Il paleoantropologo inglese mostra come la transizione al modo di ragionare simbolico e al pensiero ipotetico che contraddistingue la specie Homo, si sia verificata sorprendentemente tardi nella storia evolutiva umana – i primi Homo, incluso il Neanderthal ne erano privi -, durante il periodo di diffusione della nostra specie. Questo radicale cambiamento deve per forza essere associato a un cambiamento culturale e non biologico, ma i meccanismi che l’hanno reso possibile sono del tutto ordinari e spiegati dalla teoria neodarwiniana. Tratto da Micromega, 1/2014, pp. 55-66.
Noi esseri umani siamo parte integrante del grande albero della vita che unisce tutti i viventi sul pianeta Terra. La nostra specie condivide con un’ampia cerchia di organismi le strutture fondamentali del corpo, gli organi, i tessuti, le cellule e il dna. Nonostante ciò, noi siamo diversi. Non è un segreto che qualcosa ci renda profondamente diversi da tutti gli altri organismi, compresi quelli che ci sono più vicini sul grande albero della vita. Ovviamente possediamo un numero notevole di peculiarità fisiche che ci rendono piuttosto insoliti, la maggior parte delle quali sono legate al nostro modo, davvero curioso, di camminare eretti, su due gambe. La cosa che però ci fa personalmente sentire tanto diversi, anche rispetto agli scimpanzé, i nostri parenti più stretti oggi, è di certo lo strano modo che abbiamo di elaborare l’informazione con il cervello.
Al massimo livello della nostra conoscenza, diversamente dagli altri organismi, noi esseri umani sappiamo smontare pezzo per pezzo quanto abbiamo intorno trasformandolo in un intero vocabolario di simboli mentali. Questi simboli vengono poi ricombinati, secondo regole precise, per produrre interpretazioni alternative della realtà, non soltanto partendo dalla nostra esperienza diretta, ma anche da come crediamo che sia e perfino da come dovrebbe essere in altre circostanze. Tale capacità modifica radicalmente il nostro rapporto con il mondo che ci circonda, dato che, come risultato, ci troviamo a vivere per la maggior parte del tempo [p. 56] in un contesto ricreato nella nostra mente e non nello scenario che la natura direttamente ci offre.
Come è noto non siamo gli unici capaci di riconoscere simboli. Un cane sa che il tintinnio delle chiavi nella nostra tasca significa che presto verrà portato fuori per una passeggiata; gli scimpanzé possono perfino riconoscere e disporre i simboli in modo additivo per produrre e comprendere semplici frasi come: «prendi… palla…verde». Ma anche i mammiferi più sofisticati, come quelli citati, sono chiaramente privi della peculiare capacità umana di riorganizzare quei simboli per immaginare possibili alternative e porsi la fondamentale domanda («che cosa accadrebbe se?») su cui ogni giorno noi riflettiamo.
Esiste pertanto una netta discontinuità, un profondo abisso qualitativo, tra il modo in cui gli altri organismi gestiscono l’informazione e il modo in cui lo facciamo noi. Dato però che siamo così strettamente inglobati nel mondo vivente è anche chiaro che discendiamo, anche se remotamente, da un antenato privo di capacità simbolica e incapace di elaborare l’informazione nel nostro modo così esclusivo. Certo questa in sé non è una grande scoperta: tutti gli organismi derivano da antenati che sono diversi da loro. Secondo il processo evolutivo, così efficacemente condensato da Charles Darwin nell’idea di «discendenza con modificazione», gli animali di terraferma, ad esempio, discendono in ultima analisi da antenati privi di arti. Inoltre l’idea che tutte le forme di vita siano derivate da un singolo antenato comune attraverso numerose e successive ramificazioni, costituisce l’unica spiegazione verificabile, e dunque scientifica, che abbiamo della struttura dell’albero della vita.
Tuttavia l’emergere della consapevolezza dei moderni esseri umani ci pone di fronte a un profondo mistero, forse il più grande mai affrontato dalla scienza. E chiaro infatti che il nostro modo di far funzionare la mente non rappresenta semplicemente il prodotto di un miglioramento incrementale di altre forme cognitive esistenti. La differenza è chiaramente qualitativa e non tanto quantitativa: non abbiamo semplicemente un po’ di più della stessa cosa che hanno tutti gli altri esseri viventi. Anche se impariamo qualcosa di nuovo ogni giorno sulla complessità delle capacità cognitive degli altri esseri viventi, l’abisso rimane. Inoltre l’unica ragione per cui è giusto supporre che questo divario possa essere stato superato (che un antenato privo di capacità simboliche possa aver dato origine a un discendente dotato di queste capacità) è il fatto che si è realizzato così chiaramente, come dimostra la nostra capacità di interrogarci su questa straordinaria trasformazione.
[p. 57] Naturalmente gli scienziati riconoscono che gli esseri umani sono il prodotto di una lunga storia evolutiva ricca di eventi. Con il passare degli anni però sono emerse opinioni divergenti a proposito dell’effettiva durata della storia della nostra capacità simbolica. Per alcuni paleoantropologi, archeologi e neurobiologi le radici dell’esclusiva essenza degli esseri umani vanno ricercate nel nostro passato ominide, forse risalendo addirittura a due milioni di anni fa. Altri invece ritengono che si tratti di un fenomeno molto meno antico, ma discutono ancora vivacemente su quanto sia recente. Il problema principale in questo caso è che la capacità cognitiva come tale non lascia tracce dirette in nessun tipo di materiale che possa conservarsi dal lontano passato fino a oggi. Il livello cognitivo degli antichi membri della famiglia degli ominidi deve essere dedotto da prove indirette conservatesi nella documentazione archeologica e fossile. Ma, come è ovvio, indicatori di questo tipo sono inevitabilmente discutibili.
Esiste però un’altra complicazione rappresentata dalle aspettative che emergono a partire dai modelli evolutivi cari, in particolare, ad alcuni scienziati. Secondo il modello tradizionale, sviluppato tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, l’evoluzione procede da una generazione all’altra perché gli individui «meglio adattati» si riproducono più frequentemente di quelli meno adattati. Secondo un’idea alternativa, proposta più di recente, l’evoluzione è invece un processo contingente, che risponde principalmente ad eventi esterni in grado di influenzare intere popolazioni e che non hanno nulla a che fare con la superiorità dell’adattamento di particolari individui. La prima interpretazione prevede che l’evoluzione sia 1111 processo lento consistente in un ritocco sempre più fine delle principali caratteristiche di determinate linee di discendenza degli organismi. Per contro, il secondo modello prevede che il cambiamento sia sporadico e rifletta maggiormente gli eventi esterni rispetto a qualsiasi dinamica interna alle diverse linee di discendenza.
Nel caso delle capacità cognitive umane, in particolare, il primo modello presuppone che la nostra insolita capacità di elaborazione delfinformazione sia stata oggetto di un graduale raffinamento verifieatosi nel corso di un lungo periodo di tempo (presumibilmente frutto di un processo di feedback che include l’interazione sociale, come credono gli studiosi di psicologia evoluzionistica). In base al secondo modello invece dovrebbe essere possibile identificare un particolare evento formativo (o forse una successione di eventi nel processo di sviluppo intellettivo degli esseri umani. Le diverse aspettative illustrate ci offrono un approccio empirico [p. 58] al problema che si incontra dovendo scegliere tra modelli alternativi.
Se è la selezione a guidare primariamente l’evoluzione, l’albero filogenetico della famiglia umana deve avere un ramo centrale caratterizzato da un ritmo di cambiamento costante su cui si avvicenda una lineare successione di specie, ognuna delle quali si fonde con quella successiva al passare del tempo. Questo modello è stato apprezzato soprattutto dai paleoantropologi, non soltanto in quanto seducentemente riduzionista, ma anche perché è perfettamente coerente con il fatto che Homo sapiens sia l’unica specie oggi rimasta.
Per contro, secondo il modello alternativo, in ogni periodo di tempo deve essere esistito un certo campione di diversità, dato che molte specie nuove, soggette alle trasformazioni climatiche e alla competizione, sono via via comparse per tentare la propria sorte sul palcoscenico ecologico. Per fortuna ormai la documentazione fossile umana è abbastanza ricca ed estesa da permetterci di stabilire con una certa sicurezza quale modello evolutivo sia effettivamente meglio adottare.
Sessant’anni fa la documentazione fossile umana era invece piuttosto scarsa, tanto che il sistematico e ornitologo Ernst Mayr è riuscito a convincere i paleoantropologi del fatto che tutti gli ominidi fossili noti potevano essere inseriti in una singola sequenza di tre specie appartenenti al genere Homo. In seguito, di fronte allo straordinario aumento del numero di esemplari e alla sempre più ampia distribuzione geografica degli ominidi fossili noti, alcuni paleoantropologi si sono spinti a riconoscere fino a 24 specie nella nostra famiglia, o anche più (si veda la figura alla pagina successiva). Queste specie sono organizzate a formare un albero filogenetico che ricorda più un grande cespuglio, perché in passato sono chiaramente coesistite diverse linee di discendenza dei nostri parenti umani. Anzi, poco dopo due milioni di anni fa i fossili rivelano l’esistenza di almeno otto diverse specie di ominidi nel Vecchio Mondo, di cui quattro, come minimo, occupavano lo stesso ambiente intorno al lago Turkana, in Kenya! Non è dunque possibile, di fronte a questa documentazione, vedere la prova del graduale affinamento di una singola linea di discendenza di ominidi culminata nella perfezione di Homo sapiens.
La storia della nostra famiglia, invece, è stata chiaramente segnata da un’intensa sperimentazione in termini evolutivi, con numerose specie di ominidi che si sono ritrovate catapultate sul palcoscenico evolutivo per proliferare o, più spesso, soccombere. E oltremodo insolito che oggi Homo sapiens sia l’unica specie umana al mondo e questo fatto in sé ci insegna qualcosa di molto importante su che tipo di esseri siamo effettivamente.
La figura mostra come diverse specie di ominidi siano esistite in vari momenti. Illustrazione di Jennifer Steffey
Dalla topografia del nostro albero filogenetico possiamo quindi immediatamente dedurre che l’origine delle facoltà cognitive umane debba essere cercata in uno o più eventi evolutivi, e non tanto in un processo di graduale raffinamento che ha origine nel più remoto passato. La conferma del fatto che i nostri antenati [p. 60] umani abbiano in qualche momento attraversato davvero una sorta di Rubicone cognitivo si può trovare, inoltre, esaminando con attenzione la sempre maggiore documentazione fossile e archeologica, in cerca di quelle prove indirette dello stato cognitivo a cui ho accennato in precedenza. I più antichi fossili classificabili come appartenenti a ominidi sono costituiti da un mescolato assortimento di resti per lo più frammentari, provenienti da siti africani che risalgono a un intervallo di tempo compreso tra sette e quattro milioni di anni fa. Per la maggior parte di questi fossili è possibile ipotizzare che si trattasse di forme in grado di camminare erette quando si spostavano sul terreno.
I più antichi ominidi di cui possediamo una valida documentazione appartengono al gruppo delle «australopitecine», specie africane particolarmente ben esemplificate dal fossile etiope di 3,2 milioni di anni fa, noto come Lucy.
Le australopitecine erano creature di dimensioni ridotte, alte circa un metro, vissute in una fase in cui sembra che in Africa si siano espansi gli ambienti di boscaglia e di prateria. Nonostante camminassero chiaramente erette quando erano a terra, le australopitecine conservavano numerose caratteristiche fisiche grazie alle quali potevano arrampicarsi agilmente sugli alberi. Le proporzioni del cranio erano da scimmia antropomorfa, con faccia grande e (rispetto a noi) cervello piccolo. Fin dall’inizio le australopitecine sembrano aver adottato una dieta più generalista se confrontata con quella delle scimmie antropomorfe africane loro cugine. Tuttavia, nelle australopitecine non sono state evidenziate prove di alcun perfezionamento cognitivo rispetto alle antropomorfe, almeno finché non hanno incominciato a fabbricare semplici utensili in pietra, circa 2,5 milioni di anni fa (o forse finché non hanno incominciato a sfruttare scaglie di selce taglienti formatesi naturalmente, circa 3,4 milioni di anni fa). Questa innovazione e i comportamenti a essa correlati hanno chiaramente spinto le australopitecine più avanti rispetto a una qualsiasi scimmia antropomorfa dal punto di vista cognitivo. Non ci sono però prove da cui possiamo dedurre che questo comportamento radicalmente nuovo fosse basato su capacità intellettive di tipo simbolico.
Ancora più notevole è il fatto che quando, poco meno di due milioni di anni fa, sono comparsi i più antichi membri del nostro genere Homo, alti, slanciati e con un cervello relativamente più grande, non si è verificato alcun cambiamento di tipo tecnologico. I primi rappresentanti del genere Homo continuavano infatti a produrre e utilizzare strumenti concettualmente identici a quelli inventati dalle australopitecine mezzo milione di anni prima. La prima innovazione tecnologica risale invece a 1,5 milioni di anni fa circa, quando in Africa sono diventati comuni i «bifacciali». Accuratamente scolpiti sulle due facce, fino a ottenere una caratteristica forma a foglia, questi utensili litici rappresentano un balzo cognitivo perché costituiscono la realizzazione in pietra di un «modello » che doveva esistere nella mente del produttore prima ehe incominciasse a scheggiare. Il realizzatore di bifacciali possedeva ovviamente una forma complessa di intelligenza intuitiva, tuttavia non si può dedurre da alcuna prova in nostro possesso che fosse dotato di quella capacità cognitiva simbolica unica degli esseri umani moderni. Lo stesso vale per la successiva importante innovazione tecnologica.
Si tratta degli strumenti ottenuti da «nuclei preparati» diffusi in modo significativo dopo la comparsa sulla scena, circa 600 mila anni fa, di Homo heidelbergensis, una nuova specie di ominide. Realizzati scheggiando in modo elaborato e su entrambi i lati un «nucleo » scelto finché un colpo finale staccava un utensile più o meno rifinito, questi strumenti erano chiaramente il prodotto di un’intelligenza più sottile. Ma non ancora come la nostra. Al periodo di diffusione di Homo heidelbergensis, a partire da circa 400 mila anni fa, risalgono le prove dell’introduzione di un certo numero di nuove tecnologie importanti, ad esempio l’immanicatura degli strumenti in pietra, la costruzione di ripari, le lance di legno finemente lavorate e l’uso comune del fuoco nei siti abitati. Come i loro predecessori, però, gli ominidi responsabili di questi progressi non ci hanno lasciato alcun resto che si possa interpretare in modo convincente come un oggetto simbolico. La combinazione di una modalità di vita sofisticata con una capacità cognitiva di vecchio stampo ci offre un importante indizio per capire che associazioni mentali complesse a livello intuitivo e non dichiarativo possono effettivamente emergere anche in assenza di un pensiero simbolico del tipo che caratterizza gli esseri umani oggi.
La cosa non dovrebbe sorprenderci. Anche se può risultare difficile in effetti immaginare una condizione di complessa consapevolezza diversa dalla nostra (ed è impossibile averne esperienza), simili condizioni devono per forza aver caratterizzato i nostri antenati ancora privi di capacità simbolica. E questo a sua volta suggerisce che le uniche inequivocabili prove materiali indirette di un pensiero simbolico simile al nostro sono quelle che incorporano specificatamente un’associazione simbolica. Nella maggior parte dei casi però la tecnologia paleolitica non sembra qualificata in tal senso.
Questa idea trova una conferma nella documentazione che ci ha lasciato in eredità Homo neanderthalensis, un ominide comparso in Europa e nell’Asia centrale poco meno di 200 mila anni fa. I Neandertal avevano un cervello grande come il nostro e hanno lasciato dietro di loro una testimonianza materiale e fossile che non ha eguali in nessun altro ominide estinto. Pur essendo artigiani straordinariamente abili (che adottavano una variante della tecnica di scheggiatura a partire da un nucleo preparato) e cacciatori resistenti e pieni di risorse in grado di uccidere animali anche molto grandi, i Neandertal quasi certamente erano privi di un pensiero simbolico. Di certo non abbiamo trovato alcuna prova convincente in proposito: ogni oggetto che sia mai stato considerato come una testimonianza della loro capacità simbolica è infatti risultato di interpretazione opinabile o addirittura difficilmente attribuibile ai Neandertal.
Ancora più interessante però potrebbe essere il fatto che un problema in qualche modo simile caratterizza i primi Homo sapiens, i cui fossili incominciano a comparire in Africa più o meno quando i Neandertal appaiono in Europa. Homo sapiens è una specie molto caratteristica dal punto di vista anatomico e apparentemente sembra essere il risultato di cambiamenti nella regolazione genica che hanno determinato una serie di trasformazioni a cascata nello sviluppo di tutto il corpo. I primi fossili di questa specie sono stati scoperti in Etiopia in contesti archeologici per il resto privi di novità e risalgono a un periodo compreso tra 200 e 160 mila anni fa.
Uno dei reperti etiopi è associato infatti agli ultimi bifacciali scoperti in Africa, strumenti che rappresentavano a quel tempo una tecnologia utilizzata da almeno 1,5 milioni di anni. In un sito israeliano che risale a 100 mila anni fa, fossili di esseri umani anatomicamente moderni erano associati a una cultura materiale indistinguibile da quella prodotta nella stessa regione dai Neandertal quasi contemporanei. E evidente che questi primi esseri umani anatomicamente moderni si comportavano proprio come Neandertal. Ben presto però le cose incominciarono a cambiare radicalmente. In alcuni siti dell’Africa settentrionale e di quella meridionale che risalgono a circa 100 mila anni fa, sono stati trovati frammenti di ocra e conchiglie marine apparentemente perforate per essere infilate.
Nei contesti umani moderni entrambi questi tipi di oggetti sono associati di norma all’abitudine di decorare il corpo, senza dubbio un’espressione simbolica emblematica dello status e dell’identità di una persona. Se anche si volesse considerare discutibili queste prove, basta spostarsi in un sito dell’Africa meridionale che risale a 80 mila anni fa per scoprire due placchette di ocra lucidate e incise con segni geometrici. Questo reperto rappresenta senza ombra di dubbio il primo manufatto conosciuto interpretabile come espressione di uno spirito simbolico. Più o meno allo stesso periodo risalgono poi le prove, provenienti da alcuni siti sudafricani, dell’impiego di una complessa tecnologia di lavorazione della pietra in più fasi che non ha precedenti nella documentazione archeologica. Tracce di questo tipo testimoniano quasi certamente una pianificazione complessa prodotta da menti dotate di capacità simbolica.
Naturalmente poi le pitture rupestri e le forme d’arte trasportabili che si sono diffuse in Europa con i primi immigrati Homo sapiens, circa 40 mila anni fa, sono più di quanto si possa desiderare per mostrare che la singolare capacità simbolica moderna era ormai in quel momento completamente espressa.
Un aspetto particolarmente significativo è il fatto che quando incominciamo a trovare queste prove indirette del ragionamento simbolico la velocità del cambiamento aumenta enormemente. Nel corso della lunga storia tecnologica dell’umanità il cambiamento è sempre stato sporadico e raro in quanto rappresentava l’eccezione e non la regola. Quando però gli esseri umani incominciano a realizzare oggetti simbolici in grado di testimoniare il loro modo nuovo di ragionare, il cambiamento diventa la norma. Oggi infatti la nostra vita è caratterizzata da una costante aspettativa di cambiamento. Con l’emergere di una capacità simbolica, l’esperienza umana compie un balzo qualitativo e cambia anche la nostra relazione con il mondo. Ormai sulla scena c’è un essere interamente nuovo e di un tipo senza precedenti.
E dunque che cos’è accaduto? I più antichi Homo sapiens, i primi ad avere un aspetto molto simile a quello dei loro discendenti attuali, si comportavano più o meno come i Neandertal (imitando in tal modo i loro predecessori che sembrano essersi comportati all’incirca come gli antenati più antichi che li hanno preceduti). La regola per le nuove specie di Homo era di compiere limitati progressi incrementali rispetto al punto a cui si era arrivati in precedenza, ed evidentemente questo schema si applica anche ai primi Homo sapiens. Così la transizione dal vecchio modo di ragionare a quello radicalmente nuovo, simbolico e senza precedenti, si è verificata sorprendentemente tardi nella storia evolutiva umana durante il periodo di diffusione della nostra stessa specie Homo sapiens.
L’inizio di questa trasformazione deve per forza essere associato a un cambiamento culturale e non biologico. Anche se la natura della transizione cognitiva in sé è molto difficile da immaginare, il modo in cui è avvenuta può essere considerato ben poco insolito. Infatti, come accade sempre nell’evoluzione, le basi biologiche dovevano già essere stabilite per consentire che si sviluppasse il nuovo modo di agire. In poche parole non è possibile fare qualcosa di nuovo se non si possiede già la capacità potenziale per farlo. Questa idea è ulteriormente confermata dalle altre transizioni principali rilevabili nella documentazione fossile.
Le penne negli uccelli sono comparse molto prima di essere usate per il volo e gli antenati dei più antichi vertebrati di terraferma avevano arti ossei ancor prima di riuscire a trascinarsi con essi fuori dall’acqua. Esempi come questi mostrano chiaramente come si svolgono gli eventi. Prima una specie acquisisce la nuova caratteristica biologica (come mero frutto del caso oppure come effetto collaterale di qualche altra acquisizione), quindi «scopre» come può servirsene in modi nuovi. Nel nostro caso la nuova caratteristica biologica non è stata semplicemente il prodotto passivo di un aumento della massa cerebrale, come mostra l’esempio dei Neandertal che avevano un grande cervello ma non possedevano una capacità simbolica. Anzi, molto probabilmente essa è da mettere in relazione con il potenziamento strutturale della capacità del cervello di compiere associazioni tra gli output dei suoi centri più elevati. E evidente inoltre che questa nuova possibilità di utilizzare il ragionamento simbolico deve essere stata scoperta piuttosto in fretta, entro 100 mila anni dalla prima comparsa di Homo sapiens anatomicamente distinti.
E in corso un ampio dibattito su come sia avvenuta questa scoperta, anche se in generale il principale stimolo culturale candidato viene considerata l’invenzione del linguaggio. Dopo tutto il linguaggio è il comportamento simbolico più spinto, dato che dipende dal mescolamento di simboli nel cervello, secondo determinate regole, per generare un numero infinito di significati a partire da un numero finito di elementi. E nonostante il linguaggio non possa spiegare tutto, neppure se ci limitiamo a considerare il nostro cervello conscio, è comunque qualcosa di talmente familiare che ci sembra inconcepibile non averlo. Sappiamo che il linguaggio strutturato può essere inventato spontaneamente dagli esseri umani con l’equipaggiamento mentale necessario. Se la più antica forma di linguaggio è stata inventata da membri della specie Homo sapiens, invece di emergere gradualmente con il passare degli eoni tra le forme arcaiche, è certo che i primi ad averlo usato dovevano già possedere le strutture periferiche dell’apparato vocale (esclusive della nostra specie) necessarie a esprimersi con una lingua articolata. Per di pili, oltre a svolgere un ruolo come conduttura del nostro pensiero interiore, il linguaggio è anche un attributo esterno, pronto per diffondersi rapidamente nell’ambito di una specie già biologicamente predisposta ad acquisirlo.
Circa 100 mila anni fa Homo sapiens era sparpagliato nel Vecchio Mondo in piccole popolazioni spesso isolate e vulnerabili agli effetti dei bruschi cambiamenti climatici. E piuttosto facile immaginare, almeno in linea di principio, come in una piccola popolazione isolata di questa insolita specie, di certo sottoposta a notevoli pressioni, sia stata inventata qualche forma rudimentale di linguaggio strutturato, probabilmente da parte di bambini che giocavano.
Immediatamente, questo nuovo comportamento intelligente deve aver incominciato ad avere ripercussioni sulla capacità del cervello di compiere associazioni complesse, a sua volta un prodotto dell’exaptation [con questo termine, coniato da Stephen J. Gould e da Elisabeth Vrba nel 1982, si indicano i tratti evolutisi inizialmente per una certa funzione, o come effetti collaterali casuali, e successivamente cooptati dalla selezione naturale per usi differenti]. Così deve essere nata la nuova forma di ragionamento.
Certo, una cosa è schematizzare con poche pennellate un quadro come questo, un’altra è comprenderne i dettagli. Come facevano gli individui a gestire l’informazione, o a comunicare, poco prima dell’invenzione del linguaggio? Queste persone avevano un mondo interiore, come il nostro? Come poteva sentirsi il primo Homo sapiens in grado di pensare o parlare, senza un quadro di riferimentodi alcun tipo? La mente letteralmente vacilla di fronte a simili domande.
E piacevolmente riduzionista immaginare che il ragionamento e le capacità cognitive moderne siano emerse per gradi, grazie all’affinamento in tempi lunghi operato dalla selezione naturale. Ma la documentazione materiale non ci offre alcuna buona ragione per credere che le cose siano andate così. Infatti, senza contare l’intervallo di tempo incredibilmente breve, non c’è nulla che sappiamo dei processi evolutivi da cui possiamo dedurre che questo modo radicalmente nuovo di agire possa essere comparso così. Chiaramente una trasformazione si è verificata ed è stata molto rapida. Il confronto tra le sequenze di dna nelle popolazioni attuali indica che i moderni esseri umani, presumibilmente già dotati di capacità simbolica, hanno lasciato definitivamente l’Africa circa 60 mila anni fa. Già 40 mila anni fa la nostra specie aveva conquistato il Vecchio Mondo (sostituendo gli ominidi precedentemente presenti, privi di capacità simbolica). Il Circolo Polare Artico è stato raggiunto 29 mila anni fa e il Nuovo Mondo non molto tempo dopo. Questa sequenza di eventi è stata rapida e recente e si è verificata soltanto grazie al nuovo modo di ragionare, emerso qualche decina di migliaia di anni prima.
Il prodotto di questa storia, Homo sapiens, rappresenta senza dubbio un fenomeno che non ha precedenti al mondo. Ed è anche qualcosa di pericoloso proprio perché le sue caratteristiche sono emergenti, e non ben affinate dalla selezione naturale per un ruolo specifico in natura. Particolarmente allarmante è il fatto che le nostre capacità tecnologiche sembrano sorpassare la nostra possibilità di gestire le loro conseguenze. Malgrado le sue qualità ammirevoli, la nostra specie si è rivelata la mina vagante peggiore per gli ecosistemi da cui dipendiamo. Ma anche se, nel bene o nel male, le nostre peculiari capacità ci rendono speciali, è importante non farsi conquistare dall’idea che i meccanismi grazie ai quali siamo qui devono aver avuto qualche caratteristica speciale. Non c’è stato nulla di speciale o di particolarmente insolito nelle forze evolutive che ci hanno permesso di esistere. Certamente, come parte del nostro equipaggiamento cognitivo, abbiamo, o crediamo di avere, una dimensione spirituale. Grazie alle nostre capacità simboliche possiamo percepire o immaginare (scegliete il verbo che preferite) ciò che non si vede, non si sente e non si può udire. A proposito di queste cose la scienza, confinata nel campo di ciò che è osservabile e verificabile, non può dire nulla, in un senso o nell’altro. La scienza però può dirci con sicurezza che i meccanismi a cui dobbiamo la nascita della nostra notevole specie furono del tutto ordinari (traduzione di Allegra Panini).
Trovata un’altra specie Homo risalente a 3 – 3,5 mil. anni di fa.
Commenti recenti