Gianfranco Bettin, Il conflitto sociale

by gabriella
scontri a Roma 15 ottobre 2011

scontri a Roma 15 ottobre 2011

Il corso monografico che il prof. Bettin (Unifi) ha dedicato al conflitto sociale (a.a 2001-2001).

1. Il conflitto nelle scienze sociali. 2. Il conflitto: una definizione sociologica e problematica. 3. Il conflitto sociale nel pensiero sociologico classico. 4. Ralf Dahrendorf: nuove tendenze del conflitto di classe. 5. Lewis Coser: genesi e forme del conflitto. 6. Dahrendotf e le dimensioni empiriche del conflitto. 7. Randall Collins: conflitto e mutamento istituzionale. 8. Conflitto e comunicazione nella sociologia di Niklas Luhmann. 9 Niklas Luhmann: conflitto e complessità. 10. I nuovi conflitti sociali. 11.Globalizzazione, società multiculturale e conflitti etnici. Bibliografia.

1.Il conflitto nelle scienze sociali

Il concetto di conflitto è senza dubbio un concetto centrale nell’apparato conoscitivo elaborato dalle scienze sociali contemporanee. La sua importanza è ampiamente testimoniata dalla vastissima bibliografia dedicata al tema da alcune discipline non sempre strettamente apparentabili come l’economia, l’antropologia culturale, la psicologia sociale e la sociologia. Non a caso il concetto di conflitto è stato adottato come una delle chiavi di lettura della variegata fenomenologia sociale del nostro tempo ed ha rappresentato il fulcro di una teoria generale dalle molteplici applicazioni da cui si è originata una disciplina distinta: la polemologia. Non è questa la sede più idonea per effettuare una rassegna delle definizioni che del conflitto sono state date anche perché ogni scienza sociale presenta una definizione specifica congruente con il suo punto di vista analitico ed insiste su di un ambito altrettanto specifico di applicazione. E’ comunque opportuno qualche esempio.

La psicologia parla di situazione conflittuale con riferimento a forze psichiche (o, se si preferisce, orientamenti affettivi, inclinazioni soggettive) di segno contrastante che producono una tensione a volte devastante a carico dell’identità. Il costo sostenuto al livello della personalità è proporzionato alla difficoltà di trovare una soluzione per il conflitto. Naturalmente non va dimenticato che il processo di formazione della personalità può essere concepito anche come risultante dalla capacità di superamento dei costi cui questo tipo di tensione, o se si preferisce di conflitto intrapersonale, sottopone il singolo attore. Nella letteratura specialistica si stabilisce poi una relazione diretta fra le forme di conflitto intrapersonale ed i conflitti interpersonali; ma vale anche la direzione inversa. Le dinamiche interno-esterno-interno che percorrono il variegato campo dell’azione sociale sono operanti in maniera pluridirezionale con la conseguenza che le tensioni interiori provocate dall’opposizione istinto-repressione possono trovare uno sbocco nell’aggressività dell’individuo verso gli altri.

ErichFromm Il tema dell’aggressività confina con quello della violenza e ci conduce all’analisi delle forme patologiche ed estreme del conflitto, anche se è opportuno non dimenticare la distinzione proposta da Erich Fromm tra aggressività difensiva ed aggressività distruttiva. La reazione degli altri all’azione aggressiva ha conseguenze sia al livello sociale sia al livello della personalità. Naturalmente una condizione di conflitto sociale diffuso e permanente nel tempo viene interiorizzata dal soggetto già nel corso del processo di socializzazione primaria e concorre alla formazione di un’identità particolare così come all’organizzazione di alcune istituzioni che qualificano le loro funzioni in relazione alla pervasività della dimensione conflittuale. Sta di fatto che il conflitto intraindividuale può essere inteso anche in una chiave sociologica quando lo si possa collegare ad un conflitto tra istituzioni ed alla divaricazione di finalità vissuta dall’attore che deve, non di rado, dividere la sua lealtà tra l’una o l’altra istituzione. L’esito di questa divaricazione di lealtà è il blocco dell’azione, l’incapacità di decisione. Le manifestazioni collegate a questo stato di conflittualità endemica vanno dalla timidezza alla schizofrenia e sembra piuttosto ardito sostenere che forme acute di conflitti della personalità si possano ascrivere a forme di conflitto sociale anche se inevitabilmente il cattivo funzionamento di alcune istituzioni le può promuovere e cronicizzare.

kurt lewinLa riflessione sul trasferimento dei conflitti psichici nel campo della società rappresenta un tema ricorrente nel pensiero sociologico classico ogni qualvolta si affronta la questione complessa, e tuttora aperta, dei rapporti fra individuo e società. A questo proposito è d’obbligo un riferimento, che ha un valore non solo storico, alla Field Theory (teoria del campo) elaborata da Kurt Lewin allorché‚ nel 1945 era direttore del Research Center for Group Dynamics presso il Massachusetts Institute of Technology. Lewin è stato un maestro della psicologia sociale anche perché si è sempre sforzato di imporre la sperimentazione in un’area problematica dove il confine tra sociologia e psicologia sociale diventa estremamente labile, come comprovano i suoi saggi raccolti nel famoso Resolving Social Conflict (1948). Lewin sviluppa una prospettiva dinamica per lo studio dei processi psicologici e sociali a partire dalla relazione tra individuo concreto e situazione concreta. La sua «teoria del campo» sostiene che accanto alle pressioni psicologiche (interne), esistono e sono operanti delle pressioni sociali (esterne); la loro combinazione nelle diverse situazioni concrete definisce la formazione, di volta in volta, di uno spazio psicologico socialmente determinato che egli chiama, appunto, «campo». La percezione dello spazio sociale e l’indagine sperimentale della dinamica e delle leggi dei processi che si svolgono nell’ambito dello spazio sociale hanno un’importanza teorica e pratica fondamentale. A dire di Lewin lo spazio sociale ha caratteristiche omologhe a quello dello spazio empirico reale e merita un’attenzione da parte degli studiosi di geometria e di matematica pari a quella che tradizionalmente essi dedicano allo spazio fisico. Da qui la sua fondamentale ispirazione proveniente dalla topologia e l’uso frequente di disegni e di diagrammi esplicativi, talvolta un poco esoterici. Esemplare sotto questo rispetto la descrizione sviluppata nello studio dedicato a The Background of Conflict in Marriage (1940).

Lewin, riflettendo su di un caso concreto, quello dei conflitti che si manifestano nella sfera matrimoniale si pone una domanda cruciale: l’individuo come può trovare uno spazio di libertà di movimento sufficiente a soddisfare i suoi bisogni personali nell’ambito del gruppo senza interferire con quelli che si ritengono gli interessi del gruppo medesimo? Lewin fa precedere la sua risposta da un’esplorazione acribica illustrata da ben diciotto diagrammi che presentano: il marriage group come parte di una serie di gruppi più inclusivi (la parentela e la comunità); il singolo attore considerato come membro di una serie di overlapping groups (dalla famiglia, alla professione, al partito politico); una gamma di relazioni interne al marriage group che toccano delle regioni vitali della persona e configurano gradi differenti di intimacy tra gli stessi membri del gruppo primario.

Questa ricostruzione dinamica prevede l’applicazione di una griglia generale relativa ai fattori d’insorgenza del conflitto al caso specifico del campo matrimoniale. In particolare, ci si sofferma sulla questione dello spazio di libertà di movimento dell’attore la cui limitazione rappresenta uno dei principali fattori di tensione. In quest’ambito di esplorazione diventa significativo considerare che gli eventi relazionali esterni alla vita di coppia assumono una profonda differenza nel life-space tipico del marito ed in quello tipico della moglie. Altrettanto importante è ridisegnare queste dinamiche in funzione dell’anzianità della relazione coniugale; infatti i conflitti che si manifestano nella situazione di matrimonio di fresca data hanno a che vedere soprattutto con la difficoltà di conciliare i bisogni personali con quelli del partner: l’enfasi contemporanea sul carattere privato del ménage matrimoniale fa sì che the atmosphere of the group dipenda sempre più dalla responsabilità e dalle scelte dei singoli attori. Sta di fatto che nei ménage recenti si sviluppa una conflittualità tipica cui corrisponde, tuttavia, una maggiore flessibilità di soluzione.

E’ appena il caso di osservare che Lewin sa ricostruire e sa descrivere con dovizia di argomentazioni la dinamica conflittuale nell’ambito del gruppo e sa valutare con acume l’influenza che il gruppo esercita sul singolo attore coinvolto, nonché la complessa interazione di segno opposto, ma complementare, che dipende dal rapporto tra le esigenze individuali e quelle del gruppo. Risulta assai meno interessante, invece, e pochissimo sviluppata la terapia indicata per la soluzione dei conflitti (Lewin 1948, 101). L’indagine sistematica condotta da Lewin sulle reazioni di un attore che si imbatte in un dilemma di scelta in un campo sottoposto a tensione lo fa approdare ad una proposta di tipologia di conflitti espressa in forma di tipi ideali: il conflitto fra forze di pulsione; il conflitto fra forze di pulsione e forze di arresto; il conflitto fra forze personali e forze indotte.

Al di là della sua efficacia esplicativa, la tipologia di Lewin mette in luce uno degli orientamenti ideologici più diffusi nella ricerca sul tema: i conflitti sono endemici alla natura dell’uomo (e della società) e dato che sono a volte perniciosi vanno composti e superati: compito essenziale della ricerca, allora, sarebbe quello di rintracciare un punto di equilibrio e dunque di superamento. Ci siamo dilungati nell’esemplificazione di come la problematica conflittuale viene trattata da uno psicologo sociale perché in questo modo si è anche constatato come del conflitto e delle sue possibili forme si possa parlare sia ad un livello micro sia ad un livello macro.

NashUn altro tentativo importante perché si è svolto in una zona interdisciplinare, anche se ha avuto forse maggiore consistenza nelle scienze economiche e nelle relazioni internazionali, è quello dovuto alla teoria dei giochi il cui fine eminente è di analizzare l’azione di attori che si confrontano su di un terreno dove le regole e le condizioni del gioco sono predeterminate. Gli attori hanno un fine e si attrezzano razionalmente per raggiungerlo; il loro comportamento è supposto essere sempre e comunque un comportamento razionale. Non è qui la sede più opportuna per ricostruire analiticamente la teoria dello Zero-sum Game è, invece, importante svelare il postulato di base che orienta questa teoria e che al tempo stesso ne limita le possibilità euristiche in tema di analisi del conflitto: ogni attore agisce in maniera che le sue scelte nell’affrontare l’altro si approssimano sempre meno alle zone di incertezza che possono scatenare l’insicurezza di comportamento. In un certo senso questo orientamento costante della dinamica attiva nel gioco-conflitto instaurato fra gli attori riflette la rigidità irrinunciabile dell’impostazione razionale nella dinamica del gioco. Non è stato difficile avanzare delle critiche a carico di questa teoria impostate proprio sulla irriducibilità del conflitto al gioco. Se è nella natura del gioco avere delle regole che ne guidano lo svolgimento è altrettanto tipico del conflitto svolgersi senza regole (così è almeno in alcune delle sue forme socialmente emergenti) ed avere una durata non prefissata.

2.Il conflitto: una definizione sociologica e problematica

machiavelliLa teoria sociologica del conflitto ha le sue radici nella filosofia sociale e nella filosofia politica. Non è possibile non menzionare i nomi di Machiavelli, Hobbes, Hume e di Ferguson cui si aggiungono le teorie di Malthus e di Darwin che indicano nella lotta per l’esistenza e nel principio della sopravvivenza ed in quello del dominio del più dotato un principio organizzatore della società.

Il pensiero sociologico classico alla pari di quello contemporaneo pone il conflitto al centro dell’esperienza sociale in aperta polemica da un lato con l’organicismo positivistico che ha mostrato interesse solo per i processi di integrazione e, dall’altro lato, con lo struttural-funzionalismo che si è focalizzato sulla dimensione del consenso e dell’equilibrio sociale, impegnandosi soprattutto nel tentativo di dare una risposta adeguata all’interrogativo: come si spiega l’ordine sociale? Le diverse impostazioni analitiche pongono una relazione stretta fra conflitto, mutamento ed incremento della complessità del quadro societario globale. L’analisi sociologica ci  hobbespropone, naturalmente, una visione del conflitto come fenomeno collettivo. Ciò significa che gli attori che contendono lo fanno in nome di categorie sociali le più diverse e agendo sviluppano uno sforzo a difesa di interessi antagonistici che hanno, comunque, delle connotazioni  meno distanti di quanto si possa pensare. L’azione di conflitto svela, promuove e rafforza  l’appartenenza sociale di chi si espone alla competizione.

La fenomenologia del conflitto viene ricostruita dall’indagine che la sociologia conduce da molti lustri attorno al problema dell’ordine e del mutamento. La rassegna di teorie che ci si propone di presentare in modo molto selettivo nei paragrafi che seguono dimostra, a ben guardare, che l’ordine sociale tipico dell’epoca contemporanea si manifesta come un ordine che sa mantenersi nel cambiamento di certi suoi elementi e pur nella protesta e nel dissenso. Il conflitto e Thomas_Robert_Malthusla regolazione del conflitto assumono la funzione fondamentale di garantire questo tipo di ordine che non è statico e che ha bisogno, anzi, di un tipo particolare di cambiamento.

Il primo compito da adempiere, tuttavia, sembra esser quello di mettere a fuoco i concetti. In questo ambito problematico la distinzione classica tra guerra e conflitto merita di essere messa a punto, a meno che non si vogliano compiere degli abusi terminologici che poi si pagano gravemente sul piano dell’analisi. La guerra si distingue dal conflitto sia perché prevede l’annullamento totale dell’avversario sul piano fisico o sul piano sociale sia perché solitamente si instaura tra due soggetti collettivi che mirano a sopprimere l’autonomia dell’altro (il nemico), ad eliminare le sue radici sul territorio ed incorporarne tutte le risorse sia perché i mezzi che usa sono espressione di un’organizzazione istituzionale straordinariamente importante (esercito). La guerra non di rado può scaturire da un conflitto che diventa cronico e che può dare soluzione ai suoi problemi solo attraverso una forma di confronto totale e violento. E’ appena il caso di accennare che nel mondo moderno sono soprattutto gli Stati nazionali a promuovere i grandi conflitti bellici e a controllarne gli effetti devastanti; gli Stati nazionali sono soprattutto i detentori, in forma di quasi monopolio, dei mezzi di coercizione più importanti.

charles tillyUna tra le definizioni possibili di conflitto è quella che lo presenta come un rapporto di opposizione che intercorre almeno tra due attori, individuali o collettivi, in quanto perseguono finalità incompatibili. Il conflitto si traduce in azioni di potere che determinano una forma di relazione diversa in vista di una rinnovata distribuzione delle risorse che gli attori confligenti reputano essenziali. Charles Tilly scrive che

«vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza pretese di segno negativo nei confronti  di altre persone o gruppi, pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero l’interesse altrui cioè l’altrui probabilità di raggiungere una situazione desiderabile» (Tilly 1992, 259).

luciano gallinoAncora più chiara, forse, la definizione proposta nel suo Dizionario di Sociologia da Luciano Gallino: si definisce conflitto sociale

«un tipo di interazione più o meno cosciente tra due o più soggetti individuali o collettivi, caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possono conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedire l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue» (Gallino 1993,151).

A fini definitori, poi, anche per delimitare sociologicamente il campo, può essere utile richiamare una tipologia esemplare proposta da Dahrendorf che si articola in cinque tipi di conflitto: conflitti all’interno e tra singoli ruoli sociali; conflitti all’interno di singoli gruppi sociali; conflitti tra raggruppamenti sociali organizzati (gruppi di interesse) o non organizzati (quasi gruppi); conflitti tra gruppi organizzati o non organizzati che coinvolgono un’intera società; conflitti interni ad unità più grandi. Si può considerare un’ulteriore tripartizione valutando il rapporto gerarchico che si instaura tra le parti in conflitto: avversari di pari rango; avversari superiori oppure subordinati l’un l’altro; totalità di un’unità contro una delle sue parti. Le possibili combinazioni classificatorie definiscono quindici tipi di conflitto che possono essere studiati da una gamma di teorie ad hoc: teorie del conflitto di ruolo, della concorrenza, della lotta di classe, delle minoranze e del comportamento deviante, della lotta con il ricorso ad un sistema elettorale, delle relazioni internazionali.

Ancora si può approssimare meglio l’estensione del campo di indagine sul conflitto ove si prendano in considerazione alcune distinzioni. Tra conflitto realistico e conflitto non realistico: il conflitto realistico deriva da un contrasto di interessi-valori contro un oggetto preciso e per un obiettivo determinato; il conflitto non realistico deriva da impulsi aggressivi soggettivi che si possono scaricare contro un qualsiasi soggetto. Tra conflitto potenziale ed attivo: il conflitto potenziale è una situazione capace di provocare dei processi conflittuali; il conflitto attivo è un comportamento conflittuale empiricamente osservabile. Tra conflitto manifesto e conflitto latente: il conflitto manifesto osservabile fra due o più soggetti, è in certi casi soltanto un sintomo di un diverso e più profondo conflitto di cui non si scorge la natura reale e di cui gli stessi attori non sempre hanno coscienza.

durkheimTra le spiegazioni generali del conflitto vale la pena di ricordare la gamma di metateorie utili per orientare la ricerca, la teoria e l’interpretazione degli eventi conflittuali proposta da Tilly. La prima è la metateoria della tensione sociale. Essa parte dall’idea che gli individui percepiscono la società come sovraordinata ad essi e vivono quindi il conflitto come un fatto patologico da prevenire e da reprimere. Il ragionamento sociologico che si ispira tradizionalmente a questa metateoria è quello di Emile Durkheim che lega l’anomia al conflitto.

La seconda metateoria è quella della lotta fra i gruppi. Essa presuppone che la struttura della società sia formata dalla lotta interindividuale ed intergruppo a difesa di interessi che quando sono contrastanti comportano la deflagrazione del conflitto. Karl Marx è l’espressione migliore dell’approccio conflittualista modellato secondo questa metateoria.

La terza metateoria viene indicata come metateoria del carattere intrinseco. Essa ha una connotazione specifica in termini di determinismo biologico: il ilorenk001p1conflitto scaturisce dall’istinto di lotta e dall’aggressività che, ad esempio, Konrad Lorenz ritiene prodotta sulla base della selezione genetica la quale affida la sopravvivenza della specie a questa capacità. Si affiancano a questa metateoria quegli approcci di stampo marcatamente conservatore che fanno riferimento alla natura malvagia ed immodificabile dell’uomo ed al bisogno di ordine che scaturisce da questo presupposto presociale. Infine la ricca tipologia di conflitti etnici, razziali, religiosi viene ricondotta alla quarta metateoria delle relazioni fra i gruppi che riporta il conflitto al pregiudizio e più in generale a delle smagliature culturali che vanno ricucite con un progetto di ingegneria sociale che propugni l’educazione  civica, il modello di società pluralista et similia. E’ molto importante per la composizione e per  l’annullamento del conflitto che le relazioni fra i gruppi diventino più intense e che le pratiche di comunicazione si intensifichino ad ogni livello e perdurino nel tempo. Un bilancio complessivo degli studi condotti sulla scia di queste metateorie svela che la più parte delle ricerche contemporanee adottano la metateoria della tensione sociale e quella della lotta fra i gruppi. Tuttavia il quadro sociale che in concreto fa da sfondo al conflitto è vario nei suoi elementi costitutivi a partire dagli attori che sono i protagonisti per finire alle strategie adottate; non v’è dubbio che le metateorie e le teorie si devono adattare all’eterogeneità ed alla complessità del quadro empirico.

3.Il conflitto sociale nel pensiero sociologico classico

La sociologia positivista dell’Ottocento non aveva un interesse diretto allo studio della fenomenologia conflittuale. L’influenza dell’Illuminismo sulle prime riflessioni sociologiche denuncia piuttosto il senso di relativo ottimismo che la società europea colta del tempo nutre verso gli effetti di trasformazione determinati dalla rivoluzione francese e dalla rivoluzione industriale. I padri della sociologia da un lato sono convinti che la storia dell’uomo proceda lungo un itinerario di progresso irreversibile, dall’altro lato sono convinti che uno dei compiti fondamentali delle scienze sociali sia quello di controllare razionalmente gli aspetti critici che le due grandi rivoluzioni hanno prodotto nella sfera della politica e nella sfera dell’economia; il fine eminente della sociologia sembra esser quello di trovare un ordine sociale efficace nell’assecondare l’evoluzione sociale.

Marx nel 1869La tradizione sociologica conflittualista vede alle sue origini la teoria del conflitto di classe di Karl Marx e di Friedrich Engels e propone il materialismo storico come il tentativo di massima drammatizzazione sociale del conflitto (Collins 1996, 36). Le classi sociali sono gli attori collettivi che stanno costantemente al centro della dinamica storica. Le classi sociali vengono configurate nella loro composizione dalla forma storica dominante di proprietà. Nelle società antiche la produzione era fondata sulla proprietà degli schiavi; la classe principale era quella dei patrizi proprietari degli schiavi cui si contrapponevano i plebei, una sorta di classe intermedia che non era schiava ma neppure proprietaria della forza lavoro centrale nell’economia del tempo. Nella società feudale la proprietà dei mezzi di produzione coincide, invece, con la proprietà della terra e dei contadini; ne deriva che la classe dominante è costituita dalla nobiltà terriera cui si affianca e si oppone una terza classe formata dagli artigiani urbani e dai mercanti nucleo della moderna borghesia che rivoluzionerà successivamente il quadro della stratificazione.

Nella società capitalistica, che costituisce lo scenario coevo ai Dioscuri del socialismo scientifico, la forma di proprietà emergente è quella del capitale industriale. La divisione di classe principale corre fra i proprietari dei mezzi di produzione (gli imprenditori borghesi) e il proletariato (operai di fabbrica) che possiede solo la forza delle proprie mani ed è costretta a venderla sul mercato del lavoro. Non si può non richiamare la famosa citazione del Manifesto:

« La storia di tutte le società, svoltasi fin qui, è storia delle lotte delle classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, maestri capi delle arti ed artigiani addetti alla compagnia in una parola, oppressi ed oppressori, stettero continuamente in contrasto fra di loro e sostennero una lotta non mai interrotta, a volte palese a volte dissimulata, una lotta che è sempre finita, o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o con la totale rovina delle classi in contesa ».

Mentre nelle antiche forme di società la stratificazione era assai articolata con la conseguenza che anche il conflitto fra le classi assumeva aspetti non uniformi, nel corso del consolidamento della società capitalistica si assiste ad una tendenza polarizzante:

«l’intera società si va, e sempre di più in più, come scindendo in due campi nemici, in due classi direttamente opposte: la borghesia ed il proletariato ».

Anche il conflitto riflette nelle sue manifestazioni questo processo di dicotomizzazione che è funzionale, tuttavia, nell’attribuire al conflitto medesimo una capacità straordinaria di trasformazione radicale della società. A Marx interessa ricostruire le modalità di formazione delle classi sociali come agenti di mutamento storico. Fondamentale per questo rispetto è la differenza tra classi in sé‚ cioè tra aggregati sociali solo potenzialmente in grado di agire come soggetto collettivo in quanto privi della coscienza dei propri interessi e classi per sé. Si ha la maturazione a questo secondo stadio della classe quando i soggetti che la compongono hanno la chiara consapevolezza dei propri interessi e si organizzano per difenderli e per affermarli facendo ricorso al conflitto come unico metodo politicamente produttivo. Il punto chiave dell’argomentazione sociologica marxiana riguarda l’importanza che ha il conflitto per portare la coscienza politica individuale alla giusta maturazione e per fare sì che la classe acquisti una sua unità ed una sua autonomia rispetto agli individui:

«I singoli individui formano una classe in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno di contro all’altro, come nemici nella concorrenza. D’altra parte la classe acquista a sua volta autonomia di contro agli individui».

La classe operaia nel suo scontro con la borghesia capitalistica introduce un elemento di volontarismo indispensabile per la teoria del mutamento sociale elaborata dal materialismo storico anche e forse soprattutto in una chiave analitica economicistica. Marx ed Engels, infatti, individuano come conflitto strutturale un contrasto tra le forze produttive e i rapporti storici di produzione; questa contraddizione è il vero motore delle mutazioni storiche epocali, essa comunque giunge a compimento solo grazie alla spinta impressa dalla classe organizzata in partito. L’esito del processo rivoluzionario è agevolato anche dalle caratteristiche dimensionali delle due classi in conflitto: il Marx de Il Capitale ci parla di un conflitto radicale che si va instaurando fra una cerchia capitalistica sempre più ristretta -a causa della spietata concorrenza che assottiglia progressivamente le schiere degli imprenditori- ed una classe proletaria che si ingigantisce sempre più perché ingoia gli altri strati sociali collaterali segnati dal destino della proletarizzazione inarrestabile.

Accanto al conflitto fra le classi che rappresenta il tipo centrale di conflitto Marx considera come tipi minori di conflitto quelli intraclasse, vale a dire la concorrenza fra gli operai, i conflitti etnici e quelli religiosi. Con il che si ammette che gli interessi che motivano ad un’azione conflittuale anche su una scala collettiva non sono solo ed esclusivamente di tipo economico. Pur tuttavia questi conflitti minori si considerano nel modello marxiano solo in quanto hanno come effetto perverso quello di indebolire l’unità della classe e dunque di attenuare la sua capacità di impatto nel corso di svolgimento del conflitto principale con l’altra classe antagonista, dominatrice e sfruttatrice. Il conflitto di classe ha il suo ambiente primario nella fabbrica ma si dilata progressivamente alla città, alla regione, alla nazione e su una scala internazionale in diretta connessione con l’ analoga capacità espansiva del capitale. La posta in gioco in apparenza è l’organizzazione della produzione; nella sostanza è il cambiamento della società, di cui il momento produttivo rappresenta il cardine strutturante.

Una ricostruzione storicamente esaustiva della collocazione del conflitto nel pensiero sociologico deve, poi, valutare il relativo disinteresse di molti orientamenti teorici per questa tematica. Lo struttural-funzionalismo, imperniato sui concetti di funzione e di sistema sociale, non può far altro che rigettare la prospettiva conflittualista oppure inglobarla limitando i fenomeni di conflitto ad un’esperienza non decisiva del quadro societario e tale, comunque, da corrispondere alle sue esigenze di funzionalità. Allo stesso esito, anche se non si può dire che appartenga alla scuola integrazionista, approda la concezione soggettiva dell’azione sociale che ispira la sociologia comprendente, l’interazionismo simbolico e la sociologia fenomenologica. Forse la sociologia della conoscenza  potrebbe illustrare i motivi profondi dell’alternarsi di cicli in cui il conflittualismo assume il ruolo di chiave analitica cruciale a cicli in cui, invece, il nodo da sciogliere è relativo alla formazione del consenso, alla densità dei legami associativi, alla diffusione della solidarietà, all’integrazione del sistema. Sta di fatto che in qualche autore che qui non può esser visto in profondità come meriterebbe, si nota un esasperato formalismo terminologico ed il gusto di un approfondimento analitico che sembra a volte sconfinare nel Georg-Simmelparadosso.

E’ il caso di Georg Simmel che nella sua Soziologie (1908) non adotta il termine Konflikt, ma quelli solo parzialmente equivalenti di Streit e di Kampf. Il conflitto, secondo Simmel, ha una valenza tutt’altro che patologica ed è inteso come una delle forme di associazione che governano il processo interattivo. Ecco una citazione emblematica:

«I rapporti conflittuali non producono una struttura sociale di per sé stessi, ma sono sempre in correlazione con le forze coesive. Così solo gli uni e le altre, insieme, costituiscono il gruppo come unità vitale reale. In questa prospettiva i primi difficilmente si distinguono da qualsiasi altra forma di rapporto che la sociologia astrae dalle molteplicità dell’esistenza reale. Né l’amore, né la divisione del lavoro, né il comune atteggiamento di due nei confronti di un terzo, né l’amicizia, né l’appartenenza ad un partito, né i rapporti di comando e subordinazione dovrebbero potere produrre un’unità storica o sostenerla permanentemente. E dove questo caso si verifica, tuttavia, il processo così indicato contiene già una molteplicità di forme distinte di rapporti. E’ la natura dell’animo umano che non si lascia legare da un solo filo all’altro individuo anche se l’analisi scientifica si ferma solo alle unità elementari nella loro specifica forza coesiva ».

In breve, distanziandosi in buona parte dai suoi contemporanei, Simmel ha mostrato la necessità di assumere il conflitto come unità, cioè  come relazione nella quale la tensione introdotta dagli elementi dissociativi è comunque connotata in modo associativo. Infatti la vittoria totale di una parte  sull’altra comporterebbe non solo la fine del conflitto ma anche dell’associazione. Sia come sia, ciò che conta  forse a fini analitici  è  mantenere una visione dell’interazione che ci consenta di guardare al rapporto tra Ercole ed Anteo non tanto come un abbraccio che tende a configurare il conflitto in una direzione unitaria, ma come un tentativo (ben impostato) di orientare l’interazione in vista dell’ annientamento dell’avversario.

A questa stessa impostazione sembrano ispirarsi nel famoso manuale Introduction to the Science of Sociology del 1921 i fondatori della Scuola ecologica di Chicago. Robert E. Park e Ernest Burgess hanno proposto una distinzione fra competizione e conflitto in una maniera formale che verrà riecheggiata dalla teoria dei giochi con un senso sociologico che non  ha trovato  molto spazio nelle teorie contemporanee. La competizione è una forma di lotta tra individui e/o tra gruppi che non comporta necessità di contatto e di comunicazione, come avviene in caso di conflitto. Il conflitto presuppone coscienza, la competizione no; la competizione è una forma di lotta continua ed impersonale, il conflitto è intermittente e personale. Secondo Dahrendorf, per citare un illustre critico, questa distinzione non avrebbe molta rilevanza  perché in ambo i casi alla base del contendere c’è una scarsità di risorse. Tutto sommato sembra che diventi più utile per la ricerca sociologica lavorare su tipi diversi di conflitto a seconda dell’ambito istituzionale di riferimento perché, oltreché esser promossi da attori diversi, in questo modo i conflitti hanno una caratterizzazione specifica. In questo modo, inoltre, si esce dall’ambiguità di riferimento che, a ben vedere, è contenuta nell’espressione conflitto sociale ove non si attribuiscano al processo dei confini e degli ambiti di espressione.

4. Ralf Dahrendorf: nuove tendenze del conflitto di classe

dahrendorfA distanza di oltre quarant’anni dalla pubblicazione di Soziale Klassen und Klassenkonflict in der industriellen Gesellschaft (1957) si può affermare che questo saggio, nonostante il suo impianto analitico sincretico, rappresenta una tappa importante del pensiero sociologico moderno e dunque merita in questo capitolo una trattazione ad una distanza più ravvicinata. Dahrendorf sembra voler perseguire un duplice obiettivo. Il primo fine dichiarato è quello di una critica costruttiva di Marx, il secondo è quello di sostituire o, forse meglio, di integrare la prospettiva dello struttural-funzionalismo con una teoria della coercizione adeguata alle caratteristiche strutturali della società del nostro tempo ed ad un conseguente rilancio di una rinnovata teoria del conflitto. La rivisitazione di Marx fornisce gli elementi di sostegno per una teoria del conflitto che svela, tra l’altro, anche le debolezze ed i limiti euristici della teoria di Talcott Parsons.

A questo proposito è sufficiente ricordare il legame diretto che Dahrendorf stabilisce tra conflitto e mutamento sociale e l’idea che il conflitto concerne sempre e soprattutto due posizioni di interesse contrapposte: due classi sociali fondamentali. Si tratta, ovviamente di un’idea di derivazione marxiana, che viene però riformulata in un quadro sociale e politico che non è più quello del capitalismo europeo dell’Ottocento. Marx ci ha lasciato una teoria conflittuale del cambiamento sociale di indubbia utilità sul piano storico ove però la teoria delle classi e del conflitto di classe rappresenta il legame problematico tra l’analisi sociologica e la speculazione filosofica. Dahrendorf si preoccupa di individuare gli elementi filosofici, ovvero sociologicamente spuri, nell’ambito della sociologia di Marx intendendo per tali quelle proposizioni che non possono essere ricondotte a verifica empirica come quelle che annunciano, profeticamente, l’avvento di una società senza classi e dunque a-conflittuale.

La via ad una critica sociologica di Marx non nega tuttavia che Marx abbia felicemente intuito il ruolo che «vasti ed anonimi raggruppamenti di individui» hanno nei grandi cambiamenti sociali. Così come ha il merito di aver intuito che i conflitti sociali attraverso i quali si attuano tali mutamenti non sono casuali ma generati dalla struttura stessa della società. Ancora: Marx avrebbe ragione quando sostiene che in ogni situazione storica di cambiamento un conflitto sarebbe dominante; ossia lo schema delle due classi in conflitto, una delle quali lotta per conservare lo status quo e l’altra per cambiarlo sarebbe da mantenere. La riduzione dicotomizzante sembra a Dahrendorf endemica allo stesso concetto di conflitto come prova la pars construens del suo contributo. Ma lo sforzo prioritario è quello di avanzare una serie di rifiuti di Marx. Dahrendorf svela l’ambiguità di certi teoremi marxiani quali : che vi sia correlazione delle classi con la proprietà privata in senso legale e che le classi e la lotta di classe siano proprie di ogni società e di ogni epoca. Anche la tesi marxiana che ogni mutamento strutturale debba essere di carattere rivoluzionario può essere resa sospetta osservando che essa discende, aprioristicamente, dall’adozione del metodo dialettico. Marx avrebbe avuto il torto di aver elevato il conflitto di classe, dal rango che gli compete di importante fattore di mutamento, al rango del tutto immeritato di unico fattore di cambiamento strutturale. Innanzitutto, il mutamento endogeno non è che un tipo di cambiamento sociale; il cambiamento sociale può avvenire anche per fattori esogeni, ad esempio tramite il contatto culturale. Inoltre il conflitto sociale non è che una delle cause di cambiamento endogeno; ma ve ne sono altre, ad esempio l’innovazione tecnologica. Infine il conflitto di classe non è che uno dei tipi di conflitto sociale; ve ne sono altri per esempio tra bianchi e negri negli Stati Uniti o tra cattolici e protestanti in Olanda, conflitti che possono sovrapporsi o no tra di loro e che comunque possono provocare cambiamento strutturale.

Un punto chiave della rivisitazione di Dahrendorf riguarda il forte dubbio che il concetto marxiano di classe possa applicarsi al tipo di società post-capitalistica. Si assiste ad un processo di differenziazione della classe capitalistica dovuto alla scissione fra proprietà e controllo dei mezzi di produzione cui si accompagna un parallelo processo di minor compattezza della classe operaia. Al suo posto si trova una pluralità di gruppi operai (specializzati, semispecializzati e non specializzati) con gli operai molto specializzati che godono di un reddito e di uno status (inclusa la stabilità del posto di lavoro) che sono molto vicini a quelli degli impiegati. Non c’è qui lo spazio adeguato, poi, per valutare a pieno le conseguenze che l’ ingigantimento degli strati sociali intermedi ha avuto sulla configurazione degli interessi di classe e delle correlative forme di conflitto nelle società postcapitalistiche di tutto l’Occidente. In generale comunque si può affermare che sembra convalidata empiricamente l’ipotesi che non esistono più le condizioni per alimentare una lotta frontale di due classi. Dahrendorf, sulla scia delle riflessioni di Lipset, Schelsky e Kingsley Davis ritiene, inoltre, che nessuna classe sociale può rimanere stabile più di una generazione. Da ciò il corollario: l’intensità dei conflitti di classe deve necessariamente attenuarsi proprio perché prevarrà la tendenza secondo cui gli individui competeranno con gli altri in quanto individui e non nella loro qualità di soggetti appartenenti a dati gruppi. Ciò non significa che nella società post-capitalistica scompaiono i conflitti di gruppo né tantomeno i conflitti di classe; significa che la composizione degli attori collettivi confligenti è mutata e significa che i gruppi confligenti in una società caratterizzata da mobilità intensa e diffusa adottano, in generale, delle forme di azione conflittuale assai meno violenta di quelle verificate (oltreché auspicate) dall’analisi marxiana.

La teoria del conflitto di Dahrendorf trova comunque un altro punto di forza nel processo di istituzionalizzazione del conflitto di classe, processo peraltro già brillantemente individuato e descritto da Theodor Geiger in La società di classe nel crogiuolo (1948). L’istituzionalizzazione del conflitto industriale ha reso impossibile la spietata lotta di classe prefigurata da Marx talché

«invece di un campo di battaglia si ha una specie di mercato dove forze relativamente autonome si combattono secondo determinate regole che dispongono che nessuno dei contendenti sia permanentemente il vincitore o il soccombente».

La istituzionalizzazione del conflitto non sembra comunque corrispondere ad un valore nuovo ma essere piuttosto già implicita nei valori di fondo di ogni società industriale. La novità sta nel fatto che non ha plausibilità l’ipotesi secondo cui solo il conflitto acuto e violento può generare mutamento strutturale. Al contrario, secondo Dahrendorf,

«fenomeni del tipo dell’istituzionalizzazione del conflitto di classe dimostrano che una classe oppressa può benissimo essere in grado di provocare mutamenti strutturali attraverso discussioni o negoziati».

Naturalmente il processo di istituzionalizzazione ha un suo spazio e la sua grande chance di inveramento storico politico perché si è affermata una concezione pluralista della società post-capitalistica. Come è noto Dahrendorf sostituisce come criterio di formazione delle classi il possesso o la mancanza di possesso dell’effettiva proprietà privata con l’esercizio, o la mancanza di esercizio, di autorità, weberianamente intesa.

«Le classi sono dei gruppi sociali contrapposti, il cui elemento distintivo (o differentia specifica) può esser individuato nella partecipazione all’esercizio dell’autorità (o nell’esclusione da esso) in ogni associazione regolata da norme imperative».

La società post-capitalistica viene ad essere caratterizzata e costituita da molti gruppi in conflitto tra di loro in base ad interessi concreti e diversi che derivano dalle forme storiche che il principio generale di autorità assume nella diverse associazioni. Ma di ciò si è già detto nel capitolo  dedicato all’autorità; qui conviene ricordare solo gli effetti che questa concezione della struttura sociale inducono sulla dinamica conflittuale generale.

In breve: le classi si costituiscono esclusivamente in base alla partecipazione o meno all’esercizio di autorità; quindi le classi economiche non rappresentano se non una manifestazione particolare del fenomeno delle classi. La partecipazione al controllo dei mezzi di produzione, come caso particolare di autorità, servirà solo a spiegare i conflitti che sorgono nell’industria. In linea generale la dicotomia delle posizioni di autorità è valida solo nell’ambito di specifiche associazioni; ciò si traduce in una sorta di distribuzione differenziata della titolarità di autorità nel senso che un individuo può partecipare all’autorità in una data associazione ed esserne completamente privo in un’altra e normalmente avviene proprio così. Difficilmente una classificazione degli individui in base all’autorità totale nella società darebbe luogo a nette dicotomie. E difficilmente, quindi, la società è nettamente divisa in due: solo la lotta tra dominanti e dominati, impegnati in conflitti isolati entro singole associazioni è inevitabile.

Le posizioni occupate con o senza autorità determinano interessi contrastanti o al mantenimento oppure alla modificazione di uno status quo. Tuttavia non tutti i gruppi di interesse sono gruppi di conflitto. La differenza particolare dei gruppi di conflitto dagli altri gruppi consiste «nelle caratteristiche formali degli interessi (latenti o manifesti) su cui sono basati, che sono interessi inerenti alla legittimità delle relazioni di dominio e di soggezione». Quindi non possono essere considerati gruppi di conflitto associazioni come il club degli scacchi ma solo quelle come il partito o il sindacato. Ma quali sono le condizioni empiriche della formazione del gruppo di conflitto? Le condizioni principali sono di natura tecnica, politica e sociale ma la formazione di gruppi di interesse reclama anche una riflessione sulle condizioni psicologiche nel senso che è importante un’identificazione con le aspettative del gruppo. Alcune condizioni, poi, possono impedire la formazione di gruppi di conflitto: principalmente l’esistenza di uno Stato totalitario e l’instabilità dell’assetto sociale dopo grossi rivolgimenti: mancano in questo caso i capi e le ideologie ma anche altre condizioni fondamentali.

Dahrendorf dopo aver stabilito che le classi sono per definizione gruppi di conflitto si chiede quali siano le conseguenze sociali di tale conflitto. Dahrendorf premette che è nettamente favorevole a quella concezione della società che vede nel conflitto una caratteristica essenziale della struttura e della dinamica sociale; e non solo in considerazione delle conseguenze positive per l’ordine stesso ma anche dei mutamenti che porta. Per illustrare questi due tipi di conseguenze, Dahrendorf ricorre all’analisi di Lewis Coser ,la cui rilevanza è tale da reclamare l’apertura di una parentesi nella esposizione della tesi dahrendorfiana.

5. Lewis Coser: genesi e forme del conflitto

coserCoser è una figura significativa della sociologia americana moderna che ha il merito di avere prudentemente corretto le tendenze integrazioniste troppo rigide dominanti nel suo paese. Il brillante libro di Coser è teso ad una rivalutazione del conflitto e delle sue influenze positive sugli sviluppi della società ed è stato scritto in polemica con Parsons e con le correnti conservatrici in voga negli anni del primo dopoguerra. E’ comunque il caso di notare che anche Coser si muove all’interno di una visione integrazionista della società che lo conduce ad analizzare una delle dimensioni del conflitto, quella che ha come effetto la preservazione del gruppo, l’esaltazione del suo potenziale integrativo e della sua coesione interna. Non a caso l’interlocutore privilegiato da Coser, l’autore con il quale egli dialoga continuamente, stabilendo una sorta di continuità con le sue tesi, è George Simmel.

La prospettiva conflittualista ha trovato nel lavoro di Coser uno sviluppo particolarmente significativo. A differenza di Dahrendorf, Coser si interessa principalmente delle condizioni di formazione del conflitto al di fuori dei contesti istituzionali, esaminando allo stesso tempo anche le possibili conseguenze che il conflitto può produrre nel mutamento dell’ordine sociale.  Rispetto all’impostazione funzionalista di Parsons, dalla quale come si è accennato, Coser si distacca, l’analisi del sociologo statunitense non si concentra sulle dimensioni funzionali del conflitto o sulle dinamiche attraverso le quali un ordinamento sociale può metabolizzare il conflitto tramite la ricostituzione di processi di integrazione, considerando piuttosto l’integrazione sociale come una delle possibili conseguenze del conflitto e non l’obiettivo primario di esso.

Nella sua opera più importante sul conflitto, The Functions of Social Conflict (1956), Coser distingue – sulla scia di Simmel – tra due forme generali di conflitto: il conflitto esterno e il conflitto interno ai gruppi e agli ordinamenti sociali. Il conflitto esterno è il tipo di relazione sociale che si stabilisce tra due distinti gruppi od ordinamenti sociali: la conseguenza più significativa prodotta dall’instaurarsi della relazione di conflitto è costituita dal rafforzamento dell’identità collettiva. Gli individui implicati nel conflitto rinsaldano i legami  con i rispettivi gruppi di appartenenza. Il conflitto esterno segna e conferma i confini del gruppo e produce anche una maggiore “vicinanza”  sociale tra i membri che si traduce, naturalmente,  in un incremento dell’integrazione sociale. In altri termini Coser sottolinea come la dinamica conflittuale possa svolgere un ruolo primario non tanto, o non solo, nello sviluppo  di  momenti di crisi nei rapporti  sociali, ma anche nel dar vita a nuovi gruppi o a nuove forme di ordinamento sociale proprio in ragione della capacità di rafforzamento dell’identità che i conflitti esterni dimostrano.

I processi di integrazione e rafforzamento dell’identità che Coser individua nella logica dei conflitti esterni assumono una configurazione particolare, ma non meno importante, nella fenomenologia dei conflitti interni ai gruppi e agli ordinamenti sociali. In relazione allo sviluppo dei conflitti interni Coser  evidenzia tre aspetti importanti. In primo luogo lo sviluppo di conflitti interni a gruppi o a ordinamenti sociali (ceti, classi, istituzioni, società) costituisce una modalità di scarico delle tensioni generate dalle forme di dissenso e di devianza. I conflitti interni se per un verso esprimono il manifestarsi di attriti e tensioni, per l’altro verso consentono la riaffermazione – con il superamento del conflitto – di valori integrativi e identitari intorno ai quali il gruppo si riconosce. In altri termini anche il conflitto interno, come quello esterno, offre elementi di integrazione e di stabilità all’ordinamento sociale, e di conferma dell’identità dei membri. In secondo luogo nel conflitto interno una funzione integrativa è svolta anche dalle forme di regolazione dei conflitti stessi. In questo senso il conflitto può essere funzionale alla coesione del gruppo proprio attraverso la conferma degli strumenti ed apparati di istituzionalizzazione del conflitto. Una riprova di questa chiave di lettura, se vogliamo attualizzare il discorso, può essere individuata nella guerra che per un decennio ha devastato i paesi della ex Yugoslavia: la negazione, per otto lustri, delle differenze etnico-culturali che, invece, per secoli avevano strutturato le relazioni sociali delle società balcaniche ha favorito – con la fine del regime titoista – lo sviluppo della forma del conflitto etnico, proprio in quanto modalità di espressione della differenza priva di una propria regolazione e istituzionalizzazione. In terzo luogo la pervadenza del conflitto interno non è necessariamente indice di disgregazione della società poiché, specialmente nella società moderna, può svolgere anche in questo caso funzioni di integrazione. Coser ha infatti scritto che la stabilità dell’ordine di una società differenziata, e dunque anche flessibile come quella moderna,

«può essere vista in parte come un prodotto dell’incidenza continua dei vari conflitti che la attraversano» (Coser  1956, tr.it 1974, 86).

Ciò accade perché nella società moderna gli individui appartengono normalmente a più associazioni e gruppi sociali, talché è virtualmente impossibile che il conflitto li coinvolga in ogni aspetto della loro identità ed appartenenza. La multiappartenenza si coniuga con l’esistenza di conflitti limitati su aspetti e interessi specifici, lasciando liberi gli individui di trovare punti di accordo e di convergenza su altri interessi ed ambiti della vita collettiva. In altri termini la società verrebbe a delinearsi come un reticolo di linee di conflitto ciascuna delle quali, però, orientata in modo da non convergere verso le altre. La conseguenza di questa pervasività dei conflitti consisterebbe dunque in una maggiore stabilità e flessibilità delle relazioni sociali, anche perché il grado di coinvolgimento degli individui in questo tipo di conflitti è sicuramente minore di quello dei membri di società meno differenziate, nelle quali l’identità non è articolata secondo linee di multiappartenenza. L’influenza di questa prospettiva analitica sul modello sociologico di conflitto disegnato da Dahrendorf per la società post-industriale non sembra reclamare ulteriori commenti.

Coser viene citato da Dahrendorf, in particolare, per avere sostenuto: a) che

«nei limiti in cui il conflitto costituisce la risoluzione di una tensione tra due antagonisti, esso svolge delle funzioni stabilizzatrici e diviene una componente integratrice della relazione»;

b) che la istituzionalizzazione del conflitto salvaguarda le società aperte da sviluppi conflittuali che porrebbero

«in pericolo il consenso fondamentale»;

ed, infine, c) che

«la interdipendenza dei gruppi antagonistici e l’incrociarsi all’interno di tali società dei conflitti, hanno l’effetto di cucire insieme il sistema sociale, mediante la vicendevole eliminazione dei conflitti e servono a prevenire una disgregazione lungo un’unica linea fondamentale di divisione sociale».

Coser ha messo in luce, fra l’altro, anche l’altro tipo di conseguenze:

«Il conflitto previene la calcificazione del sistema sociale, costituendo un impulso per il rinnovamento e per la creatività».

Il conflitto è l’elemento onnipresente della vita sociale, anzi secondo Dahrendorf, che sconfina qui nel terreno parateorico, è dal conflitto che derivano creatività, innovazione, mutamento evolutivo sia al livello individuale sia al livello collettivo.

6. Dahrendorf e le dimensioni empiriche del conflitto

L’analisi del conflitto si articola poi attorno alle dimensioni dell’intensità e della violenza che permettono di studiarlo empiricamente.

«La categoria dell’intensità si riferisce al dispendio di energie e al grado di partecipazione delle parti in conflitto. Si può affermare che un particolare conflitto è molto intenso quando il costo della vittoria e della sconfitta è alto per entrambe le parti interessate».

L’intensità dipende allora dall’importanza annessa al conflitto e può variare lungo una scala continua, da un minimo ad un massimo. La violenza del conflitto, si collega, invece, non alle sue cause ma alle sue manifestazioni. Il problema è riferito alle “armi”, agli strumenti, ai mezzi adottati dai gruppi. Anche la violenza può variare lungo una scala continua dalla discussione all’uso della forza. Ma la riflessione teorica di Dahrendorf si approfondisce in più direzioni. Un primo fattore esaminato si riferisce al rapporto tra i vari conflitti esistenti in una società. Il modello-Dahrendorf considera, come si è detto, primariamente le associazioni coordinate da norme imperative: in ogni associazione vi saranno due classi in conflitto e quindi, in relazione al numero delle associazioni esistenti in una data società avremo altrettanti conflitti, almeno è così in teoria. In pratica, conflitti diversi si possono sovrapporre ed è probabile che i fronti del conflitto -potenzialmente innumerevoli- si riducano ad un insieme definito di conflitti dominanti.

Per misurare il fenomeno si potrebbe costruire una scala a due dimensioni ricorrendo ai due elementi del pluralismo e della sovrapposizione. Il concetto è illustrato con riferimento a tre associazioni: Stato, industria e Chiesa. I gruppi dominanti e quelli subordinati di ciascuna di queste associazioni si possono presentare come aggregati fondamentalmente separati. Ma spesso può avvenire il contrario: chi è soggetto in un’associazione può esserlo anche nell’altra e tra i dominanti esiste una qualche forma di rapporto non indifferente per la dominazione stabilita. Il punto è stato vagliato attentamente da molte ricerche empiriche che Dahrendorf conosce assai bene e che utilizza anche nella costruzione della sua teoria, basti pensare allo studio di C. Wright Mills, The Power Elite (1956). In una congiuntura di questo tipo i conflitti attivi nelle diverse associazioni si sovrappongono: i soggetti antagonisti nell’associazione X si ritrovano in una identica relazione conflittuale nelle altre sedi associative Y, Z, W… Nelle diverse associazioni si rileva un’identità di personale di gruppi di conflitto: la dicotomizzazione esistente in seno al ristretto ambito associativo si riflette all’esterno. Se invece si verifica la dissociazione la contrapposizione frontale su una scala ampia interassociativa non ha spazio perché ogni componente della classe subordinata di un’associazione trova una qualche gratificazione in un’altra associazione.

Anche il discorso sulla mobilità sociale manifesta delle implicazioni rilevanti per l’analisi empirica del conflitto: si può configurare come caso limite di mobilità sociale quello della società senza classi. Da una situazione di rigidità, tipo quella delle caste ad una situazione di quasi-assenza di classi sussiste tutta una serie continua di tipi di classi sociali, caratterizzate da diverse gradazioni di mobilità sociale da generazione a generazione ed all’interno della stessa generazione. Questa scala può servire per misurare l’intensità del conflitto. Deve esistere «una relazione inversamente proporzionale tra il grado di apertura delle classi e l’intensità del conflitto di classe. Più alta è la mobilità verso l’alto e verso il basso in una data società, meno estesi e radicali è probabile che siano i conflitti di classe poiché con l’aumento della mobilità, alla solidarietà di gruppo si sostituisce sempre più la competitività tra gli individui e le energie investite dagli individui nei conflitti di classe sono sempre minori».

Dahrendorf esamina, poi, le condizioni che trasformano il conflitto di classe in un fattore determinante di mutamento sia al livello normativo-ideologico sia al livello fattuale-istituzionale. Il conflitto di classe ha formalmente come obiettivo la distribuzione dell’autorità; ma è evidente che all’autorità non si mira come valore in sé, bensì come tramite di realizzazione di interessi definiti. L’avvicendamento del personale in posizione di dominio deve essere considerato, principalmente,

«come l’aspetto strumentale di un processo che rappresenta sostanzialmente un mutamento strutturale. In questo senso gli avvicendamenti di personale non costituiscono in sé stessi dei mutamenti strutturali ma sono semplicemente una condizione perchè nuovi interessi divengano valori o realtà».

Si tenta poi di sviluppare anche sul piano empirico la relazione tra le dimensioni (radicalità-rapidità) del mutamento e le dimensioni (intensità-violenza) del conflitto. La rapidità del mutamento varia in modo direttamente proporzionale alla violenza del conflitto. Ciò comporta che l’esistenza dei meccanismi regolatori del conflitto dovrebbe portare ad un mutamento molto graduale, detto altrimenti alla stabilità della classe dirigente. Il conflitto incontrollato dovrebbe portare, invece, alla sostituzione totale del personale più importante e, in questo senso, ad un mutamento repentino.

Dahrendorf, in coerenza con la sua impostazione che privilegia come campo della fenomenologia conflittuale le istituzioni, tenta l’applicazione della sua teoria dapprima al conflitto industriale e poi al conflitto politico nel quadro di riferimento costantemente privilegiato nella società post-capitalistica ma non è possibile né conveniente seguirlo in questo excursus anche perché gli anni successivi hanno visto cicli differenziati di conflitto che hanno in buona parte confermato le sue prospettive analitiche ma, in parte, le hanno anche confutate. Sembra solo opportuno sottolineare che la sua visione limpidamente liberale della società lo porta ad affermare che libertà e totalitarismo dipendono dall’atteggiamento verso il problema del conflitto. L’aspirazione all’eliminazione del conflitto caratterizza l’ordinamento delle società totalitarie; all’opposto le società libere adottano una premessa, sociologicamente verificata, secondo la quale il conflitto sociale è ineliminabile. Anzi, una società libera è una società che

«riconosce l’apporto positivo e la funzione creativa della diversità, della differenziazione e del conflitto».

Infine, va ricordato che Dahrendorf è tornato più volte a riflettere sul conflitto, basti ricordare il saggio “Il conflitto oltre la classe: nuove prospettive sulla teoria del conflitto sociale e politico” (1967) e il libro Il conflitto sociale nella modernità (1988). Egli si era reso conto che alcune esperienze storiche cruciali non potevano essere adeguatamente interpretate alla luce della sua prima formulazione della teoria del conflitto di classe. Questa constatazione lo porta ad affermare che

«oggi il conflitto di classe non è altro che un caso più particolare di un fenomeno ancor più generale e questo significa che è necessario un nuovo punto di partenza nella teoria sociologica del conflitto politico e del mutamento sociale».

Il nostro tempo di europei del terzo millennio sembra essere caratterizzato dal disinteresse per la politica e dalla competizione interindividuale come tramite di autopromozione sociale; competizione individuale ed azione collettiva sono reciprocamente convertibili ed omogenea espressione della stessa forza sociale: la competizione (contest). Dahrendorf esplicita le implicazioni dello sviluppo del suo pensiero indicando un rapporto da contenente a contenuto fra competizione individuale e conflitto di classe:

«il conflitto di classe è quella forma di competizione che si rende necessaria nel caso in cui numerosissimi individui non possono realizzare i propri interessi con lo sforzo individuale».

D’altro canto se si considera che le strutture di autorità riducono le chance individuali di realizzazione personale degli interessi si può affermare che

«l’azione solidale è probabilmente destinata a rimanere uno dei veicoli della competizione perfino in una società aperta».

Lo spazio del conflitto di classe, dunque, c’è ancora e non è di poco respiro. Il conflitto di classe determina il tasso e forse la direzione del mutamento sociale;

«la trasformazione del conflitto di classe in competizione individuale starebbe ad indicare che il mutamento sociale si è fermato, che le istituzioni della società moderna (contrariamente alle apparenze dello sviluppo tecnologico) non sono più dinamiche e che noi viviamo in una società stagnante».

Questa preoccupazione lo porta a chiedersi se non sia il caso di riconsiderare gli ordinamenti costituzionali delle nostre società per mantenerle aperte e dinamiche anche quando gli antagonismi che le animano non assumono più solo la forma del conflitto di classe. La stessa problematica lo spingerà negli anni più vicini a concentrare la sua riflessione sui temi intrecciati della libertà e della eguaglianza, o meglio della cittadinanza, in un quadro societario sempre più vasto dove si confrontano i processi del localismo e della globalizzazione ma soprattutto la formazione di aggregati sovranazionali come l’ Unione Europea.

7. Randall Collins: conflitto e mutamento istituzionale

CollinsLa prospettiva conflittualista sviluppata da Collins si inserisce nell’alveo della  tradizione weberiana, riprendendone in chiave di interpretazione applicativa gran parte delle categorie di base. Nell’analisi di Collins il carattere specifico del conflitto viene ricondotto alla lotta per il controllo di risorse e beni scarsi, segnatamente a tre grandi classi di risorse: ricchezza, prestigio e potere. Collins sottolinea che la lotta per il controllo di queste risorse si svolge sempre secondo una dinamica che segue la logica del gioco a somma zero. In altri termini, la distribuzione di ricchezza, prestigio e potere in un ordinamento sociale è sempre ineguale, consentendo di discriminare tra coloro che dispongono e coloro che non  dispongono di questi beni. Il conflitto trae origine, secondo Collins, da questa differenziazione stratificata degli individui e dei gruppi, tuttavia, una condizione costante della fenomenologia del conflitto è la possibilità, sempre presente, di un ricorso alla coercizione, in generale, ed alla violenza,  in particolare.

Nello sviluppo della logica del conflitto gli attori sociali investono, com’è evidente, vari tipi di risorse. Secondo l’analisi di Collins possiamo individuare almeno tre tipi generali di risorse impegnate nel conflitto: a) le risorse materiali e tecniche, cioè i mezzi attraverso i quali si ottiene un aumento delle potenzialità di coercizione, dalle armi agli strumenti giuridici del diritto di proprietà, fino alla disponibilità di competenze specifiche; b) le risorse di status, che possiamo genericamente definire come le capacità di influenza diffusa, in senso culturale e simbolico, come accade per le élites intellettuali che presiedono all’ elaborazione di una visione del mondo socialmente condivisa; c) i network sociali costituiti dalle relazioni che si intrattengono con altre persone, e che in questo caso costituiscono una risorsa di possibilità di influenza diretta o indiretta.

Queste diverse condizioni di sviluppo del conflitto unitamente alla varietà delle risorse che possono essere impiegate nel conflitto dagli attori sociali definiscono una struttura multidimensionale della diseguaglianza che illumina, a sua volta, il carattere multifattoriale della genesi del conflitto. Collins, in ciò seguendo rigorosamente l’impostazione weberiana, mette in luce che, in una società complessa, caratterizzata da un’elevata pluralità di ruoli, le condizioni del conflitto si distribuiranno nello spazio sociale in maniera non polarizzata, delineando così le condizioni di una dispersione delle linee del conflitto. In tal modo il conflitto rivela la sua duplice natura per un verso di fenomeno sociale prodotto dalla lotta per il perseguimento di interessi di attori sociali prevalentemente collettivi ai danni di altri attori sociali, per l’altro verso di dinamica permanente nella vita collettiva in quanto costitutiva della logica del mutamento sociale, ed in quanto tale ineliminabile dalla vita degli ordinamenti sociali.

Collins ha indirizzato il proprio interesse di ricerca prevalentemente nell’analisi del conflitto come conseguenza e come fattore del mutamento sociale nella società statunitense del secondo dopoguerra.  Un aspetto di portata generale sul quale Collins si sofferma, e che concerne il mutamento sociale di tutte le società occidentali, è quello rappresentato dalla grande crescita del livello di istruzione nei decenni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. L’incremento del tasso di istruzione viene normalmente spiegato come una logica conseguenza dello sviluppo tecnico-industriale e burocratico che ha reso necessaria la formazione di una competenza diffusa per l’adeguato funzionamento dei settori di sviluppo economico e dei servizi. Collins ha sottolineato i caratteri di “chiusura sociale” – cioè di esclusione operata dai detentori di titoli di istruzione ai danni di coloro che non ne detengono – che la crescita dell’istruzione ha portato con sé. Infatti, tra le pieghe della pur evidente necessità di nuove competenze è possibile rilevare, che l’élite istruita utilizza il titolo di istruzione e, più in generale, uno stile di vita e un tratto collegati alla formazione culturale come criterio di occupazione in posizioni privilegiate sul mercato del lavoro e nella vita sociale. Collins ha osservato ,come spesso viene fatto anche da un buon padre di famiglia, che in molti casi

«l’istruzione non è associata alla produttività dei dipendenti, e i lavori sono appresi principalmente attraverso la pratica» (Collins 1979, 48)

piuttosto che a scuola. In realtà il dato che conta in termini sociali ed in termini politici è che l’istruzione delimita i confini di un nuovo ceto costituito dallo strato professionale-direttivo delle classi medio-alte, l’accesso al quale viene regolato più attraverso i criteri dell’omogeneità culturale che attraverso la reale disposizione di competenze. Si tratta di una dinamica che ha caratterizzato la fase dello sviluppo della società di massa anche nelle società europee, principalmente nei tre decenni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. Le trasformazioni occorse nelle società occidentali a partire dagli anni Ottanta hanno non eliminato, ma piuttosto ridefinito i tratti di questo uso conflittualista dell’istruzione.

La chiave di lettura impiegata da Collins nell’analisi dei conflitti lo ha condotto anche ad interessarsi della fenomenologia del conflitto nelle grandi organizzazioni e nelle istituzioni, evidenziando in particolare i processi di regolazione dei conflitti attraverso la formazione di preferenze e motivazioni individuali, da un lato e dinamiche di legittimazione dell’autorità, dall’altro. Tra le diverse modalità di controllo dei conflitti nelle istituzioni Collins individua tre principi generali e cioè rispettivamente: la coercizione, le ricompense materiali e la legittimazione dei ruoli e delle norme. Ciascuno di questi criteri è caratteristico di distinte condizioni sociali, anche se in molti casi, soprattutto nelle società occidentali, è assai comune che questi tre criteri si trovino mescolati. L’interesse di Collins per le conseguenze di queste forme di controllo sociale lo spinge a sottolineare che la pratica della coercizione produce facilmente un atteggiamento alienato nei subalterni. Le ricompense materiali costituiscono un fattore di motivazione senza dubbio più efficace e meno alienante, tuttavia i conflitti che sorgono intorno a questo criterio, rappresentano – specialmente nelle grandi organizzazioni lavorative – un elemento di ostacolo allo sviluppo delle attività, in quanto riducono le motivazioni individuali esclusivamente alla retribuzione materiale.

La terza dimensione individuata, quella relativa alla legittimazione  dei ruoli e delle norme costituisce senza dubbio il punto di maggior interesse di Collins, anche in questo in linea con l’impostazione weberiana. Un’osservazione importante, sempre  a questo proposito, concerne il rapporto tra identificazione nelle istituzioni/organizzazioni e legittimazione: Collins osserva che il principio democratico dell’estensione dell’autorità ad un più ampio numero di ruoli non solo può produrre una maggiore responsabilizzazione o partecipazione attiva degli individui agli interessi generali dell’organizzazione, ma favorisce anche l’identificazione dei detentori di ruoli con gli obiettivi propri dell’istituzione/organizzazione; in tal modo i membri tenderanno a riconoscere con maggiore facilità l’autorità dei superiori, riducendo le condizioni del conflitto. Nella lotta per il controllo di porzioni sempre maggiori di ricchezza, prestigio e potere, anche nelle organizzazioni la segmentazione del potere se per un verso riduce l’autoritarismo tipico delle strutture centralizzate per l’altro verso può condurre alla proliferazione di strati intermedi di autorità che, come accade spesso nelle organizzazioni burocratiche, sono orientati soprattutto alla massimizzazione del controllo della propria sfera di potere, cercando di «trasformare le situazioni in cui [il detentore di un ruolo intermedio] riceve ordini in altrettanti ordini che passa ad altri» (Collins 1975, trad. it. 1980, 73). L’effetto complessivo diviene allora quello di un irrigidimento interno alle organizzazioni che può anche agire come fattore di isolamento dell’organizzazione dall’ambiente sociale esterno.

In conclusione, il lavoro di Collins sul conflitto ha per lo meno il merito di mostrare l’efficacia interpretativa delle classiche categorie weberiane, adattandole alla fase di sviluppo delle società occidentali nell’età della Guerra Fredda. Un aspetto originale del suo contributo alla sociologia conflittualista è infine quello di aver sottolineato, nel quadro dell’analisi istituzionale e organizzativa della fenomenologia del conflitto, l’importanza delle motivazioni individuali e anche di carattere simbolico e identificativo a fronte degli scopi funzionali e strumentali tipici dell’analisi funzionalista della sociologia americana degli anni Cinquanta-Sessanta.

8. Conflitto e comunicazione nella sociologia di Niklas Luhmann

Niklas LuhmannAnche in un contesto teorico altamente differenziato e frastagliato com’è quello della sociologia contemporanea, la prospettiva attraverso la quale la teoria sociologica elaborata da Niklas Luhmann descrive i processi di costituzione e di trasformazione delle dinamiche sociali rappresenta sicuramente un caso peculiare. Tra i motivi per i quali la teoria sistemica di Luhmann può essere considerata un contributo innovativo di rilievo vi è la sua particolare collocazione rispetto alla tradizionale articolazione delle teorie sociologiche sulla base della dicotomia integrazionismo/conflittualismo. Come si è visto supra, la contrapposizione tra teorie che interpretavano le dinamiche sociali come dinamiche conflittuali e teorie, invece, costitutivamente orientate a privilegiare la riflessione sugli aspetti legati all’ordine e ai processi integrativi, ha rappresentato uno dei fuochi del dibattito sociologico internazionale sviluppatosi a cavallo dei decenni Sessanta e Settanta.

In questo contesto sono andati delineandosi, a partire dagli anni Sessanta, sia la polarizzazione tra sociologia di derivazione marxiana e funzionalismo parsonsiano, come pure la ripresa dell’interesse per la sociologia weberiana, nella quale potevano essere individuati temi e argomenti utili tanto per una lettura costruttivamente critica della sociologia marxista, quanto per una migliore comprensione della teoria sistemica parsonsiana. Da questo punto di vista, il pensiero di Luhmann si caratterizza come un superamento non solo della alternativa Parsons/Marx, ma anche della “terza via” rappresentata dalla sociologia weberiana. Uno dei concetti portanti dell’impianto teorico luhmanniano, il concetto di sistema, viene impiegato in una accezione che può ben essere detta post-parsonsiana in quanto, diversamente da Parsons, Luhmann non pone in primo piano la struttura come elemento statico e sincronico, ma attribuisce un ruolo centrale al carattere processuale e diacronico della funzione.

Allo stesso tempo la teoria funzional-strutturalista può ben essere definita post-marxiana in quanto interpreta la dinamica conflittuale presente nella società non come struttura permanente sfociante in un esito predeterminato, ma come dinamica probabilistica, prodotta dall’aggregazione nella realtà sociale di condizioni contingenti e nel loro insieme improbabili. Infine, la teoria dei sistemi formulata da Luhmann denota un carattere post-weberiano principalmente perché esamina i sistemi sociali secondo una prospettiva desoggettivizzata, alla quale è completamente estraneo il concetto di attore sociale inteso come centro intenzionale e motivazionale dell’agire sociale.

Ciò che consente al sociologo tedesco di compiere un passo così innovativo nella produzione della teoria è reso possibile dall’impiego di modelli di pensiero derivati dalle scienze cibernetiche. Con la teoria luhmanniana l’influenza della rivoluzione informatica sulla sociologia non si limita allo sviluppo di nuove tecniche di elaborazione e di trattamento dei dati, o all’apertura di nuovi ambiti di ricerca relativi allo studio dell’impatto dell’informatizzazione nei diversi settori della vita sociale. Luhmann assume dalla cibernetica un modello metaforico con il quale pensare le dinamiche sociali in modo diverso dai modelli della macchina e dell’organismo caratteristici della teoria sociologica classica. Questa diversa ascendenza rende i concetti e i termini della sociologia luhmanniana particolarmente complessi e di non immediata comprensione; per questa ragione è forse utile introdurne brevemente alcuni dei più significativi ai quali sarà poi necessario fare riferimento per una appropriata discussione delle dinamiche del conflitto.

Luhmann sviluppa la sua teoria della società a partire dal carattere autopoietico dei sistemi. Il concetto di autopoiesi è stato introdotto originariamente nelle scienze biologiche con il tentativo di dare una definizione dell’organizzazione degli organismi viventi. In senso generale, per autopoiesi si intende la capacità di produrre e riprodurre da parte del sistema stesso – e non di processi esterni – gli elementi che lo costituiscono. Dal punto di vista biologico ogni cellula è intesa come il prodotto di un reticolo di operazioni interne al sistema di cui essa è un elemento; in questo senso le operazioni che conducono alla produzione di nuovi elementi di un sistema dipendono da precedenti operazioni del medesimo sistema e costituiscono il presupposto per operazioni successive. Il sistema si connota quindi come “operativamente chiuso”, ovvero autopoietico. Nella teoria sistemica della società il concetto di autopoiesi è, comunque, impiegato in modo originale. Luhmann individua due livelli di costituzione di sistemi autopoietici, ciascuno dei quali è caratterizzato da specifiche operazioni: i sistemi sociali e i sistemi psichici. Le operazioni di un sistema sociale sono sempre comunicazioni, mentre quelle dei sistemi psichici – che nella teoria luhmanniana sostituiscono il concetto di individuo – sono i pensieri. Ciascuno di questi due sistemi riproduce in una connessione ricorsiva le proprie operazioni: è questa connessione che costituisce l’unità del sistema, che ignora completamente le connessioni che avvengono nell’altro sistema.

Un sistema sociale può presentare al proprio interno ulteriori sistemi autopoietici, differenziando ciascuno di essi attraverso uno specifico modo di comunicazione; la formazione di questi sottosistemi sociali è il risultato di un processo di differenziazione funzionale. Nella società moderna, ad esempio, il sistema della scienza comprende soltanto comunicazioni orientate al codice verità/falsità, le quali sono il prodotto e il presupposto di altre comunicazioni orientate allo stesso codice. Al di fuori di questo sistema e di questo codice, in nessun altro sistema sociale è possibile realizzare una comunicazione scientifica. Il carattere autopoietico dei sistemi deve essere distinto dall’autoreferenza del sistema. Mentre quest’ultima si limita alla capacità di costituire e modificare autonomamente le strutture, con l’autopoiesi il sistema opera autonomamente anche nella costituzione dei propri elementi e processi, generando al suo interno tutto ciò che compare e che costituisce il sistema.

Il carattere autopoietico dei sistemi comporta una significativa trasformazione anche del rapporto tra sistema e ambiente. Le operazioni del sistema si riferiscono solo ad altre operazioni del medesimo sistema e solo indirettamente all’ambiente. In altri termini, le comunicazioni si riferiscono sempre e solo ad altre comunicazioni e rendono possibili solo nuove comunicazioni, non si riferiscono mai direttamente alla realtà esterna. La realtà esterna , che nel linguaggio luhmanniano è definita “mondo”, è in sé inaccessibile e viene trattata solo in quanto vi è comunicazione su di essa, e dunque soltanto nelle forme proprie del sistema. Anche gli interessi e le motivazioni degli individui che partecipano alla comunicazione non intervengono direttamente nella comunicazione, ma – come vedremo a proposito del conflitto – compaiono soltanto come tema di comunicazione. Il rapporto tra sistema e ambiente è sostanzialmente ignorato dalle operazioni del sistema, ma diventa significativo come distinzione operata da un punto di vista esterno al sistema, cioè da un osservatore che mette in relazione i processi interni con un ambito esterno.

Dalla sua prospettiva, l’osservatore definisce il sistema esclusivamente nella sua relazione con l’ambiente, cioè tracciando un confine che distingua tra un sistema e il suo ambiente. La costituzione di un confine non comporta un isolamento del sistema; tra questo e l’ambiente vi sono sempre forme di interdipendenza. Ogni sistema necessita di una serie di condizioni ambientali: per un sistema sociale, ad esempio, sono necessari dei sistemi psichici – che sono “ambiente” per il sistema sociale – oltre a condizioni fisiche che rendano possibile lo svolgersi della comunicazione. Un medesimo evento può appartenere nello stesso tempo al sistema e al suo ambiente: può essere comunicazione per il sistema sociale e pensiero per il sistema psichico, in questo caso sarà soltanto il punto di vista dell’osservatore (sociologico o psicologico) a definire quale dei due è ambiente e quale sistema. Questo ci mostra un aspetto importante che distingue nettamente la teoria luhmanniana dalla tradizione struttural-funzionalista parsonsiana: il punto di partenza non è né la definizione del sistema, né la definizione dell’ambiente, ma, precisamente, la loro differenza, per la quale entrambe le parti sono imprenscindibili e, allo stesso tempo, non sono definibili una volta per tutte come ambiente o come sistema. L’ambiente deriva la propria unità solo in relazione al sistema.

L’ambiente non è delimitato da confini che possono essere oltrepassati, ma solo da orizzonti che si espandono con la crescita della complessità del sistema e per questo non vengono mai oltrepassati. L’ambiente è costituito in modo residuale dalle operazioni di un sistema; rientra in esso, cioè, tutto ciò che non appartiene al sistema, in particolare, la capacità di agire e di riflettere su se stesso, propria dei sistemi, è estranea all’ ambiente. Il rapporto che si delinea tra sistema e ambiente è caratterizzato dalle continue selezioni che il sistema deve operare nella sua differenziazione dall’ambiente: quest’ultimo presenta una quantità sempre maggiore di possibilità rispetto a quante il sistema è in grado di attualizzare. Può, infine, verificarsi un processo di differenziazione sistemica che dà origine ad ulteriori differenze del tipo sistema/ambiente: «Il sistema complessivo acquisisce la funzione di “ambiente interno” rispetto ai sotto-sistemi, funzione che assume in modo specifico per ognuno dei sotto-sistemi interessati. La differenza sistema-ambiente viene quindi replicata, il sistema complessivo moltiplica se stesso quale pluralità di differenze interne tra sistema e ambiente» (Luhmann 1990, 88).

L’autopoiesi dei sistemi non è data una volta per tutte, ma è caratterizzata dalla temporalità. Le comunicazioni, come anche i pensieri, non sono stati che durano, ma sono eventi che hanno la consistenza temporale di un punto. L’autopoiesi è quindi costretta a riprodurre continuamente gli elementi che, appena attualizzati, scompaiono. La precarietà temporale delle connessioni che il sistema stabilisce introduce una dimensione ulteriore nello sviluppo della complessità del sistema: la varietà di stati che il sistema può raggiungere non dipende allora solo dalle relazioni tra gli elementi che lo costituiscono, ma anche dalla diversa configurazione di questi stati nella successione temporale. Le relazioni tra gli elementi possono infatti cambiare di momento in momento, consentendo al sistema -nel momento successivo- di sviluppare nuovi collegamenti tra gli elementi, sulla base delle condizioni ambientali che si presentano. In altre parole, ciascuna persona può iniziare una comunicazione o esserne il destinatario, ma non appena la comunicazione è avvenuta è anche già scomparsa, e con essa si è sciolta anche la connessione tra un evento del sistema psichico e un evento del sistema sociale.

Nel momento successivo si può iniziare una nuova comunicazione oppure ci si può ritirare. La coincidenza tra operazioni del sistema sociale (comunicazione) e operazioni del sistema psichico (pensiero) è ridotta ad un evento che si caratterizza per due diverse selettività, legate ai due diversi sistemi. La selezione operata dai sistemi è naturalmente connotata in modo contingente. Il concetto di contingenza indica la posizione di un dato rispetto alle possibili alternative, in altri termini indica che ciò che è realizzato, in quanto esistente non è impossibile, ma in quanto possibile anche diversamente non è necessario. Secondo la contingenza, ciò che è può essere diversamente; questo significa la possibilità per un sistema di selezioni diverse dalle aspettative selezionate da un altro sistema. Nella vita sociale la contingenza si manifesta come doppia contingenza: vi è una relazione tra due sistemi, ognuno di essi determina le proprie operazioni in modo autoreferenziale, operando esclusivamente all’interno dei propri confini. Ogni sistema, come una sorta di black box, è totalmente estraneo all’altro in quanto i criteri selettivi che esso impiega per operare non possono essere osservati dall’altro sistema, il quale fa esperienza del primo sistema solo attraverso le selezioni che questo produce. Di fatto, ciascun sistema si pone in relazione con l’altro da una prospettiva di osservatore; da questo punto di vista la doppia contingenza costituisce un problema basilare per l’ordine sociale: pone infatti il problema del coordinamento delle selezioni, imprevedibili e comunque contingenti, di un Ego e di un Alter. Dalla doppia contingenza emerge un ordine condizionato dalla complessità dei sistemi che lo rendono possibile: questo ordine nasce dalle reciproche osservazioni e dalle informazioni che esse creano. Si costituisce così un sistema sociale che si riproduce autopoieticamente, coordinando le selezioni contingenti di Ego e di Alter.

Un caso particolare di doppia contingenza è quello che si verifica quando nei sistemi sociali viene comunicato il rifiuto di una comunicazione precedente. In questo caso, che Luhmann chiama “contraddizione”, per il sistema sociale si pone il problema di reagire alla situazione di insicurezza che la contraddizione comporta: ci si trova infatti di fronte da un lato ad un’offerta comunicativa e dall’altro ad una comunicazione del rifiuto, ovvero in una situazione contraddittoria, che non può essere trattata in riferimento alle strutture di aspettative del sistema sociale. In altri termini, quando Ego comunica ad Alter le sue aspettative, la situazione è aperta alla possibilità che Alter possa rifiutare le aspettative di Ego; inoltre, il carattere di doppia contingenza peculiare alle relazioni sociali fa sì che di fronte alla negazione e al rifiuto di Alter sia sempre possibile che Ego rifiuti il rifiuto delle sue aspettative. Tuttavia, non si possono mantenere contemporaneamente direzioni di aspettative che sono in contraddizione, pena il rischio della dissoluzione delle strutture di aspettative stesse e dunque della relazione sociale. Le possibilità per i sistemi di continuare ad operare e di consentire nuovamente capacità di collegamento possono essere assicurate solo dalla contraddizione stessa, in base alla quale si costituisce un sistema sociale di tipo particolare: il conflitto.

«Parleremo di conflitti – scrive Luhmann – ogni volta che una comunicazione viene contraddetta o, si potrebbe anche formulare, ogni volta che una contraddizione viene comunicata. (…) Perché ci sia conflitto, devono dunque verificarsi due comunicazioni che si contraddicono a vicenda. (…) Il conflitto si prende carico, per un certo periodo, dell’autopoiesi, cioè della prosecuzione della comunicazione» (Luhmann 1990, 596).

Poiché il conflitto viene inteso da Luhmann come uno dei possibili eventi della comunicazione, si deve abbandonare innanzitutto l’idea in base alla quale i conflitti segnino un fallimento della comunicazione. Innanzitutto bisogna considerare che se il conflitto è comunicazione di un rifiuto, è evidente che in quanto comunicazione non implica di per sé la fine della relazione, ma configura una particolare forma della relazione sociale. La comunicazione di un rifiuto comporta in ogni caso la conferma di un codice comunicativo comune. Nella teoria funzional-strutturalista non si parla di conflitti come di fenomeni che interrompono l’integrazione; al contrario, la comunicazione è intesa come un processo autopoietico dei sistemi sociali che prosegue superando tutti gli episodi che la caratterizzano, indipendentemente dal loro carattere cooperativo o antagonistico. Di conseguenza, i conflitti sono intesi da Luhmann come un particolare sistema sociale che permette di proseguire la comunicazione sfruttando la possibilità del ricorso al “no”. I conflitti non arrivano ad assumere lo status di sottosistemi; tuttavia, in quanto realizzazione in negativo della doppia contingenza si caratterizzano per una doppia negazione che si sviluppa quando Ego considera ciò che nuoce ad Alter come un beneficio per sé, proprio perché ritiene che Alter reputi ciò che nuoce ad Ego come un suo beneficio. Lo stesso si può dire per le selezioni operate da Alter. In quanto versione in negativo della doppia contingenza, i conflitti sono sistemi sociali altamente integrati che si caratterizzano per una particolare «forma parassitaria» : mostrano infatti, la tendenza a subordinare ogni azione al punto di vista della contrapposizione. Quindi, la contrapposizione può essere intesa come fattore di integrazione particolarmente efficace, dal momento che possono essere subordinate alla dinamica della doppia contingenza negativa azioni dal contenuto anche estremamente eterogeneo.

9. Niklas Luhmann: conflitto e complessità

Una conseguenza importante di questa prospettiva è il capovolgimento di un’ impostazione che caratterizza buona parte del pensiero sociologico classico sul conflitto: il conflitto non è una manifestazione di una condizione di perdita di efficacia da parte delle forme dell’integrazione, al contrario:

«il problema del conflitto è l’integrazione troppo forte dei sistemi parziali, i quali devono mobilitare sempre più risorse per il disaccordo e devono sottrarle ad altre disponibilità» (Luhmann-De Giorgi 1992, 253).

Nella teoria classica l’incremento del numero e dell’intensità dei conflitti è posto direttamente in relazione con lo sviluppo della società moderna intesa come società eterogenea che si sostituisce ad una società omogenea. In questa prospettiva l’incremento della complessità viene durkheimianamente posto in relazione con la necessità di un principio normativo che garantisca l’equilibrio tra complessità e integrazione. Radicalmente diversa è la conclusione cui giunge Luhmann: l’alta conflittualità presente nelle società complesse non è da porre in relazione con tendenze disgregative, bensì con l’eccesso di integrazione tra i sistemi parziali che rende difficile l’isolamento o comunque il controllo dei conflitti che esplodono all’interno di ciascun sistema. Il conflitto mostra, allora, anche un versante distruttivo principalmente nel rapporto che stabilisce con il sistema all’interno del quale ha origine. Ogni elemento dell’attività di quel sistema tende ad essere inglobato nella dinamica conflittuale, fino ad arrivare alla situazione-limite in cui tutte le risorse e tutta l’attenzione sono assorbite dal conflitto; in questo senso Luhmann parla di «forma parassitaria del conflitto». Si pone, così, il problema del controllo sociale dei conflitti, in merito al quale nelle società complesse gli strumenti si riducono – secondo Luhmann – al diritto e alle regole della «buona condotta».

I conflitti costituiscono un caso esemplare per l’analisi delle difficoltà dovute ad un livello eccessivamente elevato di interdipendenze sistemiche. Quando i sistemi sono altamente interdipendenti riducono ogni interesse verso il proprio ambiente perché il loro impiego di materiali e informazioni nell’operare selezioni è precondizionato dalle relazioni di interdipendenza; inoltre, per poter garantire al livello strutturale la totale interconnessione, in modo che ogni avvenimento possa riguardare tutti gli altri, i sistemi devono consentire un’elevata elasticità ad eventi o azioni che si verificano al loro interno. Questo significa che i sistemi dei conflitti mostrano due importanti caratteristiche: sul piano della struttura tendono ad una drastica riduzione dei sistemi coinvolti a due avversari o, almeno, a due schieramenti; sul piano dell’azione si osserva un’apertura nei confronti di gran parte delle possibilità che consentano di nuocere all’avversario o di imporre decisioni, senza contrastare eccessivamente gli interessi dei singoli.

Delineato il profilo del fenomeno del conflitto, la teoria sistemica non si occupa della “soluzione” dei conflitti, ma soprattutto delle possibilità di condizionarli. L’avvio di conflitti è infatti legato alle probabilità che il conflitto si riproduca; è chiaro che non si apre un conflitto – ovvero non si dirà un “no” ad una comunicazione – se si prevede di non riuscire a sostenerne le conseguenze. In questo senso, allora, la vera chiave di volta divengono le condizioni che consentono la riproduzione dei conflitti e il loro consolidamento come sistema. A questo proposito Luhmann parla della possibilità di costituire un “sistema immunitario” attraverso il quale il sistema della società tenta di isolare o comunque di depotenziare i conflitti. Se intende riprodurre il proprio sistema immunitario, una società deve poter offrire un numero sufficiente di occasioni conflittuali non ancora sfruttate. Considerando i conflitti come sistemi Luhmann indica due diverse forme di condizionamento, rispettivamente derivate da una reinterpretazione in chiave sistemica delle indicazioni di Weber e di Simmel: la limitazione dei mezzi e l’incremento dell’insicurezza. Un caso classico della prima forma di condizionamento è il divieto di ricorrere alla violenza fisica. Dal punto di vista sistemico tale divieto non solo evita il verificarsi di danni irreparabili, come la morte di uno dei confligenti, ma soprattutto espleta la funzione di rendere più complessi e raffinati i sistemi di conflitto, con l’effetto di favorirne la perpetuazione. E’ evidente che quando è consentito l’uso della violenza fisica – come nelle relazioni sociali illegali – i conflitti vengono aperti solo sotto forti pressioni e tendono ad essere di breve durata. Quando, invece, tali possibilità vengono represse si ha un corrispondente incremento della libertà di passare a comportamenti conflittuali. Il condizionamento dei conflitti agisce anche nella scelta dell’avversario. Tale selezione è in una stretta relazione con le strutture di stratificazione e di organizzazione dei sistemi sociali nei quali si aprono conflitti. Il condizionamento delle possibilità del conflitto è reso possibile soprattutto dalla gerarchia, che in questo senso sostituisce la violenza fisica:

«solo chi sta in alto osa rifiutare, è libero di dire di no, perché il suo ‘no’ non è seguito da un conflitto» ( Luhmann 1990, 604 ).

L’altra forma di condizionamento, l’incremento dell’insicurezza, agisce nel senso di favorire una dis-integrazione del conflitto introducendo un terzo nella relazione diadica, il quale inizialmente è imparziale, ma in seguito può decidere di favorire uno dei due confligenti. Il passaggio dalla diade alla triade comporta la formazione di nuove possibilità di carattere non conflittuale che spingono alla ricerca del consenso del tertium datur, la presenza del quale può perfino favorire un depotenziamento del conflitto tale da rendere accettabile per uno dei confligenti il cedere o ritirarsi dal conflitto senza che questa chance venga percepita come un atto di resa nei confronti dell’altro. Entrambi questi condizionamenti agiscono nel senso di abbassare la soglia dei conflitti, ma anche – una volta che il conflitto è comunque aperto – permettono la coesistenza di un alto numero di contraddizioni all’interno del sistema della società, le quali, in accordo con la crescente complessità della società, devono poter essere comunicabili tra i diversi sistemi senza che questi ne vengano danneggiati o distrutti.

Nella gran parte dei casi, il rifiuto della comunicazione costituisce un avvenimento irrilevante per la totalità del sistema: i conflitti sono sistemi spesso minimi che sorgono e si dissolvono restando al livello dell’interazione, senza produrre effetti o conseguenze di vasta portata anche se si tratta di eventi biograficamente rilevanti (come il rifiuto di una relazione amorosa o l’infruttuosa ricerca di un lavoro). Anche la grande parte di conflitti rimane ad un livello tale da non acquisire significatività per il sistema sociale, questo comporta la produzione di una ridondanza di negazioni che consente la possibilità di selezionare conflitti che acquistano rilevanza per il sistema della società nel suo complesso. E’ il sistema immunitario che produce una selezione dei conflitti socialmente significativi: la teoria deve allora individuare i criteri tramite i quali si svolge la selezione di ciò che assume importanza per il sistema della società. Luhmann osserva che le forme della selezione dei conflitti variano con il variare della struttura sociale e delle forme della stratificazione. In linea di massima si può dire che il diritto è da moltissimo tempo lo strumento principale per selezionare i conflitti che è opportuno rischiare, consentendo, in particolare, il rafforzamento di posizioni di vantaggio di tipo economico e politico. Nelle società stratificate sia chi detiene proprietà che those in authority sono in una posizione che consente loro di rifiutare le imposizioni e di scegliere il conflitto. Non solo, chi detiene il potere conflittuale gode di un valore aggiuntivo in termini di proprietà e di potere, perché il credito di cui dispone e il potere deterrente connessi alla sua posizione gli permettono di ottenere più di quanto il possesso di proprietà o la disponibilità di sanzioni negative gli consentirebbero direttamente.

E’ da notare che l’elemento caratteristico di questo modello è la scarsa differenziazione tra i diversi sistemi sociali dell’economia, della politica, del diritto, del linguaggio e della morale; assai diverso è il profilo dei meccanismi di controllo dei conflitti nella società funzionalmente differenziata. In questa l’individuo viene tutelato individualmente nel suo potere conflittuale. Carattere specifico di questa situazione è la separazione, almeno parziale, delle modalità di regolazione delle disposizioni individuali al conflitto dalla struttura della società. Nella regolazione operata dal diritto ciò che appare “naturale” viene sostituito con l’idea di libertà e con la semantica ad essa connessa. In quanto sistema immunitario della società, il diritto può essere inteso come anticipazione di possibili conflitti. Dalla quantità delle aspettative che si formano quotidianamente, la prospettiva del conflitto seleziona quelle si possono rivelare come maggiormente efficaci, assumendo come criterio normativo la distinzione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Diventa possibile, così, prevedere l’esperienza di conflitti in modo tale da ridurre il loro verificarsi a livello dell’interazione. Nella società moderna, lo sviluppo dei diritti come garanzie di soluzione preventiva di conflitti lungi dal ridurli, ne comporta invece un enorme ampliamento delle possibilità, dal momento che la richiesta del riconoscimento di diritti diviene essa stessa una delle maggiori cause di conflitto. In quanto sistema immunitario il diritto non serve ad evitare i conflitti, cerca soltanto di evitare l’attuarsi violento dei conflitti, fornendo ad ogni conflitto forme di comunicazione appropriate. E’ così che il conflitto può divenire un evento della riproduzione della società.

Luhmann osserva che nei sistemi ipercomplessi lo sviluppo di ulteriore complessità procede in modo parzialmente svincolato dall’esistenza di strutture fisse di aspettative, pertanto vi è un incremento di selezioni devianti e/o innovative rispetto alle società stratificate. Lo sviluppo della complessità agisce infatti sui sistemi sociali soprattutto in tre direzioni: a) allentamento dei legami interni tra sistemi interpenetranti, cioè riduzione dell’intensità dei legami tra sistemi psichici e sistemi sociali; ne deriva la necessità di una b) specificazione dei contributi per i quali si fa appello all’interpenetrazione. Queste due trasformazioni, combinandosi, producono una c) progressiva cumulazione di effetti, inizialmente prodotti in modo casuale, ma successivamente tendenti a rafforzarsi. L’allentamento dei legami di interpenetrazione non significa naturalmente che gli uomini diventino indipendenti dalle condizioni sociali della loro vita; accade piuttosto il contrario: «la conduzione della loro vita, tuttavia, risulta meno vincolata da tipizzazioni che impegnano interiormente. I legami che vengono stretti possono essere scelti più o meno autonomamente e questa loro origine non viene dimenticata» (Luhmann 1990, 608). Si viene a costituire così un individuo che, essendo più partecipe del proprio adattamento sociale, tende sia ad impegnarsi in modo più consapevole, ma allo stesso tempo è più facilmente sottoposto a stress ed è più pronto ad isolarsi.

La transizione dal predominio degli status ascritti a quello degli status acquisiti nel momento in cui comporta l’incremento della complessità sistemica, produce circostanze favorevoli ad una più accentuata specificazione dei singoli contributi introdotti da ciascun individuo nella comunicazione. Tuttavia, i legami di tipo naturale sono connessi a dei bisogni, come la necessità di identificazione, che non possono essere unicamente sostituiti da necessità prescelte e specifiche, ma richiedono dei sostituti capaci di coinvolgere gli individui in modo più pervadente: è in questa linea di sviluppo che acquista rilievo la cumulazione degli effetti. Si tratta di cambiamenti repentini di umore, di mutamenti nella sfera delle mentalità collettive che possono produrre azioni e movimenti sociali. Carattere saliente di queste manifestazioni è la loro erraticità e temporaneità, che sembrano stare in tensione con la sensazione di necessità e di verità che accompagna i fenomeni connessi alla cumulazione degli effetti, come i movimenti sociali. La temporaneità di tali fenomeni, quando confrontata con la durata della vita di ciascun individuo, appare paradossalmente evanescente rispetto alla sua capacità di conferire identificazione e certezze. Ormai,

«gli individui vivono più a lungo di quanto duri ciò che, di volta in volta, li convince»,

ma continuano ad identificarsi, sebbene appaia inevitabile constatare che ad un certo punto il consenso su certi temi si disperde e non stimola più azioni e movimenti. Questa dinamica mostra il carattere intrinsecamente “sociale” dei movimenti sociali, cioè il fatto che non è il tema a generare il movimento, ma è il movimento che, costituitosi come prodotto temporaneo della cumulazione degli effetti costruisce socialmente la sua issue. I movimenti di protesta non possono essere compresi né come sistemi di organizzazioni, né come sistemi di interazioni. Non organizzano decisioni, ma vincoli, commitments da un lato, infatti,

«cercano di portare nel sistema proprio ciò che una organizzazione deve presupporre e il più delle volte deve pagare: motivazione all’adesione come membri dell’organizzazione. (…) Se si volessero intendere i movimenti di protesta come organizzazioni si troverebbero solo caratteri deficitari: eterarchici, non gerarchici, policentrici, a forma di rete e, in particolare, privi di controllo sul processo della loro stessa trasformazione» ( Luhmann-De Giorgi 1992, 336);

dall’altro lato è evidente che i movimenti di protesta non possono essere semplicemente interpretati come sistemi di interazione, perché l’interazione è solo lo strumento con il quale testimoniare il vincolo.

La selezione di un obiettivo è parte integrante dell’autopoiesi del movimento, il movimento acquista una direzione definita ed un orientamento possibile, selezionando allo stesso tempo quali operazioni sistemiche possono connettersi e quali invece devono essere respinte, così da delineare una «linea di azione». Un momento importante dell’autocostituzione dei movimenti sociali è la descrizione che danno di sé e in base alla quale acquistano unità gli eventi passati consolidando l’identità prodotta dal sistema. Luhmann sottolinea che nella selezione dell’obiettivo i movimenti osservano la società moderna in base alle sue conseguenze. Il movimento operaio assumeva come tema le conseguenze dell’industrializzazione ed elaborò una descrizione della società che corrispondeva alla sua protesta e concorreva persino a spiegarla. L’incremento della complessità ci impedisce di mantenere oggi questa semplificazione, né in quanto monopolio della protesta, né tanto meno, come descrizione della società. In generale si può dire che la società, in quanto funzionalmente differenziata, è per i movimenti di protesta il tema di sfondo nel quale selezionare tutti i temi. Non a caso, la condizione minima perché‚ il movimento si avvii è che la società non abbia, fino a quel momento, osservato il tema:

« solo l’autopoiesi del movimento sociale costruisce il tema, trova la relativa pre-istoria al fine di non dover apparire come ciò che ha inventato il problema e produce così una controversia che per l’altra parte, nella routine quotidiana, inizialmente non è affatto una controversia » (Luhmann-De Giorgi 1992, 338).

Attraverso la produzione di un fenomeno tipicamente moderno quale è quello dei movimenti sociali, la società funzionalmente differenziata dà forma ad un sistema autopoietico peculiare con il quale osservare se stessa dal proprio interno e contro se stessa; in tal modo essa reagisce alla propria opacità e alla elevata dipendenza di tutti i processi dalla decisione su cosa definire giusto per l’intera società, in mancanza di un’autorità che possa determinarlo e di una struttura sociale che la sostenga.

In questa linea uno dei contributi più significativi della teoria luhmanniana all’analisi sociologica del conflitto sembra consistere proprio nell’intendere la conflittualità come possibilità della comunicazione; da questa scelta consegue una fondazione della conflittualità «nella stessa definizione dell’identità di Ego e di Alter». L’aver assunto la dimensione simbolico-comunicativa nella definizione di Ego e di Alter permette infatti di sottoporre all’analisi della teoria tanto gli aspetti simbolici dei conflitti intorno a beni materiali, quali quelli economici, politici, di lavoro e così via, quanto quel tipo di conflitto sociale la cui crescente rilevanza nella società contemporanea sembra proprio confermare la capacità esplicativa della teoria luhmanniana: il conflitto per l’affermazione dell’identità. Abbiamo visto come Luhmann ponga al centro dei processi di autocostituzione dei movimenti sociali il bisogno di identificazione e il conseguimento di un legame che offra senso di appartenenza e come entrambi questi aspetti siano a loro volta la conseguenza dell’incremento della complessità in società già altamente differenziate.

La trasformazione dei caratteri del conflitto è dunque da porre in relazione con le progressive differenziazioni connesse all’incremento della complessità sociale: la significatività sociale dei conflitti si fa simbolica perché la differenziazione allontana progressivamente la società dalla forma dell’interazione, generando in modo autopoietico i problemi socialmente significativi di cui poi doversi occupare. Ciò significa che il conflitto riveste un posto di particolare importanza in quanto costituisce una dimensione intrinseca al sistema stesso e alla sua gestione funzionale. Come i sistemi biologici hanno il loro apparato immunitario, così il sistema sociale ha il proprio nelle forme del condizionamento dei conflitti. In questo senso l’aprirsi di un conflitto rappresenta per il sistema sociale una sorta di “preavviso”, di affermazione di possibilità di negazione che distruggono per un istante

« la pretesa globale del sistema di essere complessità già ridotta ed ordinata» (Luhmann 1990, 578)

e che comportano il loro condizionamento. La società funzionalmente differenziata riesce, quindi, a trasformare i “no” alle sue comunicazioni in un mezzo per la propria riproduzione autopoietica; ciò consente il controllo e il superamento di un numero di conflitti molto più elevato di quanto non potesse accadere in società stratificate o segmentarie. Ora, se è vero che il conflitto debba essere inteso come un evento necessario ai processi riproduttivi della società, perché un sistema senza conflitto è entropico, non si può però pensare di fare a meno dei “ sì ” alla società.

10. I nuovi conflitti sociali

TouraineAlain Touraine, alla pari di Dahrendorf e di altri autori del nostro tempo, è guidato da una concezione del lavoro sociologico che è incline alla previsione. Ciò  nel senso che è un dato necessario del lavoro scientifico, pur sempre alla luce di una metodologia rigorosa, lo sforzo di individuare le tendenze di mutamento che prefigurano la società verso la quale stiamo andando. Come è noto, Touraine  ha fatto uso del termine società post-industriale e nel cercare di disegnarne i contorni ha denunciato come limite dell’analisi sociologica quello di non sapersi liberare dalle categorie che ha elaborato per orientarsi nell’ambito della società industriale. D’altro canto è anche evidente che  non sono pochi gli elementi strutturali, tuttora attivi, propri di quel tipo storico di società che si proiettano nel presente condizionandone lo sviluppo e legittimando il basso grado di obsolescenza dell’apparato categoriale in voga nelle scienze sociali. A parte ciò sembra utile isolare, come fa Touraine, una dimensione sociale specifica, un campo particolare come quello del conflitto sociale, che è stato alla base  della società industriale; ciò può rappresentare un espediente utile per verificare in maniera adeguata continuità e discontinuità tra i due tipi storici di società ma pure per rinnovare, in concreto e su una questione-chiave, l’armamentario concettuale del sociologo.

Touraine ha sviluppato sul conflitto sociale delle linee analitiche che procedono sulla base di quattro  ipotesi di lavoro di carattere molto generale (Touraine 1975). Prima ipotesi: nella società post-industriale i conflitti sono generalizzati; seconda ipotesi: di fronte  ad un apparato di potere sempre più integrato, l’opposizione viene sostenuta da attori collettivi radicati quasi esclusivamente nel contesto urbano; terza ipotesi: i conflitti sociali tendono a confondersi con i comportamenti devianti; quarta ipotesi: i conflitti strutturali si separano dai conflitti legati al mutamento. La società senza classi e senza conflitti non viene più proposta da nessuna ideologia e da nessun partito politico. Sacralità e tradizione scompaiono e si indeboliscono le istituzioni che garantivano la riproduzione sociale. I conflitti penetrano progressivamente in un’area vastissima quella della vita privata; famiglia, educazione, relazioni sessuali vengono  coinvolti in una dimensione critica e conflittuale dai movimenti legati alla condizione  femminile. Le aspettative reciproche di comportamento vengono messe in forse in maniera irreparabile: si ha una perdita di autorità nell’ambito domestico e nella scuola, si parla di guerra tra i sessi e si parla di conflitto generazionale. Le  gerarchie sociali che organizzavano un dato ordine sociale scricchiolano pericolosamente. Una società post-industriale è una società che mobilita in maniera sempre più generalizzata la sua popolazione; lo sviluppo dei mass-media indebolisce il ruolo di istituzioni intermediarie come i partiti. Il potere  si confronta direttamente con i movimenti di rivendicazione che si organizzano a partire dai problemi concreti e senza farsi condizionare dalla collettività politica. L’urbanizzazione progressiva  rappresenta uno degli elementi strutturali della società post-industriale. Si assiste così ad un trasferimento del luogo dei conflitti dalla fabbrica alla città. Lo spazio va definito, tuttavia, in maniera concreta come luogo di una collettività.

La società post-industriale elimina la centralità del movimento operaio organizzato anche perché i problemi del lavoro pur essendo di grande rilievo  hanno perso autentica centralità politica. Perde significato la differenza tra produttivo ed improduttivo così come la distinzione tra istanze economica, politica, ideologica un tempo fondamentali. I due avversari principali capitalisti e operai non sono più al centro della  scena dello scontro. La nuova immagine dei conflitti sociali

«è quella di un apparato centrale, impersonale ed integratore, che tiene sotto il suo controllo, al di là di una semplice classe di servizio, una vera e propria maggioranza silenziosa: ai margini di questa vengono proiettate delle minoranze escluse, rinchiuse o semplicemente sottoprivilegiate, quando non siano del tutto negate».

Non ha senso, secondo Touraine che esplicita così  al massimo grado la sua natura di teorico conflittualista, la posizione di chi prevede il riassorbimento dei conflitti strutturali in una proliferazione di tensioni e di negoziati pratici orientati unicamente alla gestione del mutamento. La società post-industriale è una società che ha il problema del potere e della dominazione sociale , è una società che non ha rimosso i conflitti di classe ma anzi li ha generalizzati attorno a nuovi soggetti sociali liberati dalla secolarizzazione e dalla crescita dell’economia.

«La società post-industriale non ha altra natura che di essere il prodotto dei suoi conflitti interni; ciò che è in gioco è il controllo della capacità d’azione della società su se stessa ».

Con specifico riferimento all’Europa contemporanea e dunque ad un contesto societario dove la società post-industriale ha uno spazio consistente, Touraine si preoccupa di definire l’espressione movimento sociale riservandola « ai comportamenti collettivi che mettono in causa, attraverso un conflitto sociale, l’utilizzazione da parte di una società delle principali risorse e dei modelli culturali di cui essa dispone : cioè, allo stesso tempo, i suoi modelli di conoscenza, le sue principali forme di investimento e di produzione ed i suoi modelli etici, i suoi principi morali » (Touraine 1992,136-7). Tramite  questa definizione che ci parla dei movimenti sociali nei termini di comportamenti collettivi di livello più elevato viene riproposta l’idea che, almeno virtualmente, esista un conflitto centrale come primo motore di una data società. La lotta di classe viene surrogata al livello dell’organizzazione del lavoro da movimenti di rivendicazione che tentano  specialmente di migliorare il livello salariale.

Anche Touraine legge la storia politica recente dei paesi occidentali industrialmente avanzati in chiave di istituzionalizzazione dei conflitti industriali. Ogni società-Stato si è attrezzata con una sua forma di istituzionalizzazione dalla socialdemocrazia dei paesi nordici, alla via della industrial democracy battuta dall’ Inghilterra, al Welfare State proposto in Italia ed in Francia. Ma non ha più senso parlare solo degli operai,le collettività studentesche, con i loro problemi di inserimento in una società che si complessifica e che prolunga all’estremo il loro status di incertezza, occupano uno spazio nuovo ed  autonomo. In questo modo i movimenti collettivi hanno calibrato la loro capacità di rottura ed hanno funzionato come canali di partecipazione diffusa e di impulso quasi sempre riformista.

Il punto chiave dell’analisi delle nuove forme di conflitto sociale pertiene  prima all’obiettivo della lotta ma pure all’attore che la sostiene. Non si tratta più di sviluppare un conflitto per l’economia ma piuttosto per la gestione.

«Nelle società economicamente più avanzate la lotta investe un più ampio sistema di organizzazione sociale, l’accumulazione del potere da parte degli apparati e la manipolazione crescente di tutti i settori dell’attività sociale. La rivendicazione, difensiva o offensiva che sia, attacca un modo di decisione e di gestione, investe il comportamento di attori sociali, più che delle leggi  economiche» (Touraine 1974,180-1).

Il conflitto sociale assume una nuova forma anche nel senso che si trasferisce dalla fabbrica ad altre istituzioni che prendono una nuova centralità, come l’università. L’università è il luogo dove si forma una nuova lite rivendicativa  perché la scienza è forse, oggi, la principale forza che alimenta lo sviluppo tecnologico ed è intrecciata sempre più, diversamente da quanto avveniva in passato, con il sistema economico e con il sistema politico. D’altro canto è chiaro che la massa studentesca non può identificarsi con una massa sottoprivilegiata e dunque viene a mancare una precondizione per la formazione di un “movimento sociale completo”.

«Una società in rapido mutamento tende piuttosto a valorizzare la giovinezza a spese dell’esperienza. I sottoprivilegiati della nostra società si situano sicuramente più sul versante degli anziani che su quello dei giovani».

Nel 1968, ma non solo all’interno di quel ciclo di lotte, non poco mitizzato, si assiste – non a caso- al tentativo di una saldatura fra gli studenti e gli operai. Altrettanto emblematico, anche se  non è stato studiato con la dovuta attenzione, il ruolo svolto dai giovani operai nella partecipazione al momento conflittuale, spesso in aperta opposizione non solo con i padroni ma anche con gli altri operai ligi alle direttive delle centrali sindacali e di partito.

Nel quadro di questa ridefinizione delle dinamiche conflittuali la gioventù si propone come neo-attore politico. La nostra società si definisce più per quello che può essere che per quello che è stata e per quello che è attualmente. I giovani possono essere identificati come titolari di privilegi ambivalenti soprattutto attraverso una comparazione con gli anziani che la nuova società depotenzia in quanto titolari di un’ autorità non sostenuta da un’adeguata competenza. I giovani sono promotori di rivendicazione e l’anima dei movimenti sociali anche perché hanno un nuovo modo di pensare, sono attratti dalle nuove forme di comunicazione e ne sono il veicolo più convinto. Naturalmente la condizione giovanile non è omogenea, al centro delle dinamiche conflittuali  stanno soprattutto i giovani universitari, quelli che sono stati socializzati nelle grandi città e possono anche permettersi di  aspettare una collocazione professionale congruente. Touraine comprende assai bene tuttavia che l’attore giovane è un promotore di rivendicazione temporaneo esposto alle suggestioni della congiuntura economica e politica, insofferente di ogni inquadramento organizzativo e dunque a sua volta elemento che condiziona non poco il successo del movimento. Tutto può accadere: dall’affermazione di una democrazia iperpartecipata, all’affermazione di una leadership carismatica labile,alla riduzione della rivolta sociale in violenza; alla fuga da ogni responsabilità.In questi ultimi lustri, non ci si deve sorprendere, l’apatia politica giovanile sembra pesante anche se periodicamente si assiste a delle eruzioni che indicano nella gioventù uno dei possibili principali attori di innovazione. Trent’anni di movimentismo hanno dimostrato che il campo dei conflitti si è esteso,si è differenziato ma si è anche frantumato. Il conflitto si è presentato  con il volto di una radicalizzazione a cicli che ha giovato non poco anche al sistema di potere, il quale comunque ha saputo,non di rado,adattarsi alle domande di rivendicazione. Siamo in una fase prolungata di ridefinizione delle posizioni e dei ruoli: gioventù come ultima speranza? Non si tratta di affidarsi solo ed unicamente ai giovani; i fronti del conflitto sono aperti, mutevoli e molteplici e vanno letti comunque come un dato strutturale di apertura della società contemporanea.

«L’attore non è  più definito in base al suo posto o alle sue funzioni in una comunità; lo definiscono invece le tensioni, i conflitti, le trasformazioni culturali e i rapporti sociali che gestisce; ma anche la rivolta che lo mobilita contro un dominio sempre più esteso e capace di presentarsi come razionale e naturale» (Touraine 1974,200).

Dunque, ancora una volta, l’identità sociale si costruisce attraverso l’opposizione; il conflitto ha una funzione importante per la costruzione di nuovi soggetti e per permettere alla società di sfuggire ai pericoli della pietrificazione dei valori sacrificati sui deboli altari dell’efficienza e del consumismo.

11.Globalizzazione, società multiculturale e conflitti etnici

Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad una progressiva estensione dello sviluppo di conflitti di carattere etnico nelle diverse società occidentali, la fenomenologia del conflitto sociale acquista così un ulteriore tratto specifico. Le analisi e le spiegazioni teoriche avanzate in questo periodo dalla letteratura sociologica sono molteplici, a partire dalle critiche rivolte agli orientamenti assimilazionisti presenti nella sociologia statunitense degli anni Sessanta e Settanta. In questa direzione si collocano le posizioni di A. Cohen e di N. Glazer e D.P. Moynihan, che sostengono una “deculturalizzazione” della concettualizzazione dei gruppi etnici nella loro ridefinizione come gruppi di interesse.

Secondo Cohen è possibile interpretare l’identità etnica come identità politica che si struttura nell’interazione con gli altri gruppi etnici in funzione di influenza dei processi decisionali. In questo senso, scrive Cohen si può intendere il temine di etnicità come riferito

«al grado di conformità da parte dei membri della collettività alle norme condivise nel corso dell’interazione sociale» (Cohen  1974, 136).

Su questa linea si collocano anche Glazer e Moynihan i quali, rilevato il fallimento delle politiche assimilazioniste negli Stati Uniti, sostengono l’ipotesi che l’identità etnica costituisca un elemento di elaborazione di una identità politica in quanto sostanzialmente connessa all’appartenenza di classe. In una linea di lettura di ispirazione neo-marxista il conflitto etnico viene quindi spiegato come una peculiare configurazione della lotta per il controllo di risorse di potere o direttamente della lotta di classe. Secondo questa interpretazione, assai diffusa nel settore radicale delle scienze sociali americane, la dimensione culturale che caratterizza i conflitti etnici non farebbe altro che celare una logica di mobilitazione per quelli che sono ritenuti i veri conflitti, e cioè solo i conflitti di interesse.

Un limite importante di questa interpretazione consiste nella riduzione della dimensione simbolica ed identitaria connessa alla cultura a semplice simulacro dietro al quale si svolgerebbe la vera realtà conflittuale. Una posizione meno radicale è sostenuta da Daniel Bell che, nel ricostruire il processo di declino delle ideologie, indica nella tendenza alla ripresa delle identità etniche una chiara manifestazione dell’importanza dell’identità come fattore strutturante i comportamenti collettivi. La tesi di fondo di Bell è che nel procedere della razionalizzazione e della differenziazione sociale i ruoli si fanno sempre più astratti e impersonali e ciò produce un senso di smarrimento dell’identità, che trova nel recupero delle identità etniche un possibile punto di forza. Bisogna però considerare che i conflitti che si sviluppano tra i gruppi etnici possono  – secondo Bell – strutturarsi prevalentemente intorno agli interessi delle parti in gioco, rivelandosi così un caso particolare di conflitti di interesse. Il contributo di Bell è significativo perché comunque contribuisce ad indicare un ruolo importante dell’identità etnica nella lotta politica. Tra la metà degli anni Settanta e la metà del decennio successivo una posizione che ha ripreso in misura significativa il tema del conflitto etnico come conflitto culturale è stata quella di Horowitz (Horowitz 1975 e 1985).

Richiamandosi alla teorizzazione simmeliana dell’identità, Horowitz sostiene che è nel conflitto che si struttura l’identità. L’identità etnica viene qui intesa come costituita da due dimensioni strutturanti: da un lato i tratti ascrittivi, i tratti cioè che si acquisiscono con la nascita come il genere, ma anche la lingua, dall’altro lato i tratti volontari che permettono di considerare l’identità etnica come una scelta. Entrambi questi elementi contribuiscono a costruire l’identità etnica nei contesti caratterizzati da pluralismo culturale. Nelle condizioni di omogeneità culturale, infatti, l’identità etnica viene costruita principalmente attraverso i tratti ascrittivi, ma nelle condizioni proprie della società multiculturale e del conflitto etnico l’identità etnica diviene anche un esito di un processo di autoposizionamento. Il merito della teoria di Horowitz è di mettere al centro del dibattito la considerazione secondo la quale se l’identità si struttura nella relazione allora essa tenderà

«espandersi in un contesto in espansione e a contrarsi in un contesto in contrazione» (Horowitz 1975, 137).

Ciò significa che in un contesto multiculturale non si può più parlare esclusivamente di assimilazione, ma anche di differenziazione e di integrazione parziale in collettività più ampie. In questo senso Horowitz parla di processi di “fusione” e di “scissione” etnica. Nell’analisi dei processi di sviluppo del conflitto etnico Horowitz rileva che in determinate condizioni i gruppi etnici possono persino sacrificare il proprio interesse economico pur di conservare l’identità, in controtendenza con quanto sostenuto dalle teorie precedenti. Nel tentativo di individuare gli elementi costitutivi delle identità etniche, Horowitz indica soprattutto gli elementi di natura psicologica ed emotiva, come la paura della subordinazione, o della propria estinzione oppure il rapporto tra pregiudizio e autostima. Secondo Horowitz una condizione scatenante del conflitto etnico è la comparazione che i membri di uno o più gruppi etnici tendono a fare tra il proprio gruppo e gli altri sviluppando in questo confronto sentimenti di antipatia e di antagonismo che possono rinforzare il senso di identità in chiave nettamente conflittuale.

Lo sviluppo dei processi di globalizzazione ha ridefinito le modalità di marcatura dei confini e delle identità etiche e culturali, generando nuove condizioni di incontro e di conflitto. In questa prospettiva si colloca la teoria proposta da Roland Robertson sul rapporto tra identità etnica, conflitti e globalizzazione. Rifiutando le tesi secondo le quali l’identità etnica costituirebbe un elemento residuale a fronte dei processi globalizzanti, Robertson sostiene la posizione secondo la quale la globalizzazione sviluppa una serie di effetti di compressione collegando tra di loro in modi inediti gruppi etnici e società. In questa nuova ridefinizione delle relazioni la vicinanza e la lontananza non definiscono più la capacità maggiore o minore di esercitare influenza, cioè si può essere lontani fisicamente ed esercitare un’influenza maggiore di coloro che sono vicini, ma anche viceversa. Robertson concettualizza questa crescente interpenetrazione degli attori della globalizzazione nel termine di glocalizzazione. Da questo punto di vista la globalizzazione non produce la distruzione delle comunità locali, ma «implica la ricostruzione, in un certo senso la produzione, del senso dell’ “essere a casa”, della comunità. In questo senso il locale non può essere visto (…) come un contrappunto al globale. Infatti esso può essere visto (…) come un aspetto della globalizzazione» (Robertson 1995, 30). In questa prospettiva la ricerca di un’identità etnica costituisce quindi uno dei possibili esiti dei processi di globalizzazione. Vittorio Cotesta ha osservato che «la ricerca dell’identità comporta la “riscoperta”, l’invenzione o la ri-costruzione delle proprie tradizioni» (Cotesta  1997, 46). Anche l’irrigidimento delle identità etniche nel fondamentalismo costituisce un possibile sviluppo dei processi di globalizzazione, in quanto ne è allo stesso tempo il prodotto e la reazione.

La prospettiva di Robertson mette in luce un aspetto nuovo della fenomenologia dei conflitti etnici, evidenziando come da un lato i processi di sviluppo della tarda modernità non siano esenti dalla genesi di forme di identità in apparenza tradizionali e antimoderne, che appaiono caratterizzare anche le forme più radicali del conflitto etnico.

Dal punto di vista tipologico i processi di globalizzazione cui si è ora fatto riferimento agiscono sulla fenomenologia dei conflitti in vari modi, in particolare, però, la dimensione quantitativa sembra costituire un aspetto importante meritevole di una particolare riflessione. La letteratura sui conflitti può essere, infatti, classificata secondo una distribuzione tipologica che tenga conto della trasformazione dei conflitti in relazione con il variare del numero degli attori  coinvolti. La complessità dei conflitti si trova in una stretta relazione con la diversa complessità organizzativa e sistemica generata dall’incremento del numero degli attori. Il grafico 1 permette una classificazione semplice ma utile che distingue conflitti limitati a gruppi quando il numero di attori non supera la sfera delle decine o, al più, delle centinaia di attori. Nell’ambito delle centinaia sono possibili forme di organizzazione gerarchica e strutturata che comportano un cambiamento del tipo di conflitto dalla dimensione delle relazioni face-to-face alla sfera dei ruoli e dei rapporti formalizzati: è il caso delle organizzazioni lavorative, ad esempio. Su di una scala più ampia si collocano i conflitti che esercitano influenze sulla sfera politica o che hanno un carattere direttamente politico: si passa dalle organizzazioni di coordinamento dei movimenti sociali, ai movimenti sociali veri e propri fino ai sindacati, ai partiti politici di massa e  alle classi sociali, che possono sfiorare l’ordine del milione di attori coinvolti. Sulla scala più ampia troviamo i conflitti nazionali e sovranazionali, questi ultimi caratteristici degli attuali processi di globalizzazione. Un aspetto di trasformazione dei conflitti su scala globale che è importante sottolineare è costituito dalla tendenza alla de-localizzazione anche dei conflitti un tempo tipologicamente collocati su di una scala inferiore a quella globale, come i conflitti politici  e i movimenti sociali. I processi di globalizzazione agiscono nel senso di favorire una sorta di stiramento in senso globale anche di forme di mobilitazione un tempo ancorate in senso locale. Si pensi ad esempio ai movimenti legati alla contestazione delle assise delle organizzazioni internazionali – come è accaduto nel 1999 a Seattle per la riunione plenaria del Wto (World Trade Organization). In questa prospettiva la scala globale comporta una ridefinizione delle caratteristiche degli attori ed anche, sia pure parzialmente, delle modalità di conflitto che erano caratteristiche dei movimenti sociali prima della loro eventuale trasformazione in senso globale.

 

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[1] Questo paragrafo è stato scritto da Marco Bontempi.

[2] Questo paragrafo è stato scritto da Marco Bontempi.

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