Il testo seguente è elaborato a partire da M. Attinà, La scuola primaria. L’anima della tradizione, le forme della modernità [Milano, Mondadori, 2012, pp. 1-36].
Indice
1. La nascita della scuola italiana
1.1 Le leggi Casati e Coppino: lotta all’analfabetismo e formazione dei cittadini italiani
1.2 Le Istruzioni ai Programmi del 1888 di Aristide Gabelli
1.3 La Riforma Gentile del 1923
2. Dalla scuola elementare attivista (1955) a quella cognitivista (1985)
2.1 La scuola elementare dei programmi Ermini (1955-1985)
2.2 La scuola cognitivista del 1985
2.3 Speciale RAI, Registro di classe – Libro I 1900 – 1960
3. La stagione riformatrice degli anni ’60 e ’70
3.1 La scuola media unificata del 1962
3.2 La riforma del 1973 e i Decreti delegati
3.3 La legge 4 settembre 1977 n. 517
3.4 Il nuovi programmi per la Scuola Media del 1979
4. Gli anni 90 e l’autonomia scolastica
4.1 Le premesse culturali dell’autonomia
4.2 Le riforme Moratti e Gelmini
5. 150 anni di scuola italiana
6. La “Buona scuola” [in stesura]
6.1 Cronache dalla “Buona scuola”
1. La nascita della scuola italiana
1.1 Le Leggi Casati e Coppino: lotta all’analfabetismo e formazione dei cittadini italiani
La scuola elementare italiana nasce convenzionalmente con la legge Casati, promulgata nel Regno di Sardegna nel 1859 poi estesa al Regno d’Italia nel 1861, che disponeva l’obbligo di frequenza delle prime tre classi e si prefiggeva di assicurare a tutti gli italiani le conoscenze elementari del «leggere, scrivere e far di conto».
l battaglia per la piena scolarizzazione è condotta dalla successiva legge Coppino (1877) che affida la vigilanza ai provveditori agli studi e prosegue la lotta dello stato postunitario contro l’analfabetismo che nel 1861 interessava il 74% dei cittadini, e per migliorare la qualità, assai carente, dell’insegnamento magistrale.
1.2 Le Istruzioni ai Programmi del 1888 di Aristide Gabelli
Un passaggio significativo sono i programmi del 1888, preceduti dalle Istruzioni del pedagogista Aristide Gabelli nelle quali si legge che la scuola deve essere «accomodata al tempo», deve cioè comprenderne lo spirito e appagarne i bisogni in vista dell’utilità sociale, alla quale si lega quella dei singoli. Deve essere cioè, vicina alla vita.
Gabelli, provveditore a Firenze e Roma, poi deputato, redasse il Metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia (1880), poi le Istruzioni per i Programmi del 1888 che recepiscono il nuovo fermento positivistico teso a cogliere le trasformazioni della realtà sociale e il contributo dell’intelligenza umana volto a «far bene le teste più che riempirle».
Gli scopi della scuola elementare sono «dar vigore al corpo, penetrazione dell’intelligenza e rettitudine morale», in cui è il fine etico a prevalere, attraverso l’educazione dell’intelligenza. Il metodo è pratico, induttivo, basato sull’osservazione e sull’esperienza, in grado di sottrarre gli individui ad ogni dogmatismo.
1.3 La Riforma Gentile del 1923
La riforma della scuola disegnata dal filosofo neoidealista Giovanni Gentile insieme a Giuseppe Lombardo Radice, colloca la scuola italiana in una nuova prospettiva, organica e unitaria, opposta alla precedente concezione positivista dell’individuo e della scuola.
Se per Gabelli è centrale il costante confronto con la realtà e il metodo didattico, per Gentile è centrale l’atto pensante e l’uomo che attraverso di esso scopre e conquista la propria umanità. Il metodo è semplicemente il maestro che con la sua vasta cultura riesce a guidare l’allievo alla conquista della ragione e della consapevolezza.
L’educazione non è un metodo che agisce dall’esterno sull’allievo, ma un’esperienza spirituale, un processo dello spirito attraverso il quale l’individuo conosce socraticamente «se stesso».
La scuola elementare è pensata come luogo della libertà infantile in cui assume rilievo il rapporto affettivo tra maestro e allievo.
L’obbligo scolastico è elevato a 14 anni, alla fine del ciclo unico elementare, anche se è perlopiù disatteso.
In ossequio alla visione gerarchica e classista del fascismo in cui Gentile fu Ministro dell’Istruzione (1922-1943), la scuola secondaria si differenzia in Scuola di avviamento professionale e Licei, con netta preminenza del Liceo Classico che permetteva di accedere a tutti i corsi di Laurea (dallo Scientifico non si poteva accedere invece a Lettere e Filosofia e a Giurisprudenza). Dalla scuola di avviamento non era possibile accedere all’Università.
Giuseppe Lombardo Radice redasse i programmi per la scuola elementare, nei quali opponeva all’arido didatticismo, frutto dell’interpretazione che i maestri facevano dell’approccio positivista, la “didattica viva”, più adatta all’immagine romantico-poetica dell’infanzia contenuta nell’idea di “scuola serena”.
Questa scuola punta sulla creatività dando libertà all’insegnante di cercare i migliori mezzi per insegnare forme espressive e artistiche, dal canto al disegno, al folclore alla religione. Per questo Lombardo Radice fu poco interessato all’esperienza montessoriana e più a quella delle sorelle Agazzi e della Pizzigoni.
Al sistema teorico gentiliano e all’approccio romantico di Lombardo Radice si rimprovera spesso di aver determinato il ritardo della scuola italiana nella ricezione del movimento delle scuole nuove e dell’attivismo.
Dopo la guerra, i programmi del 1945 sono redatti da una commissione di esperti diretta dal pedagogista allievo di Dewey, Carleton Washburne che si prefisse principalmente di ridare costume democratico all’educazione di un paese uscito dalla dittatura fascista. La scuola del dopoguerra punta così sull’autogoverno, sull’attivismo e sull’adeguamento psicologico dei metodi.
Nel 1955 i programmi della scuola elementare sono sostituiti da quelli firmati dal Ministro dell’Istruzione Giuseppe Ermini che daranno un’impronta durevole al primo ciclo d’istruzione, restando operativi fino al 1985.
Con Ermini la scuola italiana riconosce le proprie radici culturali nella tradizione cattolica informando i suoi valori alla dottrina personalistica (umanesimo cristiano) e il metodo all’attivismo (Dewey, Piaget).
2. Dalla scuola elementare attivista (1955) a quella cognitivista (1985)
2.1 La scuola elementare dei programmi Ermini (1955-1984)
I programmi del 1955 si ispirano alla socialità di Dewey e all’attivismo ginevrino di Decroly e Piaget.
Avevano carattere prescrittivo, perché prevedevano il livello di istruzione che l’alunno doveva raggiungere, per assicurare a tutti la formazione dell’intelligenza e del carattere necessari alla partecipazione alla vita della società. Alla scuola elementare si attribuiva dunque il compito di fornire gli elementi essenziali della cultura e di educare le capacità fondamentali dell’uomo.
La scuola elementare doveva realizzare la «formazione integrale della persona», con particolare enfasi sulla creatività, il sentimento e la fantasia dell’alunno (residuo della pedagogia di Lombardo Radice).
Sul piano didattico, prescriveva l’individualizzazione dell’insegnamento in rapporto alla maturazione e agli interessi dell’allievo, l’assunzione dell’ambiente, nei suoi diversi aspetti, come base dell’insegnamento, nella valorizzazione delle attitudini all’osservazione, alla riflessione e all’espressione, nel metodo globale.
Il paradigma attivistico si ritrova nel risalto dato al gioco, al lavoro libero e organizzato, individuale e di gruppo, alla responsabilizzazione dell’alunno, oltre che nell’esigenza di muovere dai vissuti dell’alunno e di legare percorsi formativi e tessuto sociale.
Dalla fine degli anni ’60, questo modello iniziò ad essere criticato per:
-la visione parziale dell’età infantile, sbilanciata sull’intuizione, la fantasia, il sentimento, a danno della componente cognitiva e razionale della personalità;
– la visione del maestro unico, esperto in tutti gli ambiti della didattica elementare (linguistico e matematico);
– l’impostazione filo-cattolica dei programmi, in contrasto con lo spirito della Costituzione che afferma la libertà di coscienza e di religione (ma non con i Patti lateranensi).
2.2 La scuola cognitivista del 1985
La società italiana degli anni ’80 era profondamente diversa da quella degli anni ’50: è industrializzata, pluralista sul piano degli stili di vita, consumista, ampiamente scolarizzata (l’80% dei ragazzi prosegue gli studi secondari dopo la terza media).
I programmi del 1985 costruiscono una scuola che passa dal personalismo cattolico all’umanesimo laico, pluralista, fondato sui principi costituzionali (con il concordato del 1984, la Chiesa aveva rinunciato a proporsi come religione di stato). L’istruzione elementare viene quindi fondata su criteri educativi irrinunciabili:
– il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo;
– la tutela del pieno sviluppo della personalità di ogni bambino e l’impegno a rimuovere ogni ostacolo che possa limitarlo.
Mentre lo sfondo pedagogico dei programmi del 1955 era l’attivismo, quelli del 1985 aderiscono al cognitivismo, rappresentato da Piaget, Bruner e Gardner, i cui lavori rispondo all’esigenza di superamento dell’attivismo, non più rispondente al mutato clima socio-culturale.
Sia in Piaget che in Bruner c’è la preoccupazione di valorizzare la componente intellettiva del processo conoscitivo. Piaget insiste sul rispetto delle fasi di maturazione dell’allievo, Bruner invece, reagisce contro il motto attivista secondo cui «la scuola è vita» e insiste sulla natura artificiale della scuola per consentire l’ingresso nella «vita della ragione» e acquisire le chiavi di lettura della realtà.
Piaget e Bruner sostengono il concetto di alfabetizzazione culturale, finalizzata all’acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio e del primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità e delle tecniche di indagine essenziali alla comprensione del mondo naturale, artificiale, umano, laddove i linguaggi non sono altro che i sistemi simbolici costruiti dall’uomo e i quadri concettuali le modalità di organizzazione delle conoscenze (Gardner).
La scuola elementare del 1985 si configura così come un’impresa cognitiva, un’istituzione educativa che coniuga le esigenze di una scuola di cultura e di una scuola di valori.
I principi didattici della nuova scuola sono;
– la continuità, realizzata attraverso il metodo;
– l’ampliamento del tempo scuola;
– la modularità (e la pluralità dei docenti);
– la formazione sistematica del corpo docente, l’approfondimento delle competenze didattiche e la dilatazione della ricerca pedagogica.
https://www.raiplay.it/video/2019/03/Speciale-Tg1-e6c7f4f6-d4cf-4da6-be23-ace4c00d19e8.html
3. La stagione riformatrice degli anni ’60 e ’70
3.1 La scuola media unificata del 1962
Il provvedimento istitutivo della scuola media unica, triennale, gratuita e obbligatoria è una legge di primaria importanza per la scuola italiana che sancisce la fine della segregazione di classe iniziata col fascismo e lo sforzo più importante per la costruzione dell’uguaglianza sociale.
La nuova scuola media nacque per fornire a tutti le stesse opportunità educative, anche se fu proprio questo sforzo a far risaltare le differenze cognitive esistenti tra le diverse classi sociali, generate dal diseguale accesso alle fonti culturali, accentuate dalle diversità linguistiche. È questa, infatti, la scuola della dispersione e dell’umiliazione dei poveri contro cui insorgono Don Milani ed altri.
La parola ci fa uguali 1. L’unificazione linguistica degli italiani e i maestri degli esclusi
3.2 La riforma del 1973 e i Decreti delegati
La riforma dei “Decreti delegati” è la più importante degli anni ’70 per l’introduzione di un nuovo modello di scuola e di una nuova fisionomia del lavoro docente.
La scuola è indicata come luogo non soltanto di trasmissione del sapere, ma di elaborazione autonoma di essa, in stretto rapporto con la società, per il pieno sviluppo della personalità dell’alunno, nell’attuazione del diritto allo studio.
La scuola è ora una comunità che agisce con la più vasta comunità sociale e civica attraverso la collaborazione di tutte le componenti interessate al processo formativo (genitori, alunni, personale docente, non docente). L’organizzazione e il funzionamento della scuola sono affidati a organi collegiali a gestione partecipativa (consigli di classe, di circolo, di Istituto, Collegio docenti), alcune dei quali con rappresentanze elette. Confronto e collegialità diventano così le strategie fondanti del nuovo modello di scuola.
Al docente sono riconosciute: la libertà di insegnamento, il diritto/dovere all’aggiornamento e la possibilità della sperimentazione didattica quale espressione dell’autonomia didattica dei docenti.
3.3 La legge 4 settembre 1977 n. 517
La legge 517/77 introduce altri fondamentali cambiamenti: l’obbligo della programmazione didattica e curricolare, la possibilità di lavorare per «classi aperte», l’introduzione del principio della valutazione formativa continua, ricavata dal’osservazione della maturazione e dei progressi d’apprendimento dell’allievo (invece degli sterili principi della media dei voti e del recupero) e quello dell’integrazione dei ragazzi portatori di handicap.
La scuola del 1977 è quindi una scuola flessibile e senza classi speciali che si lascia alle spalle la valutazione fiscale fatta di voti ed esami.
3.4 Il nuovi programmi per la Scuola Media del 1979
Il forte impulso sperimentatore e innovativo degli anni ’60 e ’70 è strettamente condizionato dalle ricerche in ambito psicologico e della sociologia dell’educazione che evidenziano l’importanza delle strutture cognitive e del background familiare e culturale dell’alunno, carichi di possibili condizionamenti sui futuri esiti scolastici.
Quest’epoca si conclude con il D.M. 1979 contenente i nuovi programmi per la Scuola Media, le cui importanti Premesse richiamano i principi di collegialità e flessibilità organizzativa finalizzati ai necessari interventi tesi alla rimozione delle condizioni di emarginazione sociale o culturale degli alunni.
L’ultima legge legata a questa stagione può essere considerata la legge n. 148 di Riforma dell’ordinamento della scuola elementare del 1990 che punta sulla continuità con il ritmo di crescita degli alunni, sull’innalzamento del tempo scuola a 30 ore e sulla modularità, stante la varietà e complessità dei saperi e degli stimoli educativi, non più gestibili dal maestro unico.
La Conferenza nazionale sulla scuola, tenutasi a Roma tra gennaio e febbraio 1990 apre un’altra stagione: quella dell’autonomia.
4. Gli anni 90 e l’autonomia scolastica
Il cambio di paradigma annunciato dalla Conferenza sulla scuola, parte da una critica ai risultati del sistema scolastico che viene chiamato a rispondere come «servizio» (e non più come un diritto) dell’uso efficiente ed efficace delle risorse assegnate.
La riforma della scuola del 1997 segue ad una serie di misure riorganizzative della pubblica amministrazione ispirate ai principi di decentramento e di sussidiarietà (oggi sancito dal’art. 118 dopo al Riforma del Titolo V della Costituzione).
L’organizzazione scolastica, costruita sul modello del centralismo ministeriale e sulla logica dell’«adempimento», è sostituito da quello della “scuola-servizio” centrato sulla singola realtà scolastica (decentramento), finalizzata al «successo formativo» degli allievi.
Il principio di sussidiarietà è invece il principio che regola i rapporti tra i diversi livelli territoriali di potere, stabilendo che lo svolgimento di funzioni pubbliche debba essere svolto al livello più vicino ai cittadini e che i livelli superiori (e più lontani) possano intervenire solo se in grado di assolvere al compito meglio del livello inferiore (sussidiarietà verticale).
L’affermazione del principio di sussidiarietà orizzontale e del nuovo rapporto tra stato e cittadini è contenuta nell’affermazione che:
“Stato, Regioni, città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”.
Ciò comporta che singoli e formazioni sociali, quali la famiglia, siano riconosciuti come titolari di servizi alla persona. È chiaro che ciò comporta differenziazione e autonomia dei sistemi locali (di servizi, tra i quali la scuola).
4.1 Le premesse culturali dell’autonomia
La complessità è un tessuto (complexus: ciò che è tessuto insieme) di costituenti eterogenei
inseparabilmente associati: pone il paradosso dell’uno e del molteplice.
[E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, 1993]
4.1.1 Le teorie dei sistemi e della complessità
Un cambio di paradigma è, essenzialmente, un cambiamento del modo di guardare a un oggetto, a un fenomeno. Anche il caso della scuola degli anni ’90 non fa eccezione e può essere compreso guardando ai nuovi modelli con cui le scienze cercano di spiegare la realtà naturale e sociale.
Questi nuovi modelli introducono i concetti di «sistema» (Von Bertallanfy, Luhmann) e di complessità leggendo il mondo fisico e quello sociale come un insieme di interrelazioni in cui ogni elemento è in rapporto di scambio e dipendenza con tutti gli altri, generando fenomeni non lineari e risposte inattese.
La teoria generale dei sistemi – debitrice di molti apporti scientifici, dalla cibernetica alla biologia alla psicologia) ricorre al concetto matematico di funzione (relazione di interdipendenza tra variabili diverse) sulla base del quale essa esamina i rapporti che vengono a stabilirsi di fatto tra gli elementi diversi del sistema considerato.
Con il termine sistema si intende una realtà complessa i cui elementi interagiscono reciprocamente condizionandosi l’un l’altro. Il significato di ogni singolo elemento non va perciò ricercato nell’elemento stesso, ma nel sistema di relazioni in cui esso è inserito.
Il fatto che i fenomeni siano considerati nella loro reciproca relazione fa sì che i sistemi non siano qualcosa di statico, ma in costante evoluzione (o involuzione) dinamica, particolarmente significativa nei sistemi in cui sono più frequenti le relazioni con l’ambiente circostante (sistemi aperti).
Per sopravvivere e svilupparsi i sistemi complessi producono sempre nuove interpretazioni della realtà esterna con le quali riducono la complessità ed evolvono. Essi quindi si autoorganizzano, manifestando proprietà emergenti, cioè qualità nuove, non rintracciabili nei singoli elementi, né nelle precedenti forme organizzative.
Va notato che “complesso” non significa “complicato”, perché un sistema, per quanto complicato, è comunque prevedibile se si conoscono tutti gli elementi che lo compongono e le loro relazioni. Un sistema complesso, invece, non è prevedibile anche se sono noti tutti gli elementi, perché è un sistema in grado di adattarsi autonomamente, cioè di autoorganizzarsi. La complessità, infatti,
non è equilibrio stabile e non è caos: è una terza condizione, in cui il sistema è creativo, come se manifestasse un comportamento intelligente di adattamento alle sollecitazioni ambientali [Bertuglia, Vaio, Non linearità, caos, complessità, Bollati, 2003, p. 309]
Il legislatore degli anni 90 riconosce dunque nella scuola un sistema complesso a cui riconosce autonomia organizzativa per assicurarne l’efficienza.
4.1.2 Il principio di sussidiarietà
Il ruolo del principio di sussidiarietà è invece da mettere in relazione con la decentralizzazione dell’organizzazione scolastica e con una nuova idea di servizio alla persona che non si configura più come assistenza sociale, ma come sostegno alle capacità (empowerment) e alle iniziative autonome di chi ha bisogno del sussidio.
L’idea tradizionale di welfare state in cui il benessere dell’individuo è legato prevalentemente a indicatori materiali o cognitivi, è superata dall’idea di benessere legata alla capacità di agire delle persone. Il fatto, poi, che ad erogare i servizi siano chiamati soggetti diversi, pubblici e privati (tra i quali associazioni, cooperative e famiglie) porta al welfare community.
4.2 L’autonomia organizzativa delle scuole
L’autonomia obbliga le scuole a costruire la propria identità educativa e a darsi un regolamento nel quale indica la tipologia dei servizi erogati, sottoponendoli al giudizio di qualità dei cittadini.
E’ chiara la provenienza economico-commerciale di questa esigenza, che configura un problema di colonizzazione culturale della scuola da parte di altre culture, nello specifico quella aziendale.
Ciò implica non solo perdita d’identità del sistema “colonizzato”, ma anche il rischio di impoverimento delle esperienze, visto che nelle periferie dei sistemi non arrivano i prodotti d’avanguardia, ma modelli la cui validità è spesso già stata messa in discussione nello stesso mondo delle imprese (si veda il recente caso delle critiche al sistema di valutazione americano e le principali critiche all’INVALSI).
A rendere più difficile la valutazione della scuola c’è poi la natura qualitativa, non discreta, della produzione di cultura e di educazione che rende inadatta l’adozione di standard puramente quantitativi e fa parlare alcuni critici di «quantofrenia» del sistema scolastico attuale.
L’autonomia costringe le scuole a costruire una propria identità in collaborazione con altre risorse del territorio: lo strumento principale di questo tipo di scuola è il Piano dell’Offerta Formativa (oggi triennale: PTOF). Con il PTOF ogni scuola sceglie i percorsi di insegnamento/apprendimento che considera più efficaci, attraverso forme di flessibilità organizzativa che realizzano la flessibilità didattica.
Dal 2000 non si parla più di programmi scolastici, ma di Indicazioni nazionali in base alle quali ciascuna scuola definisce il propri curricolo.
Le scuole hanno così autonomia didattica, finanziaria e gestionale e possono entrare in rete con altri soggetti del territorio per assicurare l’arricchimento del percorso formativo. Le collaborazioni devono naturalmente essere coerenti con il PTOF.
Tra i critici più intransigenti dell’autonomia scolastica, Massimo Bontempelli ha definito l’autonomia scolastica una disarticolazione del sistema nazionale dell’Istruzione pubblica, privato di centro e di indipendenza che apre la strada al didatticismo, mette le scuole in reciproca competizione e svuota il sapere della sua natura di strumento disinteressato di visione critica e scientifica del mondo. L’autonomia è il perno della subordinazione della scuola all’economia e dunque la fine della scuola [Cfr. M. Bontempelli, in S. Gnech (a cura di) Il limite dell’utile, Franco Angeli, 2000].
Nei quindici anni trascorsi, l’autonomia non è riuscita a centrare gli obiettivi della cancellazione della dispersione scolastica, dell’elevazione del livello minimo di istruzione per condurre tutti gli alunni a padroneggiare la lingua madre e possedere un bagaglio soddisfacente di competenze logico-conoscitive, gli obiettivi su cui era stato accantonato il sistema centralistico.
4.2 Le riforme Moratti e Gelmini
La linea politica del nuovo governo di centrodestra, con Letizia Moratti come Ministro dell’Istruzione, fu chiaramente indicata negli Stati Generali istruzione che si svolsero a Roma nel dicembre 2001, dove apparve evidente l’inversione di rotta rispetto al governo di centrosinistra.
Le idee di fondo dei progetti del centrodestra (iniziati dalla Moratti e completati dalla Gelmini) si possono sintetizzare nella volontà di ridimensionare gli interventi dello Stato nelle politiche sulla formazione in nome della libertà di scelta delle famiglie e della libera concorrenza tra scuola pubblica e scuola privata.
Per il centrodestra la scuola ha un costo eccessivo, ci sono troppi insegnanti, ci sono troppi sprechi e, soprattutto, le ore di scuola settimanali sono troppe: da qui la necessità di semplificare e riordinare l’intero sistema dell’istruzione riducendo progressivamente le risorse finanziarie da destinare ai progetti, al tempo prolungato e al tempo pieno.
Viene varata quindi la legge 53/2003, meglio nota come riforma Moratti, che abroga la 30/2000 che si prefigge di adattare la scuola alle attese del mondo del lavoro (con le 3 di Inglese, Informatica, Impresa in enfasi) e, sul piano didattico, sul modello personalista riconoscendo alla persona un ruolo centrale e ponendo le istituzioni scolastiche al suo servizio.
Il sistema dell’istruzione professionale si distanziava da quello liceale e diventava di competenza regionale. Si stabiliva inoltre un sistema di alternanza scuola-lavoro, le cui esperienze da svolgere nel mondo del lavoro sarebbero state valutate come un percorso didattico.
Al termine dei primi tre anni di istruzione professionale l’alunno conseguiva un diploma di qualifica. Con la frequenza del quarto anno la qualifica quadriennale. Qualora, invece, avesse voluto accedere all’Università, poteva frequentare un quinto anno e sostenere l’Esame di Stato con lo stesso valore di quello del sistema dei licei.
Un altro importante cambiamento è stata l’introduzione dei test INVALSI, ancora oggi in vigore nella scuola primaria e nella secondaria di primo e secondo grado.
Renato Foschi, Costruire il cittadino desiderabile: le prove INVALSI e la psicopedagogia
L’obbligo scolastico scese a 14 anni, anche se, il cambio di governo e l’insediamento del dicastero Fioroni (2006) lo riportò rapidamente a 16.
Nel 2008, il nuovo governo di centro-destra continua l’opera di ridimensionamento degli investimenti sulla scuola pubblica avviato dalla Moratti. È con la legge 133/2008 che il ministro Tremonti e il ministro Gelmini avviano una vasta operazione di razionalizzazione del sistema di istruzione, tagliando 8 miliardi di euro sul numero delle cattedre e sul “tempo scuola”.
Il ministro Gelmini ha operato, da un lato, sulla scuola primaria con una serie di interventi tesi a ripristinare un modello di scuola obsoleto e tradizionale, con il ritorno ai voti numerici – abrogati nel 1977 con la legge 517 – e al maestro unico, dall’altro lato sulla secondaria di secondo grado, rispolverando la legge Moratti e rivedendo tutti i curricoli, attraverso il D.lgs n. 226 sui licei.
Sulla L. 107/2015, anche detta “Buona scuola”, il parere di Tullio De Mauro (1 e 2).
5. 150 anni di scuola italiana
Tuttinclasse! è stata una puntata evento de La Grande Storia dedicata ai centocinquant’anni della scuola italiana.
La puntata, registrata alle Officine Grandi Riparazioni di Torino nell’ambito della Mostra “Fare gli italiani”, è stata condotta da Roberto Vecchioni in qualità di professore.
6. La “Buona scuola” [in stesura]
6.1 Cronache dalla “Buona scuola”
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