Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo

by gabriella

Giorgio Agamben

Il testo della lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica dell’a.a. 2006-2007 che Agamben ha tenuto presso la Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia.

Contemporaneo è l’inattuale, osserva il filosofo, colui che sa vedere «come un male, un inconveniente, un difetto, qualcosa di cui la sua epoca va giustamente orgogliosa» [F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, 1874].

Il contemporaneo è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze, è un’abilità particolare, che equivale a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale. In G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Roma, Nottetempo, collana I sassi, 2010, pp. 22-33.

1. La domanda, che vorrei iscrivere sulla soglia di questo seminario, è:

Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?”

Nel corso del seminario ci capiterà di leggere testi i cui autori distano da noi molti secoli e altri più recenti o recentissimi: ma, in ogni caso, essenziale è che dovremo riuscire a essere in qualche modo contemporanei di questi testi.

Il “tempo” del  nostro seminario è la contemporaneità, esso esige di essere contemporaneo dei testi e degli autori che esamina. Tanto il suo rango che il suo esito si misureranno dalla sua – dalla nostra – capacità di essere all’altezza di questa esigenza.

Una prima, provvisoria, indicazione per orientare la nostra ricerca di una risposta ci viene da Nietzsche. In un appunto dei suoi corsi al Collège de France, Roland Barthes la compendia in questo modo:

“Il contemporaneo è l’intempestivo”.

NietzscheNel 1874, Friedrich Nietzsche, un giovane filologo che aveva lavorato fin allora su testi greci e aveva due anni prima raggiunto un’improvvisa celebrità con La nascita della tragedia, pubblica le Unzeitgemässe Betrachtungen, le Considerazioni inattuali, con le quali vuole fare i conti col suo tempo, prendere posizione rispetto al presente.

“Intempestiva questa considerazione lo è,” si legge all’inizio della seconda Considerazione, “perché cerca di comprendere come un male, un inconveniente e un difetto qualcosa di cui l’epoca va giustamente orgogliosa, cioè la sua cultura storica, perché io penso che siamo tutti divorati dalla febbre della storia e dovremmo almeno rendercene conto”.

Nietzsche situa, cioè, la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità” rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo.

Questa non-coincidenza, questa discronia non significa, naturalmente, che contemporaneo sia colui che vive in un altro tempo, un nostalgico che si senta a casa piú nell’Atene di Pericle o nella Parigi di Robespierre e del marchese di Sade che nella città e nel tempo in cui gli è stato dato di vivere. Un uomo intelligente può odiare il suo tempo, ma sa in ogni caso di appartenergli irrevocabilmente, sa di non poter sfuggire al suo tempo.

La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.

2. Nel 1923, Osip Mandel’štam scrive una poesia che s’intitola Il secolo (ma la parola russa vek significa anche “epoca”). Essa contiene non una riflessione sul secolo, ma sulla relazione fra il poeta e il suo tempo, cioè sulla contemporaneità. Non il “secolo”, ma, secondo le parole che aprono il primo verso, il “mio secolo” (vek moi):

Mio secolo, mia belva, chi potrà
guardarti dentro gli occhi
e saldare col suo sangue
le vertebre di due secoli?

Il poeta, che doveva pagare la sua contemporaneità con la vita, è colui che deve tenere fisso lo sguardo negli occhi del suo secolo-belva, saldare col suo sangue la schiena spezzata del tempo. I due secoli, i due tempi non sono soltanto, com’è stato suggerito, il secolo XIX e il XX, ma anche e innanzitutto il tempo della vita del singolo (ricordate che il latino saeculum significa in origine il tempo della vita) e il tempo storico collettivo, che chiamiamo, in questo caso, il secolo XX, la cui schiena – apprendiamo nell’ultima strofa della poesia – è spezzata. Il poeta, in quanto contemporaneo, è questa frattura, è ciò che impedisce al tempo di comporsi e, insieme, il sangue che deve suturare la rottura. Il parallelismo fra il tempo – e le vertebre – della creatura e il tempo – e le vertebre – del secolo costituisce uno dei temi essenziali della poesia:

Finché vive la creatura
deve portare le proprie vertebre,
i flutti scherzano
con l’invisibile colonna vertebrale.

Come tenera, infantile cartilagine
è il secolo neonato della terra.

L’altro grande tema – anche questo, come il precedente, un’immagine della contemporaneità – è quello delle vertebre spezzate del secolo e della loro saldatura, che è opera del singolo (in questo caso, del poeta):

Per liberare il secolo in catene
per dare inizio al nuovo mondo
bisogna col flauto riunire
i ginocchi nodosi dei giorni.

Che si tratti di un compito ineseguibile – o, comunque, paradossale – è provato dalla strofa successiva, che conclude il poema. Non solo l’epoca-belva ha le vertebre spezzate, ma vek, il secolo appena nato, con un gesto impossibile per chi ha la schiena rotta, vuole volgersi indietro, contemplare le proprie orme e, in questo modo, mostra il suo volto demente:

Ma è spezzata la tua schiena
mio stupendo, povero secolo.
Con un sorriso insensato
come una belva un tempo flessuosa
ti volti indietro, debole e crudele,
a contemplare le tue orme.

luci della città3. Il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo?

Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della  contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”? Una prima risposta ci è suggerita dalla neurofisiologia della visione. Che cosa avviene quando ci troviamo in un ambiente privo di luce, o quando chiudiamo gli occhi? Che cos’è il buio che allora vediamo?

I neurofisiologi ci dicono che l’assenza di luce disinibisce una serie di cellule periferiche della retina, dette, appunto, off-cells, che entrano in attività e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo il buio. Il buio non è, pertanto, un concetto privativo, la semplice assenza della luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina.

Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte  dell’ombra, la loro intima oscurità. Con questo, non abbiamo tuttavia ancora risposto alla nostra domanda. Perché riuscire a percepire le tenebre che provengono dall’epoca dovrebbe interessarci? Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.

universo4. Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle risplendono circondate da una fitta tenebra. Poiché nell’universo vi è un numero infinito di galassie e di corpi luminosi, il buio che vediamo nel cielo è qualcosa che, secondo gli scienziati, necessita di una spiegazione. È appunto della spiegazione che l’astrofisica contemporanea dà di questo buio che vorrei ora parlarvi.

Nell’universo in espansione, le galassie più remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce.

Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare.

Per questo il presente che la contemporaneità percepisce ha le vertebre rotte. Il nostro tempo, il presente non è, infatti, soltanto il piú lontano: non può in nessun caso raggiungerci. La sua schiena è spezzata e noi ci teniamo esattamente nel punto della frattura. Per questo gli siamo, malgrado tutto, contemporanei. Capite bene che l’appuntamento che è in questione nella contemporaneità non ha luogo semplicemente nel tempo cronologico: è, nel  tempo cronologico, qualcosa che urge dentro di esso e lo trasforma. E questa urgenza è l’intempestività, l’anacronismo che ci permette di afferrare il nostro tempo nella forma di un “troppo presto” che è, anche, un “troppo tardi”, di un “già” che è, anche, un “non ancora”. E, insieme, di riconoscere nella tenebra del presente la luce che, senza mai poterci raggiungere, è perennemente in viaggio verso di noi.

5. Un buon esempio di questa speciale esperienza del tempo che chiamiamo la contemporaneità è la moda. Ciò che definisce la moda è che essa introduce nel tempo una peculiare discontinuità, che lo divide secondo la sua inattualità o nattualità, il suo essere o il suo non-esser-piú-alla-moda (alla moda e non semplicemente di moda, che si riferisce solo alle cose). Questa cesura, per quanto sottile, è perspicua, nel senso che coloro che debbono percepirla la percepiscono immancabilmente e proprio in questo modo attestano il loro essere alla moda; ma se cerchiamo di oggettivarla e di fissarla nel tempo cronologico, essa si rivela inafferrabile. Innanzitutto l’“ora” della moda, l’istante in cui essa viene in essere, non è identificabile attraverso alcun cronometro.

Questo “ora” è forse il momento in cui lo stilista concepisce il tratto, la nuance che definirà la nuova foggia della veste? O quello in cui l’affida al disegnatore e poi alla sartoria che ne confeziona il prototipo? O, piuttosto, il momento della sfilata, in cui la veste è indossata dalle uniche persone che sono sempre e soltanto alla moda, le mannequins, che, tuttavia, proprio per questo, non lo sono mai veramente? Poiché, in ultima istanza, l’essere alla moda della “foggia” o della “guisa” dipenderà dal fatto che delle persone in carne e ossa, diverse dalle mannequins – queste vittime sacrificali di un dio senza volto – lo riconoscano come tale e ne facciano la propria veste.

adamo-ed-evaIl tempo della moda è, cioè, costitutivamente in anticipo su sé stesso e, proprio per questo, anche sempre in ritardo, ha sempre la forma di una soglia inafferrabile fra un “non ancora” e un “non più”.

È probabile che, come suggeriscono i teologi, ciò dipenda dal fatto che la moda, almeno nella nostra cultura, è una segnatura teologica della veste, che deriva dalla  circostanza che la prima veste fu confezionata da Adamo ed Eva dopo il peccato originale, in forma di un perizoma intrecciato con foglie di fico. (Per la precisione, le vesti che noi indossiamo derivano non da questo perizoma vegetale, ma dalle tunicae pelliceae, dalle vesti fatte di pelli di animali che Dio, secondo Gen. 3.21, fa indossare, come simbolo tangibile del peccato e della morte, ai nostri progenitori nel momento in cui li scaccia dal paradiso.)

In ogni caso, quale che ne sia la ragione, l’“adesso”, il kairos della moda è inafferrabile: la frase“io sono in questo istante alla moda” è contraddittoria, perché nell’attimo in cui il soggetto la pronuncia, egli è già fuori moda. Per questo, l’essere alla moda, come la contemporaneità, comporta un certo  “agio”, una certa sfasatura, in cui la sua attualità include dentro di sé una piccola parte del suo fuori, una sfumatura di démodé.

Di una signora elegante si diceva a Parigi nell’Ottocento, in questo senso: “Elle est contemporaine de tout le monde”. Ma la temporalità della moda ha un altro carattere che la apparenta alla contemporaneità. Nel gesto stesso in cui il suo presente divide il tempo secondo un “non più” e un “non ancora”, essa istituisce con questi “altri tempi” – certamente col passato e, forse, anche col futuro – una relazione particolare. Essa può, cioè, “citare” e, in questo modo, riattualizzare qualunque momento del passato (gli anni ’20, gli anni ’70, ma anche la moda impero o neoclassica). Essa può,    cioè, mettere in relazione ciò che ha inesorabilmente diviso, richiamare, ri-evocare e rivitalizzare ciò che pure aveva dichiarato morto.

6. Questa speciale relazione col passato ha anche un altro aspetto. La contemporaneità si iscrive, infatti, nel presente segnandolo innanzitutto come arcaico e solo chi percepisce nel più moderno e recente gli indici e le segnature dell’arcaico può esserne contemporaneo. Arcaico significa: prossimo all’arké, cioè all’origine.

Ma l’origine non è situata soltanto in un passato cronologico: essa è contemporanea al divenire storico e non cessa di operare in questo, come l’embrione continua ad agire nei tessuti dell’organismo maturo e il bambino nella vita psichica dell’adulto. Lo scarto – e, insieme, la vicinanza – che definiscono la contemporaneità hanno il loro fondamento in questa prossimità con l’origine, che in nessun punto pulsa con più forza che nel presente. Chi ha visto per la prima volta, arrivando all’alba dal mare, i grattacieli di New York, ha subito percepito questa facies arcaica del presente, questa contiguità con la rovina che le immagini atemporali dell’11 settembre hanno reso evidente per tutti.

Gli storici della letteratura e dell’arte sanno che fra l’arcaico e il moderno c’è un appuntamento segreto, e non tanto perché proprio le forme più arcaiche sembrano esercitare sul presente un fascino particolare, quanto perché la chiave del moderno è nascosta nell’immemoriale e nel preistorico.

Così il mondo antico alla  sua fine si volge, per ritrovarsi, ai primordi; l’avanguardia, che si è smarrita nel tempo, insegue il primitivo e l’arcaico. È in questo senso che si può dire che la via d’accesso al presente ha necessariamente la forma di un’archeologia. Che non regredisce però a un passato remoto, ma a quanto nel presente non possiamo in nessun caso vivere e, restando non vissuto, è incessantemente risucchiato verso l’origine, senza mai poterla raggiungere. Poiché il presente non è altro che la parte di non-vissuto in ogni vissuto e ciò che impedisce l’accesso al presente è appunto la massa di quel che, per qualche ragione (il suo carattere traumatico, la sua troppa vicinanza) in esso non siamo riusciti a vivere. L’attenzione a questo non-vissuto è la vita del contemporaneo. E essere contemporanei significa, in questo senso, tornare a un presente in cui non siamo mai stati.

Paolo di Tarso

Paolo di Tarso (5/10 – 64-67)

7. Coloro che hanno cercato di pensare la contemporaneità, hanno potuto farlo solo a patto di scinderla in più tempi, di introdurre nel tempo una essenziale disomogeneità. Chi può dire: “il mio tempo”, divide il tempo, iscrive in esso una cesura e una discontinuità; e, tuttavia, proprio attraverso questa cesura, questa interpolazione del presente nell’omogeneità inerte del tempo lineare, il contemporaneo mette in opera una relazione speciale fra i tempi. Se, come abbiamo visto, è il contemporaneo che ha spezzato le vertebre del suo tempo (o, comunque, ne ha percepito la faglia o il punto di rottura), egli fa di questa frattura il luogo di un appuntamento e di un incontro fra i tempi e le generazioni.

Nulla di più esemplare, in questo senso, del gesto di Paolo, nel punto in cui esperisce e annuncia ai suoi fratelli quella contemporaneità per eccellenza che è il tempo messianico, l’essere contemporanei del messia, che egli chiama appunto il “tempo-di-ora” (ho nyn kairos). Non solo questo tempo è cronologicamente indeterminato (la parusia, il ritorno del Cristo che ne segna la fine è certo e vicino, ma incalcolabile), ma esso ha la capacità singolare di mettere in relazione con sé ogni istante del passato, di fare di ogni momento o episodio del racconto biblico una profezia o una prefigurazione (typos, figura, è il termine che Paolo predilige) del presente (cosí Adamo, attraverso cui l’umanità ha ricevuto la morte e il peccato, è “tipo” o figura del messia, che porta agli uomini la redenzione e la vita).

Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inevitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun  modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere.

È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora.

Michel Foucault (1926-1984)

Walter Benjamin (1892 – 1940)

È qualcosa del genere che doveva avere in mente Michel Foucault, quando scriveva che le sue indagini storiche sul passato sono soltanto l’ombra portata della sua interrogazione teorica del presente.

E Walter Benjamin, quando scriveva che l’indice storico contenuto nelle immagini del passato mostra che esse giungeranno alla leggibilità solo in un determinato momento della loro storia. È dalla nostra capacità di dare ascolto a quell’esigenza e a quell’ombra, di essere contemporanei non solo del nostro secolo e dell’“ora”, ma anche delle sue figure nei testi e nei documenti del passato, che dipenderanno l’esito o l’insuccesso del nostro seminario.

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