Posts tagged ‘insegnamento’

26 Giugno, 2014

Massimo Recalcati, Insegnare significa parlare ai muri

by gabriella
Jacque Lacan

Jacques Lacan (1901 – 1981)

Perché la parola «che si indirizza ai muri ha la proprietà di ripercuotersi» e perché in ogni vero insegnamento non è il maestro che parla, ma qualcosa [ça parle] e tuttavia è la sua voce che ricordiamo … se sa tenerci svegli. Una meditazione sull’insegnamento di Jacques Lacan, nell’interpretazione di Massimo Recalcati. Repubblica, 2 giugno 2014.

Qualcosa sembra accomunare l’esperienza dell’insegnamento a qualunque livello essa avvenga, dalle scuole elementari sino all’Università e oltre. Ogni insegnante, a suo modo, ne ha fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri. L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo circolare, di condividerlo con altri. Parlare ai muri è la condizione strutturale di ogni insegnamento perché in ogni insegnamento è in gioco un’impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza resti, trasparente del sapere.

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13 Giugno, 2014

Cominciai a insegnare per questo

by gabriella

In questo spezzone, tratto da Auguri professore, di Riccardo Milani, lo sfiduciato professor Lipari riflette sulla lontananza degli studenti dalla scuola, rintracciandone le ragioni nell’essersi formato, a sua volta, in una scuola «che ignora la gioia di vivere» e predica – conformemente alla propria matrice cattolica – «il castigo, la pena, il dolore». Dopo aver ironizzato sulla centralità didattica della «concezione del dolore in Manzoni e Leopardi», il professore prorompe così in un

Gezi Park2

La protesta turca a Gezi Park

Leopardi riteneva che non se potesse più di piagnistei [perché] pensava che la polica vera era dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita. Lui pensava che il fallimento maggiore della politica stava nel non mettere a frutto gli ardori giovanili […] il desiderio di vivere che hai dentro e la rabbia per non poterlo gridare.

Osservando l’interesse della sua allieva davanti a questa interpretazione, Lipari si rende conto di quanto gli piaccia insegnare perché

trasmettere abilità rende abili, trasmettere intelligenza rende intelligenti.

Non si può insegnare senza avvertire e aver voglia di comunicare voglia di vita, e senza quindi abbandonare la pedagogia dell’impegno e del sacrificio.

 

 

7 Gennaio, 2012

Lev Tolstoj, Educazione e formazione culturale

by gabriella

Il diritto ad educare non esiste.
Non lo riconosco io, non lo ha riconosciuto
e non lo riconoscerà mai nessuna giovane generazione di educandi
che sempre e dovunque si ribellano contro l’educazione
loro imposta.

Come dimostrerete la legittimità di questo diritto?
Io non so e non suppongo nulla,
ma voi riconoscete e supponete che un uomo abbia il diritto
di plasmare altri uomini come egli stesso vuole.

Dimostratemi pure la legittimità di questo diritto,
ma non con l’argomentazione che l’abuso del potere esiste
ed è  esistito da sempre. Non siete voi i querelanti,
ma noi, e voi dovete rispondere.

Lev Tolstoj

Esistono molte parole che non esprimono concetti ben definiti e spesso vengono usate in modo arbitrario; eppure si tratta di parole indispensabili, quali: educazione, formazione culturale, insegnamento[1].

Non sempre i pedagogisti ammettono la differenza che passa tra il concetto di formazione culturale e di educazione, ma non sono in grado di esprimere i propri pensieri altrimenti che usando le parole: cultura, educazione, insegnamento. Ad ognuno di questi termini deve corrispondere necessariamente un concetto ben preciso. Forse è giustificata la nostra avversione ad usare queste parole nella loro accezione attuale; tuttavia questi concetti esistono ed hanno il diritto di esistere distinti l’uno dall’altro. In Germania si fa una netta distinzione tra Erziehung (educazione) e Unterricht (insegnamento). Si riconosce che l’educazione sottintende l’insegnamento, che l’insegnamento è uno dei mezzi più significativi per raggiungere l’educazione, che ogni insegnamento reca in sé l’elemento educativo, erziehliges Element. Inoltre, il concetto di formazione culturale, Bildung, comprende sia l’educazione che l’insegnamento.

La distinzione tedesca più comune sarà la seguente: l’educazione è la formazione degli uomini migliori, secondo l’ideale di perfezione umana elaborato da una data epoca. L’insegnamento, sebbene implichi una maturazione morale, è un mezzo, non esclusivo, per raggiungere lo scopo; oltre ad esso, è importante che l’educando sia sottoposto a condizioni che i tedeschi ritengono favorevoli ai fini dell’educazione, e cioè la disciplina e l’imposizione, Zucht. Lo spirito umano, dicono essi, deve essere allenato, come lo è il corpo con la ginnastica. Der Geist muss gezuchtigt toerden.

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3 Dicembre, 2011

Frank McCourt, Ehi Prof!

by gabriella

Il terzo libro di Frank McCourt, uscito per Adelphi, si inserisce degnamente nella letteratura tragicomica dedicata alla scuola. Segnalo due passaggi che, anche fossero gli unici, meriterebbero la lettura: «Com’è che ci hai messo tanto?» (a pubblicare un libro, ndr) «Insegnavo. Ecco com’è!», «i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare»: effettivamente, quando li terremo impegnati a prepararsi per i test INVALSI il rischio sarà pienamente scongiurato.

In Ehi, Prof, McCourt parla della sua vita da professore. Trentamila ore di insegnamento racchiuse in aneddoti, dialoghi, scontri. Un insieme di tanti episodi che riproducono il clima delle aule dove ha lavorato, con il coro di voci, quelle dei suoi dodicimila allievi sempre in sottofondo. Il protagonista è un docente davvero particolare, a tratti bizzarro, sempre indeciso sulla scelta del suo mestiere, allergico alla burocrazia, incapace di ingraziarsi i superiori. La paura di aver sbagliato tutto, di essere, alla fine, solo “un ciarlatano” [quanto ti capisco Frank, ndr.] è sempre dietro l’angolo. Intanto gli anni passano e McCourt continua a lavorare nelle scuole, tra alti e bassi, delusioni e gioie, non smette di cercare un rapporto diverso, diretto con i suoi studenti. Ma la passione che anima questo mick (come venivano chiamati gi irlandesi), anche se non viene mai direttamente dichiarata, appare in controluce quasi in ogni pagina. E, alla fine, sarà proprio uno de suoi ragazzi a dirgli “Ehi professore. Lei dovrebbe scrivere un libro, sa?” Esattamente quello che farà il suo vecchio insegnante.

Walzer dell'ubriaco

Theodor Roethke, Il walzer di mio papà

[tratto dalla recensione del Sole24Ore] Le tragicomiche avventure del prof. vengono scandite dai racconti di piccoli avvenimenti, come se tre decenni fossero dipinti con pennellate veloci, vibranti, dai colori intensi. Sono pagine cariche di ironia, la vera cifra stilistica di questo narratore. Con una prosa concisa, semplice, efficacissima, conduce il lettore nel mondo della scuola americana, dove gli studenti sembrano già parti di una catena di montaggio e dove “i ragazzi bisogna tenerli occupati, sennò c’è il rischio che si mettano a pensare”. E allora, ecco le avventure e le disavventure del professore irlandese, da quando rischia di venire licenziato, al suo primo giorno di lavoro, perché raccoglie da terra il panino di uno studente e se lo mangia, a quando lo troviamo intento a far declamare ai suoi allievi una serie di ricette culinarie di ogni parte del mondo, mentre altri compagni, accompagnano la descrizione di ogni pietanza con gli strumenti musicali più adatti.

Nella quarta di copertina si legge:

«Frank McCourt racconta come si combatte il disastro scolastico – che non è, ahinoi, solo quello del presidente Ike Heisenhower – e come sul mutuo soccorso che c’è tra i due lati della cattedra si possa fondare il senso della vita […]».

Tra i molti episodi toccanti, scelgo la storia di Ken, ragazzo coreano che odiava suo padre. L’antefatto è la lettura in classe della poesia di Theodor Roethke, Il valzer di mio papà, il cui soggetto è il rientro a casa ubriaco di un padre lavoratore che prima di mettere a letto il figlioletto, lo coinvolge in una danza intorno al tavolo di cucina, mentre gli batte il tempo sulla fronte con una mano sporca e ferita. Anni dopo, dalla sua stanza di college, il ragazzo invia una lettera al vecchio prof. per raccontargli cosa gli resta di quella poesia:

Ken era un ragazzo coreano che odiava il padre. Raccontò alla classe che era stato costretto a prendere lezioni di pianoforte anche se a casa il piano non lo avevano. Il padre lo obbligava a esercitarsi sul tavolo di cucina e se gli veniva il sospetto che non facesse le scale a dovere, lo bacchettava sulle dita con una spatola. Stessa cosa per sua sorella di sei anni. Quando ebbero abbastanza soldi per comprarsi un pianoforte vero e la

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