28 maggio 1974, Piazza della Loggia

by gabriella

piazza della loggiaStrage_della_Loggia_esplosioneIl 28 maggio 1974, una bomba esplode in Piazza della Loggia, a Brescia, durante una manifestazione antifascista, uccidendo otto persone (cinque giovani insegnanti, tre operai, un pensionato) e ferendone oltre cento.

Quarant’anni dopo la strage, la Cassazione ha riaperto il caso giudiziario autorizzando un nuovo processo d’appello contro l’assoluzione dei neofascisti imputati nel delitto: il medico veneziano Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, uomo dei servizi infiltrato in Ordine Nuovo. La verità giudiziaria è arrivata 43 anni dopo con la loro condanna.

«Ora gli italiani sanno che l’inquinamento delle prove, i depistaggi investigativi, le connivenze degli apparati dello stato con l’eversione neofascista erano parte di una vita democratica incompiuta e minacciata».

Alfredo Bazoli, padre di Giulietta, 34 anni, insegnante

Sotto, lo sconsolato articolo scritto da Benedetta Tobagi nell’aprile 2015 in occasione della chiusura senza responsabili del processo d’appello contro Maggi, Zorzi e Tramonte.

 

Benedetta Tobagi, Piazza della Loggia. Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti

Pezzi di stato hanno protetto e coperto i bombaroli. La stagione delle inchieste sulla strategia della tensione si chiude con un bilancio fallimentare. Ma ci lascia in eredità alcune certezze storiche: le condanne mancate parlano dell’inquietante presenza di reti di solidarietà occulte

Forse non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un’epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della strategia della tensione”.

La strage di Brescia (28 maggio 1974) gode di un triste primato: nessun condannato. “Me l’aspettavo” è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d’appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell’Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall’ennesima bomba neofascista (con buona pace dei “negazionisti” di casa nostra, questo è accertato). Mentre l’Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell’organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi: “Brescia non deve rimanere un fatto isolato”. Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell’Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l’hanno fatta franca.

Terribile perché  –  e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate  –  dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un’indagine complessa grazie all’impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, “che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare”  –  commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.

Quest’assoluzione è solo l’ultima, umiliante vittoria di un’attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l’esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della “bomba fantasma” su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l’armiere di Ordine Nuovo, che preparò l’ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza.

Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle “piste rosse” costruite intorno a piazza Fontana: la “falsa pista nera”. I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall’istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle “trame nere” milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell’ultimo processo.

Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l’imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell’anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe “bianco” autoritario o presidenzialista – anch’esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese – emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e “Rosa dei venti”. Una pista nera “sbiadita” e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l’hanno argomentato in modo stringente.

Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ’74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un “depistatore” di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma – contro regolamenti – anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell’inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei “depistaggi sofisticati”, a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s’indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.

La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell’Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l’insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”.

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Tratto da repubblica.it

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