Roy Lewis, L’invenzione dell’esogamia

by gabriella

grande_uomo_scimmiaIn una giornata paleolitica nella Rift Valley, l’invenzione del matrimonio esogamico e del corteggiamento di Edward ed Ernest, rispettivamente primo scienziato e primo filosofo della (prei)storia. Tratto da Roy Lewis, The Evolution Man (1960); trad. it. Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Milano, Adelphi, 1992, pp. 87-106.

« Bene, ragazzi » fece papà. « Vi devo una spiega­zione. Ma non fatevi venire strane idee, come quella di prendermi a sassate. Non provateci! Siete a tiro, io ho un sacco di munizioni e non avreste alcuna possibilità».
« Be’, insomma, la faccenda è molto semplice, e non c’è bisogno di scaldarsi. Ci ho pensato su un bel po’ e ne ho anche parlato a fondo con le vostre madri. Voi quattro avete passato la pubertà: siete adulti, a tutti gli effetti. Tu, Oswald, devi avere almeno quindici anni; Ernest ha forse un anno meno; lo stesso Alexander e Wilbur. Siete cacciatori ben addestrati; ve la sapete cavare nella foresta, nel­la savana e in montagna. Siete stati addestrati abba­stanza bene nell’arte di lavorare la selce, anche se soltanto Wilbur è veramente bravo. Siete in grado di mantenervi; inoltre – vantaggio del tutto ecceziona­le per ragazzi della vostra età — sapete dove ci si pro­cura il fuoco selvatico e come lo si mantiene acceso. Ora, per il bene della specie, è tempo che vi troviate delle compagne e formiate delle famiglie vostre; e questo è il motivo per cui vi ho portato qui. A meno di cinquanta chilometri più a sud c’è un’altra orda… ».

« Ecco che cos’era!» proruppe Oswald. «Puzza di rifiuti! Uomini scimmia! Avrei dovuto capirlo».
« C’è un’altra orda » ripetè papà. « E là troverete le compagne che vi servono».«Ma, papà,» protestai «noi non vogliamo accop­piarci con delle estranee. Abbiamo già le nostre ragazze a casa. Io avrò Elsie, e…».
«Credo proprio di no» mi interruppe papà. « Avrai una di quelle ragazze che stanno laggiù »«Ma è assurdo, papà!» esclamai. «Era già tutto stabilito ».
«Tutti si accoppiano con le proprie sorelle» in­tervenne Oswald. « È l’unica cosa sensata da fare ».
«Fino a ieri» affermò papà. «Da oggi comincia l’esogamia ».
«Ma è innaturale, papà» insistetti. «Sai benissimo che gli animali non fanno simili distinzioni. Una vol­ta tanto qualcuno potrà anche uscire dall’orda, immagino, ma non è certo la regola ».
« È di una scomodità assurda » aggiunse Oswald. « Le nostre ragazze sono già lì, mentre queste… ».
«Queste sono più vicine, in realtà» disse papà. « Ecco perché vi ho portati qui ».
« Non riesco a capire perché dovremmo prenderci questa briga» dissi. «Voglio dire, che cos’hanno che non va, le ragazze di casa nostra?».
«Niente» rispose papà. «Ma potrebbe finir male, a furia di accoppiarsi tra consanguinei. Dobbiamo rimescolare un po’ i geni. Non è questa, però, la ragione principale. La ragione principale è che sono troppo facili, troppo accessibili, non presentano problemi, e così offrono uno sfogo troppo disinibito alla libido indisciplinata. No! Se vogliamo un qual­siasi sviluppo culturale, dobbiamo mettere sotto pressione le emozioni dell’individuo. In breve, un giovane maschio dovrà allontanarsi per trovare la sua compagna, corteggiarla, catturarla, lottare per lei. Selezione naturale».
« Ma possiamo benissimo lottare per le ragazze anche a casa» ribattè Oswald. «Anzi, si sa che finirà così. Succede sempre. E come per gli animali: il maschio più forte vince. Ed eccoti servita la tua sele­zione naturale, se proprio ci tieni» aggiunse furbe­scamente; ma ci voleva altro, per papà.

« Non è il tipo giusto di selezione naturale – non più. Sta diventando troppo pericoloso competere in famiglia per le donne, con tutte queste nuove armi mortali in circolazione, come le lance con la punta indurita a fuoco. Poteva andar bene finché i maschi tutt’al più si picchiavano in testa con le vecchie clave, ma non adesso».

« Per te, però, andava bene » osservai acido.

« I tempi sono cambiati » disse papà. « O piuttosto, non sono cambiati, e questo è il guaio. Siamo più indietro di quanto credessi. Attardarsi come se fossi­mo contemporanei dello Hìpparìon non serve a nien­te. Non funziona. A questo modo, la specie ristagne­rebbe, e sarebbe fatale. Abbiamo il fuoco, ma non siamo capaci di farlo; sappiamo procurarci la carne, ma passiamo metà del nostro tempo a masticarla; abbiamo le lance, ma la loro gittata non supera i set­tanta metri… ».

«Ottantasette metri» precisò Oswald.

«Subnormale! » lo sferzò papà. «Parlo della gitta­ta utile. Alexander, tu sai disegnare, ma non sei in grado di fissare i tuoi disegni. Wilbur, tu sai affila­re la selce per farne buone scuri, ma – mi dispiace dovertelo dire — è roba ben poco migliore degli còli­ti. Quanto a te, Ernest, tu credi di saper pensare, ma in realtà non puoi, perché la gamma delle cose che facciamo è troppo limitata. Ciò significa non poter estendere il nostro ridottissimo vocabolario e la nostra rudimentale grammatica; il che, a sua volta, comporta scarsa capacità di astrazione. Il linguaggio precede e nutre il pensiero, come sai; e in realtà è poco più che una cortesia chiamare linguaggio le poche centinaia di sostantivi di cui disponiamo, la ventina di verbi tuttofare, la misera scorta di prepo­sizioni e di suffissi, la continua necessità dell’enfasi, della gesticolazione e dell’onomatopea per rimedia­re alla scarsità dei casi e dei tempi. No, no, figlioli miei; culturalmente siamo poco più evoluti del Pithecanthropus erectus, il quale, credete a me, ha il destino segnato. Avete sentito quello che ne diceva il com­pianto zio lan: è destinato a finire nella discarica dei fallimenti della natura».

« Io li ammazzo sempre, quando li vedo » si gloriò Oswald.
« E fai benissimo » disse papà. « Ma noi non voglia­mo fare la stessa fine. Ecco perché dobbiamo imporci questo sacrificio. Cercate di considerare la faccenda in maniera ragionevole, da adulti respon­sabili» aggiunse nel tono di chi rivolge un appello. «Certo che è scomodo: non lo nego. Ed è una cosa nuova. Ci vorrà un po’ di tempo per farci l’abitudi­ne… se mai ci si riuscirà. Ma non si può costruire un bacino d’acqua senza creare barriere, inibizioni, fru­strazioni, complessi. L’idea me l’hanno data i castori. Loro fermano i fiumi; e guardate un po’ che forza acquista la corrente quando passa nello stretto varco che le lasciano. Guardate le cascate Murchison, per farvene un’idea; o, meglio ancora, le cascate Vitto­ria. Guardatele bene, e capirete ciò che intendo: uno sbarramento, per sviluppare una forza irresistibile.
Solo che noi non siamo fiumi; dunque, è una cosa che dobbiamo fare nella testa».
« In questo momento io ho in testa una cateratta» disse Wilbur, e si sedette affondando il muso tra le mani.
«E difficile capire, all’inizio» disse papà. «Ma se dobbiamo risolvere problemi, se dobbiamo acquisire una natura capace di individuare e risolvere proble­mi, è inevitabile possedere una morale, una coscien­za; e quindi difficoltà personali da sbrogliare con pena, cercando magari sollievo con l’imporre la nostra volontà a oggetti inanimati che stanno fuori della nostra testa».
«Saremo molto infelici…» osservai «tanto infelici da rinunciare ad agire. E la felicità che rende la vita interessante».
« Neanche per sogno! » ribattè allegramente papà. « Infiacchisce, la felicità. Dalle tribolazioni private ti volgerai al lavoro, mettendoci nuova energia».
«Non ci credo» gli risposi.
« Con il tempo ci crederai. E devi ammettere che è piuttosto sensato evitare di contendersi sanguinosa­mente zie e sorelle. Con tutto questo fuoco in giro, il senso morale dell’uomo rischia di scomparire, oscu­rato dalla potenza tecnologica».
« E una considerazione capziosa » affermai.
« Ma temo che siamo destinati a sentirla ripetere sempre più spesso».
«Intendo dire» continuai «che contraddice l’os­servazione precedente. Un momento fa, hai detto che c’è bisogno di una morale sessuale per generare il progresso tecnologico, e ora sostieni che serve per poterlo controllare. Quale delle due cose intendi?».
« Tutt’e due » rispose papà. « Sono ipotesi alterna- live – un metodo rispettabilissimo per affrontare scientificamente i problemi. Nell’un modo o nell’al­tro, farete come dico io».
« E frattanto, » osservai sarcasticamente « mentre noialtri battiamo foreste e praterie per diventare esogami e civili, tu a casa potrai avere tutte le donne per te. Vorrei sapere che cos’è questa se non la vec­chissima storia del padre dell’orda, geloso dei figli che crescono».
« Ma andiamo, Ernest! » ribattè lui con infastidita sufficienza. «Questa non me la merito proprio. So­no sempre stato un padre fin troppo indulgente. Potevo essere il truce capo dell’orda che a un certo punto espelle i figli a calcioni; invece vi ho portato a un’usmata di distanza da… ahhh… una frotta di deli­ziose fanciulle. E poi, non è certo di me che si può dire che sono un tipo eccessivamente attaccato alle donne: le ho sempre trovate stucchevoli. Tutte uguali: nude, in massa, sono tremendamente noio­se. Con questo, non voglio dire una parola contro le vostre care madri; neanche una. Ma i miei veri inte­ressi sono di carattere scientifico».
«Papà» intervenne Alexander, che se n’era stato zitto, fino ad allora. « Papà, ma come si fa a procu­rarsi queste ragazze di fuori?».
«Le si corteggia» disse papà. Poi aggiunse, dub­bioso: «Almeno credo. Un po’ come fanno gli ani­mali. Gonfiate il petto, come i piccioni, oppure le guance come le rane, o fatevi venire le chiappe aran­cione, o qualcosa del genere».
«Ma io non ci riesco» obiettò Alexander. «E comunque, me ne vergognerei troppo».
«Qui ti volevo!» esclamò papà. «Dovrai arran­giarti, cavartela da solo. Non vorrai che sia sempre io, a risolvere tutte le tue difficoltà?! E quando sare­te tutti felicemente accoppiati, potrete portare a casa le ragazze. Allora avremo una tribù, invece di una semplice orda. Adesso filate. E, Oswald… non cer­care di seguire le mie tracce. I tuoi trucchi li conosco tutti; sono buoni, ma ho quarantanni di esperienza a caccia e ti posso garantire che ti conficco questa lancia nel diaframma, quanto è vero che lo Hoplo- phoneus era un felino. Andate!».

Penso che, se avessimo voluto, saremmo riusciti a sopraffare papà; ma certo uno o due di noi ci avreb­bero rimesso la pelle. Così, imprecando e ringhian­do, fummo costretti a ritirarci, sempre sotto la mi­naccia della sua poderosa lancia. Quando fummo fuori tiro gli voltammo le spalle e sgattaiolammo verso sud.
Fatti alcuni chilometri, Oswald diede l’alt. Adesso era lui il capo riconosciuto.
« Sentite, fratelli » disse. « Non c’è sugo a continua­re così alla cieca. Dobbiamo parlare, fare un piano d’azione. Il maledetto vecchio ci ha messo nei guai; ma adesso dobbiamo ballare. A fiuto, direi che que­sta gente sta a non più di una ventina di chilometri da noi. Non sappiamo che tipi sono, né che cos’han­no in mente. Magari sono venuti da queste parti per cacciare: potrebbero prenderci per babbuini e farci la festa».

«Macché babbuini!» protestò Wilbur.

«Be’, dipende da quale di noi avvistano per pri­mo» grugnì un fratello. «Non ha senso rischiare».
« Se ci assomigliano solo un po’, prima ci infilzano e poi fanno domande » dissi io. « Credo che tu abbia ragione, fratello. Bisogna avvicinarsi con tutte le precauzioni. Che cosa suggerisci?».
« La prima cosa da fare è armarci » affermò Oswald deciso. « Il vecchio ci ha preso le armi. Ora è compito tuo, Wilbur: trova un po’ di selci e fanne asce e lame per appuntire le lance. Intanto noi an­diamo a fare raccolta di bastoni per fabbricare lance e clave».
« Ma non capisco a che serve » fece Alexander. «Non è meglio presentarsi e spiegare quello che sia­mo venuti a fare? Siamo corteggiatori, noi, non cac­ciatori».
«E la stessa cosa» disse Oswald.
« Proprio così » confermai. « Dobbiamo avvicinarci di soppiatto e dare subito un’occhiata all’orda. Noi siamo in quattro, e loro magari in quaranta. Se si stanno muovendo conviene braccarli, tagliando fuo­ri eventuali ragazze sbandate; oppure attaccarli di notte, come iene, e portarci via una ragazza per uno ». Oswald annuì: «Sono d’accordo con Ernest. Cre­dete che siano disposti a perdere le loro donne così di buon grado? Non la penseranno certo come papà, sugli accoppiamenti in famiglia, e non gradi­ranno affatto quello che ci prepariamo a fargli».
«Be’» brontolò Alexander «secondo me non è questa la maniera più gentile per procurarsi l’affetto di una ragazza…»; ma poi, come sempre, chinò la schiena e si mise a lavorare anche lui ai preparativi. Avevamo quasi finito quando fu folgorato da un dubbio tremendo: «Ma, fratelli, vi siete chiesti se… be’, se piaceremo alle ragazze?».
«Piaceremo, altroché!» ringhiò cupo Oswald, li­sciando il manico di una clava da un metro. Quando ci sembrò che tutto fosse pronto, ripren­demmo il cammino, stando bene attenti a procedere controvento; fino al calar della notte non ci avvici­nammo troppo. Poi trovammo un posto per accam­parci. All’alba, col favore della prima nebbiolina, sa­limmo su una collinetta che avevamo prescelto per­ché consentiva di abbracciare con lo sguardo il posto dove l’orda viveva. Quando la nebbia cominciò a dis­solversi, ci accorgemmo che si trovavano proprio sotto di noi.

Vivevano in riva a uno degli scintillanti laghi che irrigano l’Africa dall’Etiopia allo Zambesi, in fitta e ininterrotta catena. I bordi di quella immensa diste­sa grigio-azzurra erano orlati da una serie di vulca­ni, ognuno con il suo pennacchio di fumo levato ver­so l’azzurro pallido del cielo. Ma nell’accampamento sotto i nostri occhi non c’era traccia di fumo a far da contrappunto. La località era un promontorio fian­cheggiato da paludi fitte di papiri e di erba tifa; nel greto sassoso si aprivano qua e là buche, a volte co­perte con rami di palma e di bambù, a mo’ di mise­ro tetto. Solo il ticchettìo della selce picchiata sulla selce diceva che quelle figurette olivastre accuccia- te erano uomini scimmia e non un branco di scim­panzé.
«Non hanno il fuoco, e nemmeno una caverna» disse Oswald, disgustato.
« E neanche idea di come si lavora la selce. Sentite che roba! » esclamò Wilbur.

« E noi dovremmo imparentarci con tipi così? » sbottai. «Altro che selezione naturale!». Tutta l’a­credine nei confronti di papà tornò a mordermi.
Via via che la luce del giorno aumentava, lo squal­lore di questo slum paleolitico si palesava sempre più desolante. Ma Alexander osservò: «Non credo che sia poi così brutta come pensate. Quella là a me piace abbastanza». Tutti guardammo nella direzio­ne che i suoi occhi indicavano: da una buca coperta di frasche strisciava fuori, per andare a bere al lago, una ragazza innegabilmente carina.
« Fancocero! Hai proprio ragione! » proruppe Oswald travolto da improvviso entusiasmo. « Ha due quarti posteriori degni di un ippopotamo! Fantasti­ca! Chi l’avrebbe mai detto, in un immondezzaio del genere? ».
«Ce n’è un’altra!» soggiunse Alexander con un sussurro estatico. Aveva ragione: una seconda, gio­vanissima bellezza campagnola era appena sbucata all’aria mattutina e si stiracchiava sotto i nostri occhi, sporgendo il busto in una serie di profonde inspira­zioni. Poi scese all’acqua, caracollando morbidamen­te; ma subito la seguì un’altra stupenda femmina della specie, di proporzioni assolutamente elefante­sche: Oswald fece appena in tempo a soffocare il fischio d’approvazione che già affiorava sulle lab­bra di Wilbur.
«Controllati, macaco! » ringhiò Oswald, ma intan­to anche lui stava letteralmente divorando con gli occhi la ragazza.
«Be’, che cosa aspettiamo?» domandò Wilbur. «Andiamo giù e prendiamocene una per uno».

« Ecco che cosa aspettiamo » lo fermò Oswald. Lo vedemmo anche noi: una figura inequivocabilmen­te paterna, indubbiamente subumana nelle linee ge­nerali, ma del tutto gorillesca quanto a sviluppo mu­scolare e ampiezza di spalle. Il bruto cominciò a per­lustrare, avanti e indietro, la base del promontorio, con un poderoso randello in mano, spalancando ogni poco le nari fiammeggianti alla brezza. I suoi ringhi e grugniti minacciosi potevamo sentirli benis­simo anche dalla nostra postazione, e avevano un solo, chiarissimo significato: vietato l’ingresso.

«Vedo» fece Wilbur; ed effettivamente il nostro ardore sbollì alquanto, alla vista di così .truce senti­nella.

« Un attacco frontale è fuori discussione: ci coste­rebbe troppe perdite» osservò Oswald. «Tiriamoci un po’ indietro ed esaminiamo il da farsi».

Nelle retrovie tenemmo un consiglio di guerra. « Io sono per l’attacco notturno » disse Oswald. « Li assaliamo al buio, ruggendo come leoni, arraffiamo una ragazza a testa e ce la squagliamo prima che il vecchio se ne sia reso conto. Che ne dite?».

Ci pensai un momento: «Mah, ho il sospetto che quello dorma con un occhio solo: con tutte quelle belle ragazze in giro… E poi, potrebbero esserci anche dei fratelli, di guardia, i quali certo darebbero l’allarme, se sentissero arrivare qualche leone. Ma ammettiamo pure di arrivare fin là: al buio non vedremmo chi portiamo via. E se poi è la nonna?».

Tutti annuirono vigorosamente: «Hai ragione, non può funzionare» disse Alexander.

«Allora proponi tu qualcosa» berciò Oswald.

«Non potremmo portare qualche torcia?» azzar­dò Alexander.

«Mmm… è un’idea» disse Oswald. «Forse hai tro­vato la soluzione. Dovrebbero spaventarsi, come qualsiasi animale. Noi irrompiamo con le torce in mano, alla luce del fuoco scegliamo le ragazze che vogliamo e ce la battiamo mentre l’orda è ancora in preda al panico».

Scossi la testa. « Niente da fare, non va bene nean­che così. Riflettete: il vulcano più vicino è a quaran­ta chilometri, e noi con le torce saremmo visibili da molto lontano. Ci vedrebbero arrivare con grande anticipo e perderemmo il fattore sorpresa; anche se scappassero spaventati, le ragazze andrebbero con loro ».

« D’accordo » disse Oswald. « Questo taglia la testa al toro. Ma adesso suggerisci tu come fare, Ernest, se ne sei capace. A me sembra che non metteremo mai le mani su quelle ragazze, se voialtri continuate a cri­ticare tutto».

Ma io avevo riflettuto, e nella mente mi si era già formato un piano. « Credo che la soluzione ci sia, e anche piuttosto semplice » dissi lentamente. « Pensa­te: non hanno il fuoco, dunque non possono andare a caccia grossa. Sono raccoglitori, più che cacciatori: ciò vuol dire che devono allontanarsi molto dal cam­po per procurarsi cibo bastante per tutta l’orda. E ciò a sua volta vuol dire, potrei scommetterci, che anche le ragazze partecipano alle battute, cercando di acchiappare conigli, galagoni, insetti e roba del genere, mentre i maschi fanno la posta all’antilope. Sono convinto che si sparpagliano molto. Propongo allora di fare così: dividiamo la zona in quattro setto­ri, uno per ciascuno di noi. Quando un gruppo di cacciatori entrerà in un settore, starà a quello di noi che vi è stato assegnato seguirli, cogliere l’occasione di tagliar fuori una ragazza, catturarla e portarsela via. Certo poi se ne accorgeranno, che manca, ma è probabile che daranno la colpa a qualche leopardo. Chissà quante volte è già successo! Può darsi che qualcuno di noi non sia fortunato; ma, dividendoci, suddividiamo il rischio. Un mese di tempo dovrebbe bastare, per catturare una ragazza; per cui, propon­go di ritrovarci alla prossima luna, nel posto dove abbiamo lasciato papà. Poi torneremo a casa tutti insieme. Con un po’ di fortuna ci riusciremo, e ognuno avrà la sua ragazza».

I miei fratelli ci pensarono un po’ sopra, ma dopo qualche breve discussione il piano fu accettato: era il più pratico, date le circostanze. In fondo, il fattore sorpresa era dalla nostra; l’orda non poteva nutrire il minimo sospetto di quel che stavamo architettan­do, perché questa forma di accoppiamento costitui­va, allora, una novità impensata. Dunque era molto probabile che riuscissimo davvero a filarcela tutti con il nostro bottino.

Fu così che conobbi Griselda.

Il primo corteggiamento

«Ciao» mi disse. «Sai che sei tutto sudato?».

Ero sudato, sì. Mi sembrava di aver battuto in lun­go e in largo tutta l’Africa per correre dietro a quel­l’odiosa ragazza. Il mio piano aveva funzionato perfettamente. Ci eravamo spartiti il territorio in riva al lago e ciascuno si era appostato in attesa della preda, i ome un ragno al centro della ragnatela. Secondo le previsioni, l’orda si era sparpagliata alla ricerca di cibo: chi a raccogliere uova di coccodrillo, chi a de­vastare formicai per stanarne manguste, chi a tirar sassi alle scimmie e alle piccole antilopi di bosco; anche le ragazze partecipavano alia caccia. Io braccai il gruppetto che era entrato nel mio territorio; li spiai finché una ragazza non si separò dal resto; manovrai in modo da trovarmi tra lei e gli altri del suo gruppo; cominciai ad avanzare nella sua direzio­ne ringhiando come un leopardo; riuscii a spingerla sempre più lontano; infine, quando fui sicuro che i suoi parenti non potessero più sentirne le grida di aiuto, andai alla carica. Credevo che sarebbe stato l’affare di un momento, atterrarla o spingerla con­no qualche tronco; ma come mi sbagliavo! Quando arrivai nel punto dove contavo di trovarla, per saltarle addosso, la vidi che correva, un buon centinaio di metri più in là; e io già ansimavo.

Provai a ragionare: se sullo scatto mi batteva (io non ero certo un leopardo), sarei dovuto riuscire a sfiancarla in una corsa prolungata – e decisi di fare così. C’era solo da temere che lei potesse compiere un largo giro, per tornare al punto di partenza; ma tutte le volte che accennò a provarci, a prezzo di sforzi tremendi riuscii a tagliarle la strada. Purtroppo questi suoi tentativi capitavano sempre quando la natura del terreno era tale da costringermi a penetrare in una palude – e certo lei doveva saperlo, quali erano le più insidiose, fangose, infestate di sanguisughe. Ma ci voleva altro che trucchetti del genere, per scoraggiarmi: le mostrai che, se non era un leopardo a inseguirla, era almeno un ippopotamo. Quando emergevo dalla palude, grondante fango e coperto di sanguisughe da capo a piedi, lei si infilava nell’erba alta, correndo all’andatura di uno struzzo, e con la stessa energia; e, come gli struzzi, sembrava immune dalle zecche, che si attaccavano tutte a me. Ma non persi mai di vista l’onda delle sue penne timoniere; rimasi sempre avvinghiato alle sue tracce; rifiutai di deflettere da quell’usta.

Allora cercava di confondermi attraversando qualche specchio d’acqua. Scoprii così che, oltre a correre veloce come uno struzzo, nuotava più rapida di un coccodrillo. E i coccodrilli lei li provocava apposta, attraversando fiumi e laghi: batteva l’acqua come fanno i gibboni quando precipitano dai rami su cui stanno appesi e vengono portati via dalla corrente. Così, quando mi tuffavo io, i coccodrilli erano già all’erta e, non riuscendo a prendere lei, facevano in fretta a volgersi contro di me. Fu in tali circostanze che inventai lì per lì un crawl velocissimo, di cui sarei ben potuto andare orgoglioso, se solo avessi avuto il tempo di pensarci.

Oppure, si ingegnava di seminarmi schizzando all’improvviso in mezzo a un branco di leoni distesi al sole, o di tigri dai denti a sciabola intente ad allattare i cuccioli. Faceva così quando era molto vicina a un albero altissimo, e io invece proprio al centro di una radura. Passammo parecchie notti in cima agli alberi, distanti l’uno dall’altra non più di duecento metri; e sempre mi dicevo che, quando i leoni si fossero stancati di aspettare, l’avrei presa; e sempre scoprivo, poi, che era a terra e in fuga prima di me.

Valicò diverse montagne. In salita, riuscivo ad avvicinarmi molto; se non fosse stato per i sassi che, nel disperato tentativo di sfuggirmi, smuoveva coi piedi facendomeli cadere in testa – di solito mentre ero impegnato in passaggi difficili — l’avrei presa. Ma, in discesa, tornava a distanziarmi; forse perché avevo il mal di testa.

Essendo in vantaggio, poteva sempre catturare al volo lepri, scoiattoli e procavie, e così mangiava quando voleva; ma, ora che arrivavo io, tutta la selvaggina era sparita, e dovevo accontentarmi dei suoi scarti più indigesti. Quando non ero affamato, avevo il mal di stomaco.

Di tanto in tanto mi chiedevo se la ragazza ne valeva la pena. Più di una volta mi risposi di no, e rallentai. Che cosa me ne facevo di una compagna, dopo tutto? Esaminando i miei sentimenti, scoprii che, in tondo, mi era indifferente. Forse il reale valore di quell’esperienza consisteva nel convincermi che ero fatto per il celibato. Ma proprio in quella la ragazza balzava fuori all’improvviso da un cespuglio a non più di venti passi di distanza, con uno strillo disperato, e l’occasione di prenderla sembrava troppo ghiotta per lasciarla perdere; impugnavo la clava e ripartivo di gran carriera. Ma sempre, con questo o quel trucco, tornava a distanziarmi.

A poco a poco rallentai l’andatura; alla fine camminavo, non correvo. Proprio non avevo più sprint, neanche quando la vedevo stagliarsi sul profilo di una collina, o quando sembrava impaniata tra le liane della giungla, lì, a portata di mano. Non ne potevo più. Se Oswald riusciva a catturare una di queste donne, avrei riconosciuto che era il migliore. Avrei chiuso questa faccenda del corteggiamento e raggiunto gli altri al luogo convenuto.

Arrivai a questa decisione proprio mentre sbucavo in una radura della foresta; e lì, seduta su un tronco caduto, intenta a pettinarsi i lunghi capelli fulvi con una lisca di pesce, Griselda mi sorrise.

«Sei tutto sudato… e anche stufo».

«T’ho presa, finalmente» ansimai, poco convinto; e alzai la clava.

Lei batté con la mano sul tronco: « Vieni a sederti qui vicino, e dimmi tutto di te. Muoio dalla voglia di sapere! ».

Sembrava che non ci fosse nient’altro da fare, e comunque mi dolevano le ginocchia per la fatica. Mi accomodai e lei prese la clava e la posò accanto a noi. Mi asciugai la fronte dal sudore con una manciata d’erba stella.

« Ohi! » dissi.

«Come ti chiami?» chiese, con voce morbida e incoraggiante.

« Ernest».

«Che bel nome! Ti sta bene. Sei così serio e compunto. Io mi chiamo Griselda. Un po’ sciocco, ma i miei genitori hanno delle idee tremendamente romantiche. Anch’io, però! E tu, sei romantico?».

«No» dissi.

«Devi esserlo per forza, a corrermi dietro tutto questo tempo! Povera me! Non riuscivo a scrollarti di dosso, non ci riuscivo proprio. Ma devi ammettere che ho fatto del mio meglio. Sono scappata per dieci interi giorni».

«Undici» precisai. «Quasi dodici».

« Davvero? » disse Griselda senza curarsene. « Come vola il tempo quando si è interessati, non è vero? T’è piaciuta la caccia?». I suoi grandi occhi bruni, dolci laghetti sotto la cui superficie immota coccodrilli si celavano acquattati, mi fissavano interrogativi.

« Ehm… tantissimo » dissi.

«Allora va tutto bene» disse lei. «In qualche modo ne ero sicura, Ernest, che ci saremmo intesi».

«Ah sì?».

Unì le mani, e anche i piedi. «Dal primissimo giorno che ti ho fiutato nell’aria. Ho pensato: ma che persona interessante; così insolita, così… be’, così diversa ».

Quasi controvoglia, ne fui incuriosito. « E quando è stato, Griselda?».

«Ma come?! Il giorno che sei arrivato, naturalmente. Tu e i tuoi fratelli. Quando siete saliti su quella collina a occhieggiarci. È stata una cosa proprio indelicata. Papà si è arrabbiato terribilmente. Ha detto che le nuove generazioni non conoscono le buone maniere, e ci ha proibito qualunque contatto. Diceva che prima voleva scambiare lui due parole con voialtri».

«Allora sapevate tutto» dissi, greve. «Ci avevate già visti e fiutati».

«Ma solo perché eravate così diversi» si affrettò .KI aggiungere Griselda. «Così inconfondibili…» Abbassò la voce e disse dolcemente: « … così distinti».

«E avevate anche… avevate capito perché eravamo venuti?».

«Più o meno» disse lei. «Era abbastanza ovvio, no? Noi – le mie sorelle ed io – eravamo eccitatissime ».

«Ma guarda! Dici davvero?».

« Certo! Dove abitiamo noi non si vede molta gente. E un posto noiosissimo». Assunse un’espressione imbronciata. «Papà non ci lascia mai divertire. O se ci lascia, be’…».

«Già» dissi io. «Ci ha un po’ scoraggiati ».

« Lo temevamo, infatti. Dunque, ammetterai che era un problema. Per fortuna aveva appena avuto un brutto incidente con un rinoceronte: uno scontro frontale, sai, nessuno dei due guardava dove stava andando. Ciò ha indebolito il fiuto di papà, e gli ha fatto venire anche un po’ di astigmatismo».

«E il rinoceronte?».

« L’abbiamo mangiato. Be’, papà ci aveva detto di stare a casa e nutrirci di anguille e pesce finché non fosse riuscito a scovarvi tutti; ma noi l’abbiamo persuaso che eravate già scappati. Va molto fiero della sua prestanza – ma poi, a conoscerlo, si rivela una brava persona. Così ci ha dato il permesso di uscire come al solito. E tu mi hai trovata, mi hai dato una caccia spietata, ed eccomi qua!». Abbassò gli occhi, sottomessa.

«Griselda» dissi «mettiamo subito in chiaro una cosa. Debbo arguire che avete ingannato vostro padre, il capo dell’orda, e siete andate a caccia pur sapendo benissimo che noi eravamo in agguato?».

«Be’, non è che lo sapessi con sicurezza, ma lo immaginavo… ».

« E quando io imitavo il brontolìo del leone o del-l’ippopotamo, tu eri convinta che non si trattasse di leoni o ippopotami, bensì di me?».

«Credo che riconoscerei la tua voce ovunque, Ernest; è così… così inconfondibile, così…».

«E poi» proseguii «senza avere la minima paura… ».

« Ero pietrificata! ».

«Senza avere la minima paura,» gridai «quando t’ho inseguita sei scappata deliberatamente, come disperata, attraverso fiumi e paludi e giungle impenetrabili e su e giù per le montagne quasi fossi un incrocio fra un’anitra, uno struzzo e una capra…».

«Oh, tesoro, che cose carine sai dirmi!».

«E per tutto quel tempo mi stavi soltanto prendendo in giro, e non avevi nessuna intenzione di seminarmi per davvero?».

«Ma certo che no!».

La fissai senza parole, paralizzato dall’ira.

« Mio caro » protestò lei. « Ogni ragazza ha il suo pudore da difendere, sai…».

«Pudore! Tu!…».

« Io, sicuro! » disse lei con dignità. « Inoltre, pensavo che ti divertissi. Volevo compiacerti, offrendoti una bella corsetta».

«Compiacermi! » ululai. « Bella corsetta! Avrei potuto lasciarci la pelle una dozzina di volte…».

« Oh, non credo proprio, Ernest. Sei così vigoroso… e così ardente, a darmi la caccia così a lungo. Sai, in realtà non vedevo l’ora che tu mi prendessi».

«Non credo una parola» ruggii. «Mi hai sbertucciato! Mi hai portato in giro per tutta la giungla! Sei una ragazza bestiale. Non so che cos’abbia mai fiutato in te! Non voglio avere più niente a che fare con le, hai sentito? Più niente! Ti odio».

Gli occhioni bruni di Griselda si riempirono lentamente di lacrime.

« Io… ho… soltanto… cercato… di essere… carina… con te…».

Mi alzai.

« Me ne vado» grugnii. «Tornatene a casa da sola, la strada la sai. Non ti catturerò».

Protese una mano alla cieca.

«Oh, ma… ma tu mi hai già catturata! Non puoi più andartene. Siamo una coppia».

Questa idea mi fece vacillare.

« Io non ti ho catturata, Griselda. Noi non siamo una coppia. Me ne vado, ti ho detto».

« Non puoi. Sarebbe un disonore troppo forte. E’ … è rottura di fidanzamento! Corrermi dietro tanto a lungo e poi rimandarmi indietro, come un nucleo di selce usato. A casa non ci posso più tomare meglio morta. Se… se mi lasci, morirò. Mi hai presa e adesso devi tenermi».

«Sciocchezze!» le risposi, ma mi sentivo stranamente turbato. «Me ne vado, e non tornerò indietro. Addio».

Aspettai che dicesse qualcosa… che ammettesse di non essere stata catturata e accettasse di tornare a casa. Ma continuava a singhiozzare. Furioso, mi addentrai nella foresta. Dimenticai completamente la clava.

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