stabilizza e ripara. Ma quale carenza deve colmare, la lingua storico-naturale? E da quale rischio deve proteggere? Sia la carenza che il rischio hanno un nome preciso: facoltà di linguaggio. La facoltà, ossia la disposizione biologica a parlare del singolo individuo, è una semplice potenzialità ancora priva di realtà effettuale, fin troppo simile a uno stato di afasia. La lingua, fatto sociale o istituzione pura, pone rimedio all’infanzia individuale, ossia a quella condizione in cui non si parla pur avendone la capacità. Essa protegge dal primo e più grave pericolo cui è esposto l’animale neotenico: una potenza che resta tale, priva di atti corrispondenti. La differenza tra facoltà di linguaggio e lingue storicamente determinate – differenza che, lungi dal rimarginarsi, persiste anche in età adulta, facendosi valere ogni volta che si produce un enunciato – conferisce una tonalità istituzionale alla vita naturale della nostra specie. Proprio questa differenza implica un nesso strettissimo tra biologia e politica, tra zoon logon ekon e zoon politikon.

La lingua è l’istituzione che rende possibili tutte le altre istituzioni: moda, matrimonio, diritto, Stato, e via enumerando. Ma la matrice si distingue radicalmente dai suoi derivati. Secondo Saussure, il funzionamento della lingua è incomparabile a quello del diritto o dello Stato. Le indubbie analogie si rivelano ingannevoli. La trasformazione nel tempo del codice civile non ha niente da spartire con il mutamento consonantico o l’alterazione di certi valori lessicali. Si potrebbe dire che soltanto la lingua è un’istituzione effettivamente mondana, tale cioè da riflettere nel suo stesso modo di essere la sovrabbondanza di stimoli non finalizzati biologicamente, nonché il cronico “distacco” dell’animale umano nei confronti del proprio contesto vitale.

La lingua è, insieme, più naturale e più storica di qualsiasi altra istituzione umana. Più naturale: a differenza della moda o dello Stato, essa ha il suo fondamento in un “organo speciale preparato dalla natura”, ossia in quella disposizione biologica innata che è la facoltà di linguaggio. Più storica: mentre il matrimonio e il diritto si attagliano a certi dati di fatto naturali (desiderio sessuale e allevamento della prole, il primo; simmetria degli scambi e proporzionalità tra danno e risarcimento, il secondo), la lingua non è mai vincolata all’uno o all’altro ambito oggettuale, ma concerne l’intera esperienza dell’animale aperto al mondo, dunque il possibile non meno del reale, l’ignoto proprio come l’abituale. La moda non è localizzabile in un’area cerebrale, e però deve sempre rispettare le proporzioni del corpo umano. Tutt’al contrario, la lingua dipende da certe condizioni genetiche, ma ha un campo di applicazione illimitato (giacché essa stessa può dilatarlo sempre di nuovo). Essa, rispecchiando la mancanza tipicamente umana di un ambiente circoscritto e prevedibile, è “priv[a] di qualsiasi limite nei suoi procedimenti”; ma è proprio la sua illimitata variabilità, ovvero la sua indipendenza da circostanze fattuali e dati naturali, a offrire una protezione perspicua nei confronti dei rischi connessi a quella mancanza.

L’istituzione pura, a un tempo la più naturale e la più storica, è anche, però, una istituzione insostanziale. E’ nota l’idea fissa di Saussure: nella lingua non vi è alcuna realtà positiva, dotata di autonoma consistenza, ma solo differenze e differenze tra differenze. Ogni termine è definito unicamente dalla sua “non coincidenza con il resto” (ibid., p. 219), dunque dall’opposizione o eterogeneità rispetto a tutti gli altri termini. Il valore di un elemento linguistico consiste nel suo non essere: x è qualcosa proprio e soltanto perché non è y, né z, né w ecc. L’istituzione pura non rappresenta alcuna forza o realtà già data, ma tutte le può significare grazie al rapporto negativo-differenziale che vige tra le sue componenti. Di nulla è il portavoce o il calco, e proprio così mostra la sua consustanzialità a “un essere fondato primariamente sul distacco”.

È concepibile una istituzione politica, nell’accezione più rigorosa di questo aggettivo, che mutui la propria forma e il proprio funzionamento dalla lingua? È verosimile una Repubblica che protegga e stabilizzi l’animale umano nello stesso modo in cui la lingua svolge il suo ruolo protettivo e stabilizzatore rispetto alla facoltà di linguaggio, cioè alla neotenia? Una Repubblica insostanziale, basata su differenze e differenze tra differenze, non rappresentativa? Non so rispondere. Al pari di chiunque altro, anch’io diffido dei cortocircuiti speculativi. Ritengo però che la crisi attuale della sovranità statale legittimi domande siffatte, togliendo loro ogni sfumatura oziosa o compiaciuta. Che l’autogoverno della moltitudine possa conformarsi direttamente alla linguisticità dell’uomo, alla perturbante ambivalenza che la segna, bene, questo dovrebbe restare quanto meno un problema aperto.

2. Rito. Il rito registra e fronteggia ogni sorta di crisi: l’incertezza che paralizza l’azione, il terrore dell’ignoto, l’acutizzarsi di pulsioni aggressive in seno alla comunità. Nei casi più significativi, la crisi di cui si occupa il rito non riguarda, però, questo o quel comportamento determinato, ma investe le stesse condizioni di possibilità dell’esperienza: l’unità dell’autocoscienza e l’apertura al mondo. Ernesto de Martino chiama “crisi della presenza” le occasioni nevralgiche in cui si sfalda l’Io, e il mondo sembra sul punto di finire. A manifestarsi con chiarezza, in tali frangenti, è la parziale reversibilità del processo antropogenetico. Diventa insicuro, cioè, il possesso di quei requisiti fondamentali che fanno di un animale umano un animale umano.

Il rito adempie una funzione terapeutica non già perché erige una barriera contro la “crisi della presenza”, ma, al contrario, perché ne ripercorre tutte le tappe e di tutte prova a rovesciare il segno. La prassi rituale asseconda il pericolo estremo, dilata l’incertezza e il caos, ritorna alla scena primaria dell’ominazione. Soltanto così, del resto, essa può eseguire una ripetizione simbolica dell’antropogenesi, riaffermando in ultimo l’unità dell’Io e l’apertura al mondo. Secondo de Martino, il collasso psicopatologico e la catastrofe della vita associata sono tenuti a freno dalle “apocalissi culturali”, ossia dai riti collettivi che imitano la distruzione per rintuzzarla. Le apocalissi culturali sono istituzioni basate sull’ambivalenza e l’oscillazione. Ambivalenza delle situazioni critiche, nelle quali solo la perdita offre una possibilità di riscatto, e non vi è altro riparo se non quello che lo stesso pericolo delinea. Oscillazione tra qualcosa di familiare che diventa perturbante e qualcosa di perturbante che torna a sprigionare familiarità.

L’apocalissi culturale è la controfigura rituale di ciò che i giuristi chiamano “stato di eccezione”. Essa pure, infatti, implica la sospensione delle leggi ordinarie, lasciando emergere certi tratti salienti della natura umana (crisi e ripetizione dello stesso processo antropogenetico) in una particolare congiuntura storica. Al pari dello stato di eccezione, anche l’apocalissi culturale delinea un ambito in cui è impossibile discernere a colpo sicuro la regola generale dalla singola applicazione, le questioni di diritto dalle questioni di fatto. Lo stato di eccezione è diventato, oggi, la condizione stabile della vita associata. Non più intervallo circoscritto, inaugurato e concluso dal sovrano, ma tonalità permanente dell’azione e del discorso. Questa constatazione vale anche per il rito. L’apocalissi culturale non resta confinata in uno spazio e in un tempo speciali, ma concerne ormai tutti gli aspetti dell’esperienza contemporanea. Il motivo è semplice. Il compito istituzionale del rito sta nel contenere i pericoli estremi cui è soggetta l’apertura al mondo dell’animale linguistico. Ebbene, nell’epoca in cui l’apertura al mondo non è più velata o smussata da pseudoambienti sociali, ma rappresenta addirittura una fondamentale risorsa tecnica (dato che proprio su di essa si basano la mobilità, la flessibilità ecc.), questo compito deve essere assolto senza alcuna soluzione di continuità.

Resta da chiedersi se l’apocalissi culturale, ossia l’istituzione storico-naturale che tiene a freno il male radicale mediante l’oscillazione e l’ambivalenza, abbia un corrispettivo strettamente politico. Se il rito, oltre a dilagare in tutti gli interstizi del tempo profano, dia anche qualche ragguaglio sul possibile funzionamento di una Repubblica non più statuale. La mia risposta a queste domande è affermativa. Come ho già anticipato, ritengo che l’antico concetto di katechon, di “forza che trattiene”, costituisca il verosimile equivalente politico delle apocalissi culturali; e che questo concetto, come del resto quello di apocalissi culturale, non sia affatto legato indissolubilmente alle peripezie della sovranità statale.

3. Katechon. Nella seconda epistola ai Tessalonicesi, l’apostolo Paolo parla di una forza che trattiene il prevalere dell’iniquità nel mondo, differendo sempre di nuovo il trionfo dell’Anticristo. Trattenere, differire: termini, questi, che nulla hanno da spartire con ‘espungere’ o ‘sconfiggere’ o anche ‘circoscrivere’. Ciò che trattiene non prende le distanze dal trattenuto, ma resta in prossimità di esso e, anzi, non manca di mescolarvisi. Il katechon non debella il male, ma lo limita e ne para ogni volta da capo i colpi. Non salva dalla distruzione, ma la frena e, per frenarla, si conforma alle innumerevoli occasioni in cui essa può manifestarsi. Resiste alla pressione del caos aderendo a quest’ultimo, proprio come il concavo aderisce al suo convesso. La linea di confine tra il katechon e l’Anticristo non appartiene in esclusiva a nessuno dei due avversari: al pari di ciò che avviene nel dispositivo rituale descritto da Ernesto de Martino, questa linea è, insieme, sintomo della crisi e simbolo del riscatto, espressione dell’iniquità e tratto fisiognomico della virtù. O meglio: è una cosa soltanto perché è anche l’altra.

Nel pensiero politico medioevale e moderno, il katechon è stato identificato dapprima con il potere secolare della Chiesa, in seguito con le istituzioni centripete dello Stato sovrano, che, imponendo un patto preliminare di obbedienza, si proponevano di contrastare la disgregazione del corpo sociale. Non è certo il luogo per discutere in dettaglio l’uso conservatore della nozione di katechon. Basti per il momento una sola osservazione: Schmitt e il suo album di famiglia (Hobbes, De Maistre, Donoso Cortès) evocano una “forza che trattiene” per indicare genericamente il ruolo stabilizzatore e protettivo che compete alle istituzioni politiche dinanzi alla pericolosità dell’animale disambientato e neotenico. Un ruolo siffatto è fondamentale, ma non discriminante: può essere rivendicato, in linea di principio, dai più diversi tipi di istituzione politica (per intendersi: da una comune anarchica non meno che da una dittatura militare), come pure da innumerevoli istituzioni non politiche (a cominciare dalla lingua e dal rito). Se preso in accezione generica, il katechon è una proprietà ubiqua e pervasiva, forse una costante bio-antropologica. Il punto saliente, in Schmitt e negli autori a lui affini, non è affatto il richiamo a una “forza che trattiene”, ma la sua attribuzione univoca alla sovranità statale. La questione del katechon torna a essere impregiudicata là dove si postuli la necessità di una protezione istituzionale, negando però che lo Stato e il connesso “monopolio della decisione politica” possano garantirla (dato che proprio essi costituiscono un sommo pericolo). Poiché sono in lizza modi dissimili, o addirittura antipodici, di contenere la rischiosa instabilità dell’animale linguistico, sembra lecito non solo svincolare l’idea di katechon dal “supremo imperio” statale, ma anche contrapporre l’una all’altro. Tutto questo non vale, è ovvio, per quanti criticano lo Stato confidando nell’innata mitezza della nostra specie. Per costoro, una “forza che trattiene” è sempre meritevole di biasimo; per costoro, quindi, l’appropriazione del katechon da parte del pensiero politico autoritario è del tutto legittima, anzi inoppugnabile. Ma di costoro vorrei disinteressarmi.

Se si equipara il concetto di katechon alla funzione apotropaica insita in qualsivoglia istituzione politica (e non politica), bisogna concludere che esso travalica ed eccede quello di sovranità statale: tra i due concetti sussiste uno scarto incolmabile, lo stesso che separa il genere dalla specie, il sintagma ‘animale linguistico’ dal sintagma ‘professore universitario’. Se invece si rivolge l’attenzione ai tratti davvero peculiari del katechon, insomma a ciò che fa di esso un nome proprio, non sarà difficile constatare la sua radicale eterogeneità alla forma di protezione prospettata dalla sovranità statale. Seguiamo ora questa seconda via. Per cogliere gli aspetti caratteristici del katechon in quanto istituzione politica, quegli aspetti che lo apparentano alle apocalissi culturali e lo oppongono allo Stato centrale moderno, occorre soffermarsi per un momento sul suo ordito teologico.

Il katechon è segnato da un’interna antinomia. Esso pone un freno all’Anticristo, al male radicale, all’aggressività proteiforme. Senonché, secondo il libro dell’Apocalisse, il trionfo dell’Anticristo costituisce la premessa necessaria alla seconda venuta del Messia, alla parousia che salverà per sempre le creature ponendo fine al mondo. Ecco il doppio vincolo cui è soggetto il katechon: se trattiene il male, ne ostacola la sconfitta finale; se limita l’aggressività, impedisce che essa sia annichilita una volta per tutte. Smussare sempre di nuovo la pericolosità della specie Homo sapiens significa, certo, evitare il suo letale dispiegamento, ma significa anche, e forse in primo luogo, interdirne l’espunzione definitiva: quella espunzione, per capirsi, che le teorie della sovranità perseguono mediante la netta cesura tra stato di natura e stato civile. Sotto il profilo politico, questa antinomia diventa quanto mai produttiva, delineando un modello di protezione istituzionale secondo il quale le pulsioni (auto)distruttive connesse all’apertura al mondo possono essere fronteggiate soltanto grazie alle medesime condizioni bio-linguistiche (neotenia, negazione, modalità del possibile ecc.) che di quella apertura sono il fondamento e la garanzia. Ripara dal rischio, insomma, soltanto ciò che ne preserva l’esistenza.

Ripetiamo ancora il punto cruciale. Nell’impedire il trionfo dell’Anticristo, il katechon impedisce a un tempo la redenzione a opera del Messia. Trattenere l’iniquità implica la rinuncia al ripristino dell’innocenza. Il katechon, concetto teologico-politico radicalmente antiescatologico, si oppone alla “fine del mondo”, o meglio, all’atrofia dell’apertura al mondo, ai diversi modi in cui può manifestarsi la crisi della presenza. Sia il male vittorioso che la piena vittoria sul male comportano quella fine, ovvero questa atrofia. Il katechon protegge dalla micidiale instabilità che promana dall’Anticristo, ma anche, e in pari misura, dallo stato di equilibrio messianico; dal caos terrificante come pure dall’entropia redentrice. Il katechon non solo oscilla tra negativo e positivo, senza mai espungere il negativo, ma salvaguarda l’oscillazione come tale, la sua persistenza.

In termini strettamente politici, il katechon è l’istituzione repubblicana che tiene a freno i rischi insiti nell’instabilità di “un essere fondato primariamente sul distacco”, contrastando però, al tempo stesso, i modi assai temibili in cui lo Stato moderno ha inteso procacciare una protezione da quei rischi. Non diversamente dalle “istituzioni irregolari” (leghe, consigli, assemblee) che caratterizzano l’esistenza politica della moltitudine secondo Hobbes, il katechon è legato a doppio filo alle circostanze e alle occasioni. Non opera una sintesi accentratrice rispetto alle concrete forme di vita, ai poteri e ai conflitti locali, ma assolve un compito contingente e puntuale. Il katechon è l’istituzione che meglio si attaglia allo stato di eccezione permanente, alla parziale indistinzione (o reciproca commutabilità) tra questioni di diritto e questioni di fatto che lo caratterizza. È l’istituzione che meglio si attaglia, dunque, allo stato di eccezione allorché esso, lungi dall’essere ancora una prerogativa del sovrano, contrassegna piuttosto l’azione e il discorso della moltitudine.

Bibliografia

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