Italo Calvino, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti

by gabriella

questo era Calvino

Nell’ottobre scorso (2012), riflettendo sul declino della scuola pubblica e sul particolare accanimento mostrato dai governi degli ultimi vent’anni nel portare a compimento l’opera di decostituzionalizzazione della pubblica istruzione, mi era tornato in mente L’apologo sull’onestà, uno degli ultimi interventi di Calvino sulla stampa, nel quale lo scrittore tratteggiava la singolare antropologia di un paese nel quale i “responsabili” od “onesti” non siedono nell’assemblea dei “rappresentanti del popolo”, ma tra le macerie delle istituzioni da questa bombardate.

e questa io qualche anno fa

Avevo osservato, allora, che “un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”, concludendo che il senso di questa constatazione era meglio spiegato proprio dal testo calviniano che riproponevo in lettura.

Da quell’ottobre, questo post è stato rilanciato su facebook e visionato centinaia di migliaia di volte, fino a smarrire la distinzione tra la mia introduzione e il testo calviniano.

Dopo l’affermazione erroneamente attribuita a Calvino, proseguivo: “mi pare che lo spieghi perfettamente Calvino in questo testo, tragicamente attuale, uscito su La Repubblica [ora in Romanzi e racconti, vol. 3, Arnoldo Mondadori Editore] del 15 marzo 1980, agli albori di un’era che oggi sta finendo insieme con il bene pubblico ancora difeso dai molti che

«non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese [in cui] loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare».

La scuola è per definizione il luogo in cui gli insegnanti si chiedono di tutto, salvo quanto vale in denaro l’intelligenza che sto formando quanta ne ho prodotta oggi, come test sempre più insulsi e dannosi chiedono di fare. Questo è lo spirito con cui ho riletto l’Apologo, in una delle molte interpretazioni possibili [qui, ad esempio, quella di Rodotà].

Sperando di aver reso un contributo alla leggibilità dell’insieme, vi lascio alla lettura di Calvino.

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi  unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

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26 Responses to “Italo Calvino, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”

  1. “Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.”

    Davvero terribile.

    …”vieti meccanismi”…

    Così, cercando “vieto” su “www.treccani.it/vocabolario/”, sono finito in cima ad una montagna…

    Forse dovrei smettere di leggere il giornale ogni mattina come faccio ormai da anni…

    Si impara davvero poco. Anzi, forse ultimamente si disimpara.

    • Si, è terribile, si chiama “fascismo” e c’illudevamo fosse il delirio di sottoproletari di borgata o il nome del ventennio. Quanto ai giornali (soprattutto italiani), provo lo stesso disagio ma leggo e invito i miei studenti a fare altrettanto: senza informazione non c’è nemmeno critica (e di quella sei ben provvisto anche tu).

      • Tu hai la percezione di cosa significhi imbattersi nei tuoi post?

        Te lo chiede uno che pensa di leggere un po’ più della media in questo Paese…

        Ho in mente l’immagine di Neo (il personaggio principale del film “Matrix”) quando gli stanno per staccare il tubo dalla testa…

        Domanda: la cultura rende liberi?

  2. Grazie Gabriella,
    parole limpide come acqua di sorgente….e amare.
    I mali descritti vengono da lontano..si potrebbe sintetizzare:”L’Italia è una repubblica democratica(?) fondata sui centri di potere “.
    Per dire….. nei primi anni ’60 si teorizzava-e praticava- che rubare per il partito non costituisse reato.Prim’ancora c’era Enrico Mattei che finanziava pressochè tutti i gruppi politici.Le aziende pubbliche sono da sempre considerate un centro di collocamento di “amici” ed un giacimento di risorse finanziarie da destinare a singoli ed a gruppi politici.(vedi ad esempio Finmeccanica…)
    Parallelamente si è sviluppata l’identificazione della persona col partito….la personalizzazione della politica, la politica spettacolo, la politica sondaggio, la politica dei “ladri di portafogli” , la politica dei comitati d’affare,la politica auto-referenziale all’interno della quale tutto è permesso.
    L’ex presidente della repubblica Giuseppe Saragat nella prefazione(1945) di un famosissimo saggio di Marco Minghetti-i partiti politici e la pubblica amministrazione”,ed Cappelli- metteva in luce l’antinomia fra l’esistenza dei partiti necessaria alla libertà e la tendenza totalitaria degli stessi distruggitrice della libertà. Il tema è da approfondire….
    Ciao

    • Beh, Marx lo ha approfondito da un pezzo ed é noto cosa pensasse della democrazia liberale e del suo rapporto non occasionale con i comitati d’affari. Da un certo punto di vista questo è un tempo di verità, nel quale nessuno può più illudersi sull’autonomia del “politico” dalle strutture di dominio.

      • Traduco volgarmente(conosco poco, anzi pochissimo Marx come tutta la filosofia)…ma che resta dell’autonomia dell’uomo se esiste solo una struttura dominante…la società, l’economia e tutto il resto è sovrastruttura? E la politica?
        Io vedo più, credo, pragmaticamente, l’uomo che fa parte integrante di una società con la propria autonomia personale, pur in un contesto in cui i poteri finanziari, mass-mediatici, i poteri della criminalità persino, sono evidenti e penetranti .
        Proprio in questo credo, stia la funzione della scuola: formare i giovani nel senso di dare loro capacità critica e strumenti per valutare la realtà..che testimonianza si darebbe altrimenti ai giovani?
        Ancora più pragmaticamente, il partito di massa,riconoscibile, il partito “comunanza di valori” , integrava vasti gruppi sociali, veniva perdendo-fine anni ’80-del secolo scorso- tali caratteristiche, aprendosi da tale data ad una pluralità di ceti sociali ed a valori guida più indistinti.
        Da ciò mi chiedo come recuperare un partito non solo in grado di aggregare cittadini ma soprattutto in grado di responsabilizzare dirigenti ed iscritti attraverso il confronto anche serrato sulle cose, sulle prospettive, sui valori ed interessi in campo, sulla persona, sulla società, sulla partecipazione degli iscritti costruttiva e responsabile.
        Non a caso si registra oggi una forte mobilità elettorale insieme ad una cronica disaffezione dalla politica.
        Come è noto si sta tentando di recuperare un rapporto diretto con iscritti, simpatizzanti ed elettori, da un lato con le “primarie” per scegliere il candidato premier, dall’altro con sistemi da “autocrazia elettiva” e con modalità plebiscitarie tentando di stabilire un rapporto immediato fra iscritti, simpatizzanti e leaders.
        Bisogna chiedersi in particolare se il rapporto fiduciario fra elettore ed eletto affievolisca la qualità della politica o ci stiamo incanalando verso forme di “post-democrazia”.
        Io credo che la politica per avere senso debba presupporre prima di tutto il ricambio rapido della classe dirigente….non si tratta di rottamare, è la democrazia che esige il ricambio rapido.
        Quindi una partecipazione più estesa e costruttiva.Successivamente la politica deve rendere conto del valore pubblico realizzato, della creazione delle condizioni per un futuro migliore in particolare per le nuove generazioni.
        All’interno di tale ricambio risulta coerente il ricambio generazionale…a scuola ci sentivamo dire….voi sarete la futura classe dirigente..
        Ciao,
        scusa se mi sono dilungato su temi a me cari , il mese prossimo presenterò il mio libro sulla “politica” ad Artena un paese vicino Roma….mi serve per precisare il mio pensiero…spero

        • lo leggerò volentieri, il punto però non é affermare “l’autonomia dell’uomo dalla struttura dominante”, ma mostrare le sue concrete possibilità d’affrancamento. Temo che sia questo l’unico pragmatismo non onirico.

          PS: Chissà quanto ha influito su di me il non essersi mai sentita dire “sarai futura classe dirigente”: ho studiato in un istituto tecnico …

          • per esempio partecipare costruttivamente e criticamente alla costruzione di un progetto politico che dia una reale prospettiva per il futuro…altrimenti credo che l’uomo sia un “ciò”, una “cosa”.
            Perchè mi chiedo ti batti così vigorosamente e lucidamente per una scuola migliore?
            Sono sicuro che vuoi dare a ciascun ragazzo una coscienza di essere cittadino, di elevare la soglia della capacità di discernimento, di dare valore all’esperienza di studio…perchè dia alla comunità di cui fa parte il contributo piccolo o grande che sia.
            Credo che in ciascuno di noi debba albergare uno spirito prometeico..”.indocile, indisciplinato, ribelle”, ma anche il senso di partecipare alla costruzione di un futuro migliore, di sentirsi parte di una comunità che ha una storia, un’anima.

            • mi batto per la scuola perché credo sia l’unica possibilità per costruire l’uguaglianza, ma hai sotto gli occhi quel che vale la cittadinanza mia e di tanti altri quando governano i liberal-fascisti. Dove sarebbero la storia e l’anima?

              • Si credo anch’io che l’uguaglianza sia elemento imprescindibile…..che me ne faccio del voto se poi comandano i potenti, le lobby…da quella dei 150! parlamentari che esercitano la professione di avvocato(ma perchè così tanti? A parte gli avvocati di Berlusconi) al colossale conflitto d’interessi dello stesso Berlusconi in particolare quale capo del governo.
                Dall’ “alta moda”…la filosofia, l’uguaglianza, la democrazia, cominciamo a trarre qualche elemento per un “pret-à-porter”,una legge vera che disciplini il conflitto d’interessi, una politica che regoli la finanza, che metta al centro la persona…che senso ha lo sviluppo economico quando ad esempio l’Ilva di Taranto distrugge la vita ed il territorio?
                Teniamo duro….fin quando è possibile

  3. great Gabriella,
    avevo letto e molto apprezzato l’articolo di Lagioia.
    non a caso è stato pubblicato dallo Straniero di Goffredo Fofi.
    un abbraccio solidale.
    http://www.youtube.com/watch?v=S4UcaLHaabY

  4. Preciso, a scanso di equivoci, che l’introduzione all’articolo di Calvino è mia (non di Calvino), inclusa l’osservazione che “un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere”.

    Se poi vi state chiedendo perché lo pensi, potete leggere a titolo di esempio http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/11/12/francesco-sylos-labini-da-gelmini-a-profumo-la-politica-contro-l%E2%80%99universita-e-la-ricerca/

    • Quindi mi sta dicendo che questa frase che sta girando in tutta la rete come citazione di Calvino in realtà Calvino non l’ha mai scritta?

      • Esatto, è un mio commento all’articolo di Calvino (sottostante) che qualcuno ha scambiato per suo ignorando le mie precisazioni. La tesi non è comunque né mia né di Calvino, né ha bisogno del principio d’autorità per imporsi: è purtroppo un’evidenza sociologica.

        PS: In sociologia dei media si sostiene che l’esistenza di wikipedia dimostra la capacità di autocorrezione del web. Aggiungerei però che quella di facebook dimostra la viralità dell’errore.

  5. Interessante l’articolo e l’osservazione sulla viralità dell’errore v. la autocorrezione del web…
    Ma per piacere metta l’accento grave sulla terza persona del verbo essere.

    • Grazie dell’apprezzamento e della segnalazione. Se mi dice dove vede un accento mancante correggerò senz’altro.

      • in questo passaggio per esempio di accenti sbagliati ce ne sono due:

        “La scuola é per definizione il luogo in cui gli insegnanti si chiedono di tutto, salvo quanto vale in denaro l’intelligenza che sto formando o quanta ne ho prodotta oggi, come test sempre più insulsi e dannosi chiedono di fare. Questo é lo spirito con cui ho riletto l’Apologo, in una delle molte interpretazioni possibili.”

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