Cornelius Castoriadis, L’individuo privatizzato. Psicanalisi e immaginazione radicale del soggetto.

by gabriella

kastoriadisNei due testi che seguono, L’individu privatisé  – un intervento tenuto dal filosofo alcuni mesi prima di morire [qui il sito a lui dedicato] – e Psicanalisi e immaginazione radicale del soggetto – intervista rilasciata a Sergio Benvenuto il 7 maggio 1994, Castoriadis illustra i concetti di autonomia, libertà e democrazia alla luce del compito emancipativo del soggetto assegnato da Freud alla psicanalisi – e dai greci alla paideia.

 

L’individuo privatizzato [Tolosa, 22 marzo 1997]

La filosofia non è tale quando non esprime un pensiero autonomo. Cosa significa autonomo? Il termine “autos- nomos”,“che si dà la sua propria legge”, ha in filosofia un significato chiaro: darsi la propria legge vuol dire porre domande, e non accettare nessuna autorità; neppure quella del proprio pensiero anteriore.

Ma qui tocchiamo un punto dolente, poiché quasi sempre i filosofi costruiscono sistemi chiusi come un uovo (si veda Spinoza, si veda soprattutto Hegel, e in qualche misura anche Aristotele), o restano attaccati a talune forme che hanno creato, e che non riescono a rimettere in questione. Gli esempi contrari sono pochi: uno è Platone; un altro, anche se nel campo della psicanalisi e non della filosofia, è Freud. L’autonomia del pensiero è l’interrogazione illimitata, che non si ferma davanti a nulla e rimette costantemente in discussione se stessa. Non è però un’interrogazione vuota, che non avrebbe alcun significato: perché abbia un senso, occorre aver già posto un certo numero di termini come provvisoriamente incontestabili; altrimenti quel che rimane non è un’interrogazione filosofica, ma un semplice punto interrogativo. L’interrogazione filosofica è articolata, salvo a riconsiderare gli stessi termini a partire dai quali si è articolata.
Che cos’è l’autonomia in politica? Quasi tutte le società umane sono istituite nell’eteronomia, vale a dire nell’assenza di autonomia. In altri termini, le società, che pure creano, tutte, le proprie istituzioni, vi incorporano l’idea, incontestabile per i rispettivi membri, che queste non siano opera dell’uomo, creazioni di esseri umani o in ogni caso non di quelli presenti al momento. Sono sempre create dagli spiriti, dagli antenati, dagli eroi, dagli dei; non sono mai opera dell’uomo.

C’è un vantaggio considerevole in questa clausola tacita ma talvolta anche esplicita: come nella religione ebraica, ove il dono della legge [si veda Esiodo, per il mondo greco, NDR] fatto da Dio a Mosè è scritto, esplicitato; molte pagine dell’Antico testamento descrivono nei particolari le regole che Mosè ricevette da Dio: non solo i dieci Comandamenti, ma tutti i dettagli della Legge. E sarebbe impensabile contestare queste disposizioni: significherebbe contestare l’esistenza di Dio, o la sua veridicità, o la sua bontà, o la sua giustizia: tutti attributi consustanziali a Dio. E lo stesso può dirsi per altre società eteronome. Se cito qui l’esempio ebraico, è per la sua purezza classica.
Ora, qual è la grande rottura introdotta, sotto una prima forma, dalla democrazia greca, e quindi, in forma più ampia, più generalizzata, dalle rivoluzioni dei tempi moderni e dai successivi movimenti democratici rivoluzionari? E’, precisamente, la coscienza esplicita che siamo noi a creare le nostre leggi, e dunque possiamo anche cambiarle [si veda La paideia filosofica, i sofisti. NDR]. Le leggi greche dell’antichità esordivano tutte con la clausola:

“édoxè tè boulè kai to demò” “è sembrato bene al consiglio e al popolo”.”E’ sembrato bene”, non “è bene”:

ciò che era sembrato bene in quel dato momento. E nelle costituzioni dei tempi moderni troviamo l’idea della sovranità dei popoli. Ad esempio, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo francese esordisce con il preambolo:

La sovranità appartiene al popolo che la esercita sia direttamente, sia per mezzo dei suoi rappresentanti”.

Poi, il “sia direttamente” è scomparso, e siamo rimasti con i soli “rappresentanti”. Quattro milioni di dollari per un seggio. Esiste dunque un’autonomia politica; e quest’autonomia presuppone la nozione che sono gli uomini a creare le proprie istituzioni. Ciò comporta l’esigenza di cercare di stabilire queste istituzioni con lucidità e cognizione di causa, dopo una deliberazione collettiva. E’ questa che io chiamo l’autonomia collettiva, il cui complemento, assolutamente ineludibile, è l’autonomia individuale. Una società autonoma può essere formata solo da individui autonomi. E gli individui autonomi possono esistere davvero solo in una società autonoma [si veda La paideia filosofica, Socrate, NDR]. Il perché si comprende abbastanza facilmente. Un individuo autonomo è un individuo che agisce, nella misura del possibile, solo in seguito a riflessione e deliberazione. Se non agisce in questo modo, non può essere un individuo democratico, appartenente a una società democratica. In che senso un individuo autonomo, in una società come quella che descrivo, è libero? In che senso noi siamo liberi oggi?

Abbiamo un certo numero di libertà, che sono state stabilite come prodotti o sottoprodotti delle lotte rivoluzionarie del passato. Queste libertà non sono solo formali, come a torto diceva Karl Marx; non è formale la possibilità che abbiamo di riunirci, di dire ciò che vogliamo; ma è una libertà parziale, difensiva e, per così dire, passiva. Come posso essere libero, se vivo in una società governata da una legge imposta a tutti? Apparentemente vi è qui una contraddizione insolubile, che ha indotto molti ad esempio Max Stirner (2) a negare che in queste condizioni si possa parlare di libertà; e dopo di lui altri, come gli anarchici, pretenderanno che una società libera significa l’abolizione completa di ogni potere, di ogni legge, dando per scontata l’esistenza di una natura umana buona che sorgerebbe a quel punto, e potrebbe fare a meno di ogni regola esterna. Questa, a mio avviso, è un’utopia incoerente.
Posso dire di essere libero in una società regolata da leggi se ho avuto la possibilità effettiva (e non solo sulla carta) di partecipare alla discussione, alla deliberazione e alla formazione di queste leggi. Ciò significa che il potere legislativo deve appartenere effettivamente alla collettività, al popolo. Infine, l’individuo autonomo è anche l’obiettivo essenziale di una psicanalisi correttamente intesa. In questo senso si pone una problematica relativamente diversa: in apparenza, una persona è un essere cosciente, mentre agli occhi di uno psicanalista essa è soprattutto il suo inconscio. E questo inconscio, generalmente non lo conosce. Non perché sia pigra, ma perché esiste una barriera che le impedisce di conoscerlo: la barriera della rimozione.

Facciamo un esempio: alla nascita siamo monadi psichiche, che si vivono nell’onnipotenza, che non conoscono, o non riconoscono limiti al soddisfacimento dei propri desideri, davanti ai quali ogni ostacolo deve scomparire. E finiamo per essere individui che accettano, volenti o nolenti, l’esistenza degli altri, spesso augurandosi di vederli morti (auspicio il più delle volte irrealizzato), ma ammettendo che i desideri degli altri abbiano lo stesso diritto dei propri a essere soddisfatti. Ciò avviene in funzione di una rimozione fondamentale, che respinge nell’inconscio tutte le tendenze profonde della psiche, e vi mantiene buona parte delle creazioni dell’immaginazione radicale. La psicanalisi, con i suoi meccanismi, implica per l’individuo il superamento di questa barriera per penetrare nell’inconscio, esplorarlo per quanto possibile, filtrare le proprie pulsioni inconsce e non agire più senza riflessione e deliberazione. Ed è questo individuo autonomo a costituire l’obiettivo (nel senso di esito, di finalità) del processo psicanalitico.

Ora, per ricollegarci con il piano politico, è evidente che abbiamo bisogno di un individuo come quello descritto; ma è altrettanto evidente che non possiamo sottoporre a psicanalisi la totalità degli individui di una società. Da qui il ruolo enorme dell’educazione e la necessità di una sua radicale riforma, perché divenga una vera paideia, come dicevano i greci, una paideia dell’autonomia: un’educazione per l’autonomia e verso l’autonomia, per portare chi la riceve e non soltanto i bambini a interrogarsi costantemente per sapere se agisce con cognizione di causa, o non piuttosto trascinato da una passione o da un pregiudizio.
Non solo i bambini: perché l’educazione di un individuo nel senso democratico del termine è un’impresa che inizia con la sua nascita e si conclude solo con la sua morte. Tutto ciò che avviene durante la vita di un individuo continua a formarlo e a deformarlo. L’educazione essenziale che la società contemporanea fornisce ai suoi membri nelle scuole, nei collegi, nei licei e nelle università è invece di tipo strumentale; è organizzata essenzialmente per apprendere un lavoro professionale. C’è poi l’altra educazione, quella delle scemenze diffuse dalla tv.

Sulla questione della rappresentanza politica, Jean-Jacques Rousseau diceva che gli inglesi del XVIIIsecolo si credevano liberi perché ogni cinque anni eleggevano i loro rappresentanti; e lo erano effettivamente, ma per un solo giorno ogni cinque anni. Dicendo questo, Rousseau abbassava indebitamente il tiro, poiché è evidente che anche in quell’unico giorno non si è liberi. Perché? Perché si devono votare i candidati presentati dai partiti. Non si può votare per chicchessia. E si è chiamati a votare a partire da tutta una situazione reale costruita dal parlamento precedente, che pone i problemi nei termini nei quali possono essere discussi, imponendo per ciò stesso le soluzioni, o quanto meno alcune soluzioni alternative che non corrispondono quasi mai ai veri problemi. Rappresentanza significa di solito alienazione della sovranità dei rappresentati a favore dei rappresentanti. Il parlamento non è controllato, o lo è ogni cinque anni, con le elezioni; ma la grande maggioranza del personale politico è praticamente inamovibile. In Francia un po’ meno, altrove molto di più: negli Stati uniti ad esempio, i senatori sono di fatto senatori a vita.

Ed è questo che dobbiamo aspettarci anche in Francia. Per essere eletti negli Stati uniti occorrono circa 4 milioni di dollari. Chi ve li dà, questi quattro milioni di dollari? Non certo i disoccupati. A darli sono le imprese. E perché li danno? Perché il senatore si trovi d’accordo con la loro lobby a Washington, e voti per le leggi favorevoli, e non per quelle dannose ai loro interessi. E’ questa la via che fatalmente percorrono le società moderne. Vediamo ciò che sta accadendo in Francia, nonostante tutte le sedicenti disposizioni di controllo della corruzione. Nelle società contemporanee la corruzione dei politici è ormai un tratto sistemico, strutturale; non è aneddotica, è incorporata nei meccanismi del sistema, che non può funzionare in modo diverso. Votare per il male minore. Qual è l’avvenire di questo progetto dell’autonomia? Dipende dall’attività della stragrande maggioranza degli esseri umani. Non si può più parlare di una classe privilegiata ad esempio il proletariato industriale, divenuto ormai da tempo fortemente minoritario tra la popolazione. Si può dire però, ed è quello che dico, che l’intera popolazione, tranne il 3% dei privilegiati al vertice, avrebbe un interesse personale alla trasformazione radicale della società in cui vive. Eppure, da una cinquantina d’anni ciò che osserviamo è il trionfo del significato immaginario del capitalismo, vale a dire un’espansione illimitata del preteso dominio di una sedicente razionalità. E l’atrofia, l’evanescenza di un altro grande significato immaginario dei tempi moderni: l’autonomia.

Sarà durevole questa situazione? O sarà passeggera? Nessuno può dirlo. Non si possono fare profezie in questo genere di cose. La società attuale non è certo una società morta. Non viviamo a Bisanzio, o nella Roma del V secolo (d.C.) C’è sempre qualche movimento in atto; idee che emergono e circolano, reazioni. Rimangono fortemente minoritarie e molto frammentarie rispetto all’enormità dei compiti che abbiamo davanti a noi. Ma sono certo che il dilemma, così come l’avevamo formulato riprendendo i termini di Lev Trotsky, di Rosa Luxemburg e di Karl Marx, ai tempi di Socialisme ou Barbarie, continua a essere valido, a condizione naturalmente di non confondere il socialismo con le mostruosità totalitarie che hanno trasformato la Russia in una distesa di rovine, o con quell’assurda”organizzazione” dell’economia, con lo sfruttamento sfrenato della popolazione, con il totale asservimento della vita intellettuale e culturale in quel paese.

Perché la situazione contemporanea è così incerta? Perché, sempre più, vediamo svilupparsi nel mondo occidentale un tipo di individuo che non è più parte di una società democratica, o di una società in cui si può lottare per avere più libertà, ma è invece un tipo di individuo privatizzato, chiuso nel suo piccolo ambiente personale, divenuto cinico nei riguardi della politica. Quando è chiamata a votare, la gente lo fa cinicamente. Non crede ai programmi che vengono presentati, ma considera che X o Y sia un male minore rispetto a quello che era stato Z nel periodo precedente. Molte persone voteranno sicuramente Lionel Jospin alle prossime elezioni (3) non già perché lo adorino o perché siano affascinate dalle sue idee, il che sarebbe sorprendente, ma soprattutto perché sono disgustate dalla situazione attuale. La stessa cosa peraltro è avvenuta nel 1995, quando i cittadini erano nauseati da 14 anni di sedicente socialismo, la cui principale impresa era stata quella di introdurre in Francia il liberalismo più sfrenato e di incominciare a smantellare tutte le conquiste sociali del periodo precedente.

Dal punto di vista dell’organizzazione politica, una società si articola sempre, esplicitamente o implicitamente, in tre parti: 1) quello che i greci avrebbero chiamato oikos, vale a dire”la casa”, la famiglia, la vita privata. 2) L’agora, cioè il luogo pubblico-privato dove gli individui si incontrano, discutono, realizzano scambi, formano associazioni o imprese; dove si rappresentano spettacoli teatrali, non importa se privati o sovvenzionati. E’ ciò che dal XVIII secolo si chiama società civile un termine che si presta a confusione, una confusione ancora maggiore in questi ultimi tempi. 3) L’ecclesia, il luogo pubblico-pubblico, il potere, la sede nella quale esiste, è depositato e si esercita il potere politico. La relazione tra queste tre sfere non deve essere stabilita in maniera fissa e rigida; deve essere flessibile, articolata.

D’altra parte, queste tre sfere non possono essere radicalmente separate. Il liberalismo attuale pretende invece che si possa separare interamente il campo pubblico da quello privato. Ora, questa separazione è impossibile, e la pretesa di realizzarla è una menzogna demagogica. Non esiste bilancio che non intervenga nella vita privata-pubblica, o nella stessa vita privata. E questo è solo un esempio tra tanti altri. Allo stesso modo, non esiste un potere che non sia obbligato a stabilire un minimo di leggi restrittive, ad esempio vietando l’omicidio, o dichiarando che nel mondo moderno bisogna sovvenzionare la sanità o l’istruzione. Deve esserci, in questo campo, una specie di gioco tra il potere pubblico e l’agora, cioè la comunità. Soltanto in un regime veramente democratico si può tentare di stabilire un’articolazione corretta tra queste tre sfere, preservando al massimo sia la libertà privata che quella dell’agora, cioè delle attività pubbliche comuni degli individui, e chiamando tutti a partecipare ai pubblici poteri. Mentre nella realtà attuale questi pubblici poteri appartengono a un’oligarchia, e la loro attività è di fatto clandestina, dal momento che le decisioni essenziali sono prese sempre dietro le quinte.

(Intervento raccolto a Tolosa, il 22 marzo 1997, da Robert Redeker, nel corso di un incontro organizzato congiuntamente dalla Libreria Ombres Blanches, dal teatro Daniel Sorano e dal Grep Midi-Pyrénées. Una sua versione più completa è stata pubblicata su Parcours, Les cahiers du Grep Midi-Pyrénées, n 15-16 , settembre 1997 -5, rue des Gestes, BP 119, 31013 Toulouse Cedex 6 -, 80F.)

1)Leggere Robert Redeker,”Cornelius Castoriadis contre le conformisme généralisé”, Le Monde diplomatique, agosto 1997.
(2) Ndr: filosofo tedesco (18096-1956); autore de Der Einzige und sein Eigentum (1845) e Die Geschichte der Reaktion (1852)
(3) Ndr: Questo intervento risale al 22 marzo 1997, prima delle elezioni legislative anticipate del maggio-giugno 1997 che hanno visto il successo elettorale di Lionel Jospin, divenuto primo ministro. (Traduzione di P.M.)

 

Psicanalisi e immaginazione radicale del soggetto [Parigi, 7 maggio 1994]

cornelius-castoriadisProfessor Cornelius Castoriadis, la sua pratica di analista ha anche un’influenza sulla sua concezione filosofica?
C’è un rapporto molto profondo tra la mia concezione della psicoanalisi e la mia concezione della politica. Ambedue infatti mirano all’autonomia dell’essere umano, anche se, ovviamente, attraverso vie diverse. La politica mira a liberare l’essere umano, a permettergli di accedere alla propria autonomia per mezzo di un’azione collettiva la quale ha come oggetto la trasformazione delle istituzioni; vale a dire, la politica mira ad instaurare delle istituzioni di autonomia. L’oggetto della politica non è la felicità, come si voleva nel Settecento e nell’Ottocento, e come intendeva anche Marx. Questa concezione non è solo erronea, ma anche catastrofica. L’oggetto della politica è la libertà. Anche l’idea americana del diritto a ricercare la felicità – contenuta nella Dichiarazione di Indipendenza – implica una nozione di autonomia del soggetto. Quando Lei parla di autonomia, la intende nel senso “americano”? No, non la intendo nel senso americano. In effetti, se lei ricorda, la Dichiarazione Americana dice: “pensiamo che Dio abbia creato gli esseri umani tutti liberi ed eguali, e con eguali diritti a perseguire la felicità”.

Io invece non penso che Dio abbia creato gli esseri umani liberi ed eguali. Innanzi tutto Dio non ha creato nulla semplicemente perché non esiste. E poi, anche se li avesse creati questi esseri umani praticamente non sono stati mai liberi ed eguali. Quindi, occorre che agiscano per diventare tali. E una volta divenuti liberi ed eguali, ci saranno indubbiamente delle cose che riguardano quel che possiamo chiamare il Bene Comune. Ma questo è contrario alla concezione liberale, nella quale ognuno persegue la sua felicità individuale, e secondo la quale questo porterà allo stesso tempo al massimo di felicità per tutti. Ci sono dei Beni Comuni che non derivano semplicemente dalle felicità individuali, e che sono l’oggetto dell’azione politica – per esempio, l’esistenza dei musei, oppure delle strade. La mia felicità, al contrario, è una faccenda solo mia; se la società si impiccia della mia felicità, allora sfociamo nel totalitarismo. In questo caso la società mi dirà: “il voto della maggioranza dice che tu non devi comprare dischi di Bach o di Mozart, ma solo dischi di Madonna e di Prince”.

Ecco, è la decisione della maggioranza, questa è la tua felicità! Invece io penso che la felicità possa e debba essere perseguita da ogni individuo per il suo proprio conto. Del resto ognuno sa, o non sa, che cosa costituisce la propria felicità; in certi momenti la trova in questo, in altri momenti la trova in quello. La nozione di felicità è una nozione abbastanza complessa, ad un tempo psicologica e forse filosofica. Ma è chiaro che l’oggetto della politica è la libertà e l’autonomia; e queste possono esistere solo, ovviamente, in un quadro istituito, collettivo, che la renda possibile.

Come mai, allora, la psicoanalisi si collega alla politica?

L’oggetto della psicoanalisi e della politica è il medesimo. E qui, a mio parere, risiede la risposta a quella famosa domanda sulla fine dell’analisi (nei due sensi della parola “fine”: di “termine nel tempo” e di “obiettivo perseguito” dall’analisi), un tema su cui Freud è ritornato tante volte. “Qual’è la fine dell’analisi?”. Ora, penso di avere una risposta a questa domanda: la fine dell’analisi consiste nel fatto che l’individuo diventi il più autonomo possibile. Che cosa vuol dire autonomo? Autonomo non nel senso kantiano, e cioè di obbedire ad una legge morale stabilita dalla propria ragione, la quale è la stessa per tutti, e decisa una volta per tutte. Per autonomo intendo qualcuno che ha trasformato i suoi rapporti con il proprio inconscio – perché ora siamo nella sfera psicoanalitica – al punto tale da potere, nella misura in cui è possibile a degli esseri umani, conoscere i propri desideri e, nella misura in cui è possibile farlo, controllare la messa in atto dei suoi desideri. Ad esempio, personalmente, penso che un individuo che, almeno una volta l’anno, non si sia augurata la morte di qualcuno – magari perché quello gli intralciava la strada, oppure perché gli ha fatto qualcosa di male – è un individuo gravemente patologico. Questo non significa che bisogna uccidere quel dato tizio, ma che bisogna riconoscere il desiderio.
Il vero problema della psicoanalisi è il rapporto del paziente con se stesso. E qui possiamo riprendere quanto diceva Freud stesso, nella famosa frase da lui scritta nelle Nuove conferenze introduttive alla psicoanalisi:

“Wo es war, soll ich werden”, “là dove questo è stato, io devo divenire”, cioè sostituire l’id (questo) con l’io. Certo la frase è molto bella pur essendo ambigua, ma la sua equivocità viene eliminata dal seguito dello stesso paragrafo in cui Freud dice: “E’ un lavoro di disseccamento e di reclamazione come quello che fanno gli olandesi nello Zuyderzee”.

Che cosa hanno fatto gli olandesi nello Zuyderzee? C’era il mare e l’hanno prosciugato, e là dove c’era fango, piante marine bizzarre, hanno tirato fuori dei bei campi, e vi hanno piantato dei tulipani. Ora, non è quel che cerchiamo di fare nella psicoanalisi: non cerchiamo di disseccare l’inconscio. Innanzitutto perché è un’impresa assurda, che non può, non potrà mai riuscire. Cerchiamo invece di trasformare il rapporto dell’istanza dell’io, dell’istanza del soggetto più o meno conscio, più o meno riflesso, con le sue pulsioni, il suo inconscio. Ed è questa la definizione, per me, dell’autonomia sul piano individuale: è sapere quel che si desidera, sapere che cosa si vuole veramente fare e perché lo si vuol fare, e sapere che cosa si sa e che cosa non si sa.

Questo ideale di autonomia – come attesta la pubblicità – non è tuttavia fin troppo legato alla nostra ideologia dominante? Esiste un potere straordinario di assimilazione e di recupero, da parte della società contemporanea. Io ho cominciato a parlare di creazione, di immaginario e di autonomia circa trent’anni fa. A quell’epoca non si trattava affatto di uno slogan pubblicitario. Non dico che i pubblicitari abbiano preso quelle parole da me o dai miei scritti, ma poco a poco le hanno assimilate. Ad esempio, queste idee sono passate nel Maggio 68, e allora i pubblicitari si sono ispirati a quelle idee. Ma dove consiste però la differenza essenziale tra me e loro? E’ che essi mistificano, ingannano la gente quando parlano, appunto, di creatività: “se volete essere veramente creativi, venite a lavorare all’IBM”, ecco uno slogan pubblicitario. Ma all’IBM lavorate come un qualsiasi altro impiegato in qualsiasi altra azienda, e non sarete né più né meno creativi che altrove. Io invece parlo della creatività degli esseri umani che occorre liberare; non è affatto la stessa cosa.

Insomma, l’autonomia: forse in Italia se ne parla, ma in Francia si parla piuttosto di individualismo. Ora, l’individualismo enunciato nelle pubblicità, nelle ideologie ufficiali, nella politica, non ha nulla a che vedere con quel che io chiamo autonomia dell’individuo. Perché innanzitutto, se questo individualismo è veramente sincero, radicale, dovrebbe consistere nel dire “faccio quello che mi piace”, ma questo non è l’autonomia. L’autonomia è piuttosto “faccio quel che considero giusto fare, dopo averci riflettuto sopra; non mi proibisco quel che mi piace, ma non faccio una cosa giusto perché mi piace”. Perché una società dove ognuno fa quel che gli pare è una società dove si commettono omicidi, o stupri e delitti di ogni sorta. E poi, d’altra parte, questa pubblicità e questa ideologia sono menzognere, perché quel preteso individualismo, quel preteso narcisismo di cui ci riempiono le orecchie, è uno pseudo-individualismo. In che cosa consiste l’individualismo attuale? E’ che tutte le sere, alle otto e mezzo, tutte le famiglie francesi girano gli stessi bottoni per ricevere gli stessi programmi televisivi, e ascoltare le stesse fesserie. Insomma, quaranta milioni di individui i quali, come se obbedissero ad un ordine militare, fanno la stessa cosa, e lo si chiama individualismo. E’ ridicolo. Io parlo dell’individuo come di un essere autonomo, o che cerca di diventarlo, ed in quanto sa di essere unico, tenterà di sviluppare la propria singolarità in modo meditato se gli sarà possibile. E questo non ha nulla a che vedere con la pubblicità contemporanea.

Quindi Lei non condivide la posizione di Lacan che considerava “ideologia americana” la finalità dell’analisi come creazione di un io autonomo
Non proprio, ma penso che essa sia in parte giusta. In effetti c’erano due deviazioni potenziali, anzi reali, quando gli americani – meglio, certi americani – parlavano di io autonomo. La prima deviazione era la sopravvalutazione assoluta del conscio e dell’io. Non a caso io credo che vada completato quel che affermava Freud quando diceva: “dove questo (id) era, devo divenire”, con la frase simmetrica: “là dove io sono, l’id deve poter apparire”.

E cioè, dobbiamo essere capaci di far parlare quei desideri. Questo è però ben diverso, ancora una volta, dal farli passare nella realtà, da farli diventare atti. Dunque, bisogna lasciare che le pulsioni vengano fuori, bisogna conoscere quali sono le proprie pulsioni, anche quelle che possono apparire – nella vita quotidiana, nella vita conscia – le più bizzarre, le più mostruose, le più abiette. Bisogna sapere che esistono.

Inoltre, l’io di cui parlavano gli americani, era di fatto quel che chiamerei l’“individuo socialmente fabbricato”: era cioè una costruzione sociale così come veniva formata dalla società americana, o dalla società francese, o da quella italiana, poco importa. Per gli americani, quindi, se un individuo che sapeva di dover lavorare per vivere si opponeva al padrone era perché non aveva risolto il suo complesso edipico. Esistono del resto dei questionari di reclutamento di aziende americane, dove si chiede “da piccoli volevate bene di più a vostro padre o a vostra madre?”: se i candidati rispondevano “preferivo mia madre”, allora avevano una nota negativa. Perché questo voleva dire che si sarebbero opposti al padre, dunque avrebbero creato delle seccature nell’azienda in rapporto al padrone. Questa era l’ideologia americana dell’adattamento, e l’uso aberrante della psicoanalisi a fini adattativi.
L’integrazione al pensiero di Freud che ha fatto prima è l’unica o Lei crede che non possiamo fermarci alla teoria freudiana come fu formulata all’inizio?
Freud è un genio incomparabile, un grande scopritore, gli dobbiamo l’idea dell’inconscio, una quantità di altre idee sulla sessualità infantile, sul complesso di Edipo, ed altro. Ma c’è innanzi tutto un punto cieco in Freud, quello dell’immaginazione. C’è un paradosso enorme nell’opera di Freud; di fatto, tutto quel che Freud racconta sono delle formazioni immaginarie, formazioni dell’immaginazione radicale del soggetto: le fantasie. Ora, non rifarò la storia, ma Freud, educato nello spirito positivista dell’Ottocento, allievo di Brücke e degli altri a Vienna, non vede il punto e non vuole vederlo; è per questo che, all’inizio, per molto tempo, crede alla realtà delle scene di seduzione infantile che gli raccontano le sue pazienti isteriche. Crede che le cose si siano svolte proprio così, che se i soggetti sono malati è perché è capitato loro effettivamente qualcosa che li ha traumatizzati.

Come lei sa, da dieci anni in qua, negli Stati Uniti c’è una forte tendenza che ripropone proprio questa concezione. Sì, lo so. Ma sono sciocchezze politiche determinate dalla moda della “correttezza politica”. Comunque, sono i pazienti ad aver ragione, non nel senso che hanno ragione in generale, ma nel senso che quando dicono che il loro padre, la madre, la bambinaia, la zia, lo zio o un certo vicino, li ha sedotti quando erano bambini, hanno sempre e necessariamente ragione. Ora, anche se hanno ragione, non è questo il problema, perché la risposta fondamentale a questo è che per qualsiasi evento traumatico, l’evento è reale in quanto evento, ma immaginario in quanto traumatico. Insomma, non c’è trauma se l’immaginazione del soggetto non accorda un certo significato a quel che accade, e questo significato dato a quel che accade non è il significato della political correctness, è il significato che discende dalla “fantasmatica” del soggetto e dalla sua immaginazione radicale. Questo è il punto fondamentale. Ora, Freud non vuol vedere questo. Oggi negli Stati Uniti si cerca di tornare indietro. E’ davvero commovente, e allo stesso tempo divertente, vedere come nel corso di tutta la famosa analisi dell’Uomo dei lupi, Freud per molto tempo creda alla realtà della scena primitiva raccontatagli dall’uomo dei lupi, cioè al fatto che egli avrebbe osservato i suoi genitori mentre fanno l’amore per di dietro, mentre hanno un coitus a tergo more ferarum. E solo alla fine dell’analisi, in una nota a fondo pagina del libro, dice che forse questa scena primitiva era solo una fantasia del paziente, ma che la questione ha poca importanza. Il che è buffo. Dunque Freud non vede il ruolo dell’immaginazione in quel che chiama fantasmatizzazione – lo chiama sempre “fantasmatizzazione” – cerca delle origini filogenetiche a queste fantasie, il che è un’assurdità.

Questo misconoscimento totale del ruolo dell’immaginazione radicale, questo misconoscimento del ruolo della fantasmatizzazione, è comunque quel che resta in Freud di riduzionista o di determinista. E questo arriva fino all’estremo in saggi come Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, nel quale Freud cerca di spiegare un quadro di Leonardo, e persino la vita creativa dell’artista, a partire da un supposto incidente della sua infanzia. Ora, anche se tutto questo si reggesse non spiegherebbe nulla, proprio nulla, della pittura di Leonardo, né perché questa pittura è grande, né perché abbiamo piacere a guardarla.

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