Condominium

by gabriella

grattacielo5

Le torri sembravano quasi sfidare il sole stesso […] la mattina dal suo studio Laing
vedeva le loro ombre ruotare sui parcheggi e le piazze vuote del complesso, come chiuse che si alzavano per far passare la luce del giorno. Con tutte le sue riserve, Laing era però il primo ad ammettere che quegli enormi edifici erano riusciti nel loro intento di colonizzare il cielo.

Per molti versi il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia
aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente libera.

James G. Ballard, Condominium, 1975

Il progetto di un grattacielo a spirale completamente autarchico ha vinto il “SuperSkyScrapers Award 2014” di Londra, conquistando la giuria con un design che incarna un ideale organicista, di autosviluppo vorticoso infinito.

“The Endless City in Height” è formato da due lunghe rampe a spirale intrecciate tra loro, sostenute da tubi in acciaio e collegate da ponti e stradine. Il progetto mostra un edificio dalla forma conica, completamente aperto, con piazze, parchi e negozi che si sviluppano su 55 piani, in una superficie di circa tremila metri quadrati: una città verticale, più stretta alla base e più larga in cima, come l’Inferno dantesco.

infernoIl progetto di questi architetti londinesi, ignari del racconto distopico dedicatogli trent’anni prima da James Ballard, High Rise (trad. it. Condominium), verrà realizzato nell’area di espansione urbana della metropoli inglese. Scritto nel 1975, Condominium racconta la rapida degenerazione delle relazioni sociali in un lussuoso grattacielo londinese, nel quale le linee moderniste di un condominio di vetro ed acciaio producono il tragico adattamento dei residenti al sistema di vita incarnato nel design, fatto di ostilità e competizione, sopraffazione e ostentazione della differenza:

«Laing […] già poco tempo dopo il suo arrivo nel condominio, aveva comunque dovuto notare attorno a lui una straordinaria quantità di antagonismi appena velati. Il grattacielo aveva una seconda vita tutta sua. […] poco sotto la schiuma del pettegolezzo professionale si stendeva una dura cappa di rivalità personali. A volte aveva la sensazione che tutti stessero aspettando che qualcuno facesse un grosso errore […]».

«I sei mesi precedenti erano stati un periodo di litigi continui fra i suoi vicini, di scontri volgari per gli ascensori difettosi e l’aria condizionata mal funzionante, per gli inspiegabili guasti elettrici, per il rumore e le contese sugli spazi di parcheggio […] Le tensioni sotterranee fra gli inquilini erano decisamente forti, e solo in parte smorzate dal tono civilizzato del palazzo e dall’ovvia esigenza di rendere l’immenso condominio un successo». 

high-rise«Quella rivalità fra padroni di cani e genitori di bam­bini piccoli aveva già, in un certo senso, polarizzato l’edificio. In mezzo fra i piani superiori e inferiori, la massa centrale degli appartamenti – grosso modo dal decimo al trentesimo – faceva da stato cuscinetto. Nel corso del breve interregno seguito all’annegamento del cane, il settore mediano del grattacielo fu invaso da una strana calma, come se gli inquilini avessero già capito cosa stava per succedere nel palazzo. Laing lo scoperse quella sera, tornando dalla Facoltà di Medicina. Di solito, verso le sei, l’area di parcheggio riservata ai piani dal ventesimo al venticinquesimo era già piena, e ciò lo costringeva a lasciare la macchina nel settore riservato agli ospiti, a trecento metri dall’edificio. Abbastanza ragionevolmente, gli architetti avevano sud­diviso i parcheggi in modo che più in alto era l’apparta­mento (e di conseguenza più lungo il viaggio in ascenso­re) e più vicino al palazzo si parcheggiava. Gli inquilini dei piani bassi dovevano percorrere ogni giorno tratti considerevoli, per andare e venire dalla macchina, una sfilata non priva di soddisfazioni per gli spettatori, aveva notato Laing. In qualche modo, il grattacielo favoriva l’insorgere degli impulsi più meschini» [pp. 26, ed. Feltrinelli].

«Vivace come sempre, il bimbo chiese alla madre se nel pomeriggio avrebbe potuto an­dare al gruppo di gioco del terzo piano. Senza nemmeno pensarci, lei disse di no. Laing la guardava con crescente interesse. Come lui, Charlotte stava aspettando che acca­desse qualcosa. Non dovettero attendere molto. Subito dopo pranzo si verificò la prima di una nuova serie di provocazioni fra piani rivali, che rimise in moto il meccanismo sopito della disgregazione e dell’ostilità. Gli incidenti furono abbastanza banali, ma Laing aveva già capito che erano il riflesso di antagonismi profondamente radicati che stavano erompendo alla superficie della vita nel gratta­cielo, da più e più punti. Molti dei fattori tirati in ballo erano evidenti già da tempo: lamentele sul rumore e sull’abuso dei servizi dell’edificio, rivalità riguardo agli appartamenti meglio situati (quelli lontani dai pianerot­toli degli ascensori e dalle colonne di servizio con il loro eterno brontolio). C’era perfino una meschina invidia per le donne più attraenti, che si supponeva abitassero ai piani superiori, una convinzione largamente condivisa che Laing si era divertito a controllare. Durante il blackout elettrico la moglie diciottenne di un fotografo di moda era stata assalita da una sconosciuta, mentre era dal parrucchiere. Probabilmente per ritorsione, tre hostess del secondo piano furono allora spintonate da un gruppo di aggressive matrone degli ultimi piani, im­pegnate in un saccheggio al comando dell’atletica moglie del gioielliere.

ballard2Guardando dal balcone di Charlotte, Laing attendeva che avesse luogo il primo incidente. In piedi accanto a quella donna graziosa, con un drink in mano, sentiva di avere la mente piacevolmente sgombra. Sotto di loro, al nono piano, era in pieno svolgimento una festa di bam­bini. I genitori non facevano il minimo tentativo di trat­tenere i loro rampolli e anzi li spingevano a fare più ru­more possibile. Nel giro di mezz’ora, alimentati da un flusso costante di alcol, i genitori subentrarono ai figli. Charlotte rideva apertamente alla vista delle bibite che venivano rovesciate sulle auto di sotto, e andavano a ba­gnare il parabrezza e il tetto delle costose limousine e berline sportive delle prime file. Quei comportamenti animosi si manifestavano sotto gli occhi di centinaia di inquilini che erano usciti sui lo­ro balconi. Trovandosi davanti a un pubblico, i genitori presero a incitare i figli. Presto la festa sfuggì a ogni con­trollo. Bambini ubriachi giravano barcollando senza ri­cevere l’aiuto di nessuno. In alto sopra di loro, al trenta­settesimo piano, una donna che faceva il patrocinatore legale cominciò a urlare di rabbia, offesa per il danno provocato alla sua spider, i cui sedili in pelle nera erano coperti di gelato che si stava sciogliendo» [pp. 31-32, ed. Feltrinelli].

«Prima che Wilder potesse parlare, la porta dell’appar­tamento vicino si aprì di colpo. A squadrare Wilder con evidente ostilità ora c’erano un fiscalista del quarantesi­mo piano e un muscolosissimo coreografo con cui Wil­der si era spesso allenato a lanciarsi la palla medica, nel­la palestra del decimo piano. Rendendosi conto che il suo arrivo era stato svelato in anticipo a tutti, Wilder si volse per andarsene, ma il corridoio dietro di lui era bloccato. Un gruppo di sei in­quilini era uscito dall’atrio degli ascensori. Erano tutti in tuta e scarpe da tennis bianche e, a prima vista, sembra­vano una squadra di ginnasti di mezza età che si allena­vano con i manubri, ma ciascuno aveva anche la sua lu­cida mazza di legno. Alla guida di quella compagnia di anticaglie alquanto spiritate, costituita da un operatore di Borsa, due pediatri e due professori emeriti dell’uni­versità, c’era Anthony Royal. Come al solito indossava la sua sahariana bianca, un costume che non mancava mai di irritare Wilder, il genere di vestiario che avrebbe potu­to prediligere il direttore di un campeggio o il custode di uno zoo. Le luci del corridoio gli infiammavano i capelli biondi e mettevano in evidenza le cicatrici sulla fronte, una simbologia confusa che restava sospesa come una serie di beffardi punti interrogativi sulla sua espressione dura. Mentre si avvicinava a Wilder si batteva sulla ma­no come una verga il bastone da passeggio cromato. Wil­der guardava la luce giocare su quella canna liscia e non s edeva l’ora di avvolgerla attorno al collo di Royal.

Benché sapesse bene di essere in trappola, Wilder si era messo a ridere vedendo quella bizzarra compagnia. Quando mancò la luce, prima diminuendo per avvertirli e poi spegnendosi di colpo, arretrò contro la parete per farli passare. Nell’oscurità che lo circondava le mazze di legno battevano il ritmo in perfetto affiatamento. De porta aperta dell’appartamento di Jane Sheridan una torcia elettrica lo illuminò. Attorno a Wilder, la compagnia dei ginnasti stava per dare inizio all’azione. Le prime mazze cominciarono a roteare alla luce della torcia. Senza preavviso, sentì una raffica di colpi sulle spalle. Prima di cadere, Wilder afferrò una delle mazze, ma le altre lo colpivano mentre era a terra, sulla passatoia ai piedi di Anthony Royal. Quando si risvegliò si trovò steso su un divano dell’in­gresso principale, al pianoterra. Tutto attorno a lui scin­tillavano le luci al neon, riflesse dai pannelli di vetro del soffitto. Con la loro luminescenza monotona gli sembra­va che fossero accese da sempre, in qualche posto den­tro la sua testa. Due inquilini, rientrati tardi al grattacie­lo, erano in attesa davanti agli ascensori. Stringevano le loro ventiquattrore e ignoravano Wilder, che ritenevano chiaramente ubriaco. Le spalle peste gli dolevano e Wilder si massaggiò, die­tro l’orecchio destro, il mastoide gonfio. Quando riuscì a reggersi in piedi, si allontanò barcollando dal divano ver­so l’ingresso e si appoggiò alla porta a vetri. Le file di macchine parcheggiate si perdevano nell’oscurità, c’erano abbastanza mezzi di trasporto da permettergli di sfollare verso mille diverse destinazioni. Uscì nell’aria fredda della notte. Tenendosi il collo guardò su, lungo la facciata del grattacielo. Riusciva quasi a distinguere le luci del trenta­settesimo piano. Tutt’a un tratto si sentì spossato, tanto dal peso e dalla massa dell’edificio quanto dal suo falli­mento. Il tentativo improvvisato di scalare l’edificio era fi­nito con la sua umiliazione. In un certo senso era stato re­spinto più dal palazzo che da Royal e i suoi amici.

Abbassando gli occhi dal tetto scorse la moglie che, a cinquanta piedi da lui, stava guardando fuori dal balco­ne di casa loro. Benché vedesse chiaramente i suoi vesti­ti strappati e il volto pieno di lividi non mostrava la mi­nima preoccupazione, come se non lo riconoscesse più» [pp. 73-74, ed. Feltrinelli].

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