L’immagine del bambino nelle scienze dell’educazione

by gabriella

A partire da Rousseau, Pestalozzi, Fröbel e Maria Montessori, le scienze dell’educazione scoprono l’infanzia, riconoscendo i suoi caratteri specifici e abbandonando l’idea tradizionale del bambino come «adulto incompiuto». La loro nascita coincide con l’inizio dello studio dei dinamismi psico-evolutivi dell’infanzia, dai tempi, ai ritmi e agli stili d’apprendimento.

Nel testo seguente, una carrellata di visioni dell′infanzia, da quelle di Fröbel, Montessori e le Agazzi a Piaget, Vygotskij, Bruner, Gardner, ed altri.

 

Indice

1. Fröbel
2. Maria Montessori
3. Rosa e Carolina Agazzi
4. Lo sguardo psicopedagogico

4.1 Il bambino cognitivo di Jean Piaget
4.2 Il bambino sociale di Vygotskij
4.3 Il bambino costruzionista di Bruner
4.4 Il bambino multimodale di Gardner
4.5 Il bambino “ambiguo” di Freud
4.6 Il bambino secondo la psicologia umanistica

 

5. Lo sguardo socio-pedagogico

5.1 Il bambino “socializzato”di Durkheim e Parsons
5.2 Il contributo dell’interazionismo simbolico: George Herbert Mead ed Herbert Blumer
5.3 La sociologia fenomenologica: Alfred Schütz

 

1. Fröbel

Friedrich Fröbel (1782 – 1852)

Friedrich Fröbel è il fondatore della scuola dell’infanzia (kindergarten) moderna, un’istituzione educativa dedicata ai bambini in età prescolare con una struttura, delle finalità e una metodologia proprie. Fondamentali sono le sue riflessioni sul ruolo del gioco nello sviluppo psico-fisico infantile.

Fröbel è un pensatore importante perché comprende che l’infanzia ha bisogno di mezzi e spazi propri e che l’apprendimento della letto-scrittura non deve essere anticipato.

Johann Heinrich Pestalozzi (1746 – 1827)

Il pedagogista nasce in Turingia nel 1782 in una famiglia protestante. Dopo studi piuttosto inconcludenti, incontra Pestalozzi a Yverdon e scopre la sua vocazione di educatore.

Oltre a questo incontro, un altro elemento utile per capire la genesi della sua visione del kindergarten è il suo rapporto istintivo con la natura: le lunghe escursioni, da ragazzo, nelle foreste della Turingia; le cure dedicate all’ampio orto-giardino del padre; il primo impiego come apprendista forestale ad appena quindici anni.

Della natura interessano a Fröbel l’interna struttura, la scoperta delle leggi che la regolano, l’intuizione che nella molteplicità dei suoi aspetti essa rappresenta un’unità. Sarà questo il motivo fondante la sua visione filosofica dell’educazione, ispirata a una concezione unitaria della realtà e della cultura:

«La più elevata idea sorse in me: tutto è unità, è fondato sull’unità, muove dall’unità; tutto tende, conduce e ritorna all’unità. Di conseguenza, l’aspirazione al raggiungimento dell’unità è la base delle molteplici attività umane».

Prima di Fröbel, nessuno aveva identificato l’infanzia con il gioco, o aveva visto nel gioco l’attività fondamentale del bambino.

La centralità del gioco fa sì che l’attività ludica orienti il bambino in direzione dell’espressività pittorica, linguistica, motoria, grafica e manipolativa; e poiché Fröbel identifica il gioco con la creatività, la totalità dell’esperienza del bambino, in questa sua prima fase di sviluppo, assume una colorazione estetica. Pittura, disegno, manipolazione, movimento sono espressione, e dunque linguaggi della soggettività.

Oltre al disegno e alla manipolazione, Fröbel include nel quadro pedagogico di questa fase dell’educazione infantile, il movimento e gli esercizi corporei, e, ancora, il ritmo, la musica, la danza, nonché le attività domestiche che il bambino può compiere in seno alla famiglia.

Fröbel disegna con estrema cura un modello istituzionale della scuola dell’infanzia. Il Kindergarten è una «scuola» in senso proprio, ordinata sui fondamenti della psicologia infantile, e conseguentemente superiore alle «sale di custodia» aperte nell’800 per ospitare i figli delle operaie che il pedagogista critica decisamente.

Fröbel è il primo pedagogista che costruisce una scuola per le necessità di sviluppo del bambino, senza condizionamenti sociali esterni o preoccupazioni anticipatorie della scuola elementare.

La struttura del Giardino d’infanzia sostiene le tre grandi attività del lavoro (su proprietà «private» e comuni), del gioco e dell’apprendimento mediante l’uso dei «doni».

Nelle aree di lavoro i bambini coltivano piante e condividono momenti di socialità. Nell’area dedicata al gioco, i bambini si dedicano alla loro attività preferita, il gioco, spesso serio, non solo perché non sempre esso è fine a se stesso, ma perché costituisce il modo stesso di vivere dei bambini, il momento in cui la fantasia si fonde con la realtà.

La terza area, dedicata all’apprendimento, è invece occupata dai doni, cioè dal materiale didattico che, per la sua specificità, ha costituito a lungo la nota caratterizzante della didattica del Kindergarten nel mondo.

I doni sono oggetti geometrici assemblabili (cubi, cilindri, sfere) che devono favorire, attraverso la manipolazione, l’apprendimento della struttura spaziale della realtà. Con questi oggetti i bambini imparano a costruire e apprendono le specificità geometriche dei solidi, ma anche il loro significato simbolico: la sfera rappresenta l’unità, le altre figure invece, la molteplicità del reale che dev’essere ricondotta ad unità.

 

2. Maria Montessori

Maria Montessori (1850 – 1952)

Anche per Maria Montessori, il bambino è un soggetto dotato di una struttura psichica e affettiva propria.

Le 3 chiavi d’oro della psicologia montessoriana sono 1) la concentrazione/polarizzazione dell’attenzione psichica; 2) la tesi della mente assorbente; 3. L’educazione come autoeducazione.

1. Secondo Maria Montessori, l’attività infantile è caratterizzata non dal gioco, ma dal lavoro. Il bambino montessoriano è laborioso, solitario, concentrato e ha bisogno di essere rispettato in questa sua natura per dar vita a un adulto sano.

Il metodo montessoriano è talmente incentrato sul materiale didattico da coincidere con esso: il materiale di sviluppo è ciò che rende attivo il bambino e lo fa crescere. Gli viene presentato da una maestra che gliene insegna l’uso poi sorveglia che il suo lavoro proceda regolarmente.

2. La mente del bambino, soprattutto nel bambino piccolo, è uno strumento che assorbe qualsiasi stimolo e o rielabora in vista dell’apprendimento. Non è una forma inferiore di intelligenza, ma un naturale processo di apprendimento.

3. L’idea di Montessori è che il bambino, lavorando e ordinando l’ambiente esterno, operi su se stesso in modo corrispondente.

 

3. Rosa e Carolina Agazzi

Rosa e Carolina Agazzi

Le sorelle Agazzi puntano, rispetto a Montessori, sulla dimensione affettiva della vita infantile. Nell’asilo infantile di Mompiano eliminano ogni precocità istruttiva, rendendolo a misura di bambino (Frobel).

A Mompiano  bambini vivevano in comunità, attendevano a lavori vari, alternati alla musica, al canto e ad esercizi di giardinaggio e all’allevamento di animali domestici. Mediante l’aiuto dei bambini più grandi, favorirono lo sviluppo della socializzazione e di un forte senso di collaborazione tra bambini

Tra le attività di vita pratica c’erano anche quelle legate all’igiene personale, alla preparazione della tavola, al riassetto e alla pulizia degli ambienti.

La libertà, la spontaneità e la operosità individuale, naturalmente, erano regolate dalle esigenze della vita in comune e stimolate da un materiale didattico non preordinato, non scientifico e occasionale, che veniva definito come un insieme di «cianfrusaglie senza brevetto», costituito da tutto ciò che i bambini stessi raccoglievano o costruivano da sé e che fu l’invenzione didattica più significativa delle Agazzi.

Il “Museo delle cianfrusaglie” era, quindi, un luogo (scaffale, teca, armadio) in cui tutte le cianfrusaglie (trovate dal bambino o da esso costruite) venivano raccolte e disposte secondo criteri didattici (colore, materia, forma, ecc.) per insegnare al bambino le qualità, le differenze e le somiglianze fra gli oggetti e, quindi, a prendere possesso della realtà.

Il metodo Agazzi non ha nulla di artificioso e di meccanico e, perciò, è stato talora contrapposto al metodo Montessori: l’ordine nasce qui dai bambini e non dall’ambiente preordinato scientificamente, come pure i materiali di studio sono spontaneamente raccolti e non predeterminati secondo criteri esclusivamente scientifici. In realtà, quella delle Agazzi rimase un’esperienza molto più limitata e concreta rispetto alla costruzione teorica dell’altra grande studiosa italiana.

Il metodo Agazzi ebbe, comunque, enorme successo (più di quello della Montessori) nell’Italia di fine Ottocento-inizi Novecento, perché era molto economico e facile da realizzare.
Al di la delle ineludibili differenze tra il bambino “ludico” delineato da Fröbel, quello “laborioso” delineato dalla Montessori e quello “domestico” delineato dalle Agazzi, il filo unitario che lega questi diversi profili è la centralità della sequenza gioco-lavoro.

Atmosfera familiare e spontaneità sono le caratteristiche della scuola agazziana. Se Montessori è la pedagogia scientifica, le Agazzi sono dunque quella familiare. Anche le Agazzi amano l’ordine: l’ordine materiale è la premessa di quello morale.

 

4. Lo sguardo psico-pedagogico

4.1 Il bambino cognitivo di Jean Piaget

4.1.1 L’intelligenza come processo attivo di adattamento

Jean Piaget (1896 – 1980)

Per Piaget, il bambino è predisposto fin da piccolo al pensiero intuitivo; è un bambino “competente”, capace di rappresentarsi il mondo attraverso mappe mentali coerenti e organiche.

Lo studioso pensava che l’intelligenza fosse un processo articolato e attivo che impegna il bambino fin dall’infanzia nell’interpretazione dei dati sensoriali e nella costruzione di significati. Come ogni altro fenomeno biologico, essa emerge dall’adattamento dell’individuo all’ambiente. 

Piaget cercò di superare la classica contrapposizione fra costruttivismo ed innatismo immaginando un soggetto che non risponde passivamente agli stimoli esterni, ma non è nemmeno è il veicolo di idee innate. Insistette su una conoscenza intesa come costruzione attiva dell’individuo, vista, quindi, non come uno stato, ma come un processo, cioè un’interazione costante fra il soggetto e il mondo esterno nella quale il soggetto costruisce le proprie strutture mentali in un rapporto attivo e non semplicemente ricettivo con gli stimoli esterni. 

In questo senso, Piaget pensava che l’intelligenza fosse la migliore capacità di adattarsi attivamente all’ambiente: intelligente è, quindi, dal suo punto di vista, il comportamento appropriato alle richieste dell’ambiente. Lo sviluppo dell’intelligenza avviene per stadi (o fasi): l’intelligenza, come vedremo, ha origini senso-motorie per sviluppare poi strutture cognitive capaci di astrazione.

 

4.1.2 Il processo conoscitivo

Questo processo di sviluppo avviene mediante delle regole di funzionamento generale che governano tutte le attività della persona e che Piaget chiama invarianti funzionali.

Questi sono, appunto, l’adattamento, che Piaget distingue in assimilazione e accomodamento, e l’organizzazione, cioè l’accordo del pensiero con le cose e del pensiero con se stesso.

Le strutture cognitive del bambino piccolo sono chiamate schemi.

Ogni schema è una totalità organizzata che, nell’interazione con l’ambiente, si generalizza e si coordina con altri schemi d’azione per costruire strutture più complesse.

Ad esempio, lo schema suzione, inizialmente manifestato a vuoto, si coordina poi con gli schemi visione, motricità e prensione, per guardare un oggetto in movimento, allungare il braccio, prenderlo e portarlo alla bocca per succhiarlo.

intorno ai 6/7 anni gli schemi di azione si organizzano in vere e proprie strutture mentali

Solo quando gli schemi di azione diventano schemi mentali e si organizzano in unità più ampie, si può parlare di vera struttura mentale (nei primi 7-8 anni di vita del bambino).

L’assimilazione è il processo di incorporazione di dati dell’esperienza all’interno degli schemi (o strutture) che l’individuo possiede e che non vengono, quindi, modificati dall’incontro con stimoli nuovi.

Nel processo di assimilazione, le informazioni provenienti dall’ambiente vengono filtrate dalla struttura cognitiva del bambino; la realtà circostante viene quindi adeguata all’organizzazione cognitiva che ha già maturato.

L’accomodamento è invece il processo inverso, per cui lo schema si modifica per accogliere i nuovi dati dell’esperienza.

accomodamento: gli stimoli ambientali hanno modificato lo schema iniziale di suzione degli oggetti

Ad esempio, dopo la fase dell’oralità, il bambino interviene sugli oggetti in modo diverso: li manipola, li getta, li compone: lo schema iniziale dell’esplorazione orale si è modificato, accomodato, attraverso i nuovi stimoli di cui il bambino ha fatto esperienza.

L’organizzazione indica il fatto che il pensiero tende a essere costituito da strutture, le cui parti sono integrate in modo da formare un insieme che orienta il comportamento e consente all’individuo di comprendere la realtà e attribuire significato all’esperienza.

 

 

 

4.1.3 Lo sviluppo stadiale dell’intelligenza

Avendo notato che in alcuni momenti dello sviluppo prevale l’assimilazione, in altri l’adattamento, Piaget sviluppò la distinzione degli stadi dello sviluppo cognitivo, individuando 4 periodi fondamentali, invariabili da individuo a individuo: lo stadio sensomotorio; lo stadio preoperatorio, lo stadio operatorio concreto e lo stadio operatorio formale.

stadio senso-motorio

Lo stadio sensomotorio (dalla nascita fino ai due anni): caratterizzato da un’attività essenzialmente percettiva nella quale il bambino parte da semplici schemi innati (riflessi) per arrivare all’acquisizione dei primi schemi motori (la prima forma di adattamento); il bambino è assolutamente egocentrico(egocentrismo radicale adualismoe non distingue il mondo da se stesso.

È intorno ai sei mesi che comincia a farsi un’idea di sé come entità separata dalle altre in un mondo di cose indipendenti, superando l’egocentrismo assoluto.

stadio preoperatorio

Lo stadio preoperatorio (2-7 anni): caratterizzato dall’inizio dell’attività simbolica, rivelata dal linguaggio verbale, dall’imitazione differita (imitare un’azione a distanza di tempo) e dal gioco simbolico (fingere di mangiare, di bere, di dormire) e dall’egocentrismo, cioè l’incapacità di concepire punti di vista differenti dai suoi.

Il bambino riesce a rappresentarsi un’azione con il pensiero, ma non è in grado di compiere operazioni con il pensiero, cioè di modificare tramite il pensiero i dati percettivi di un’attività motoria.

In questa fase, il dominio della percezione impedisce l’impiego della logica, carenza a cui il bambino supplisce con la sola intuizione. Il bambino, quindi, non è in grado di compiere una seriazione o una classificazione.

 

stadio delle operazioni concrete

Lo stadio delle operazioni concrete (7-11 anni): il bambino conquista la capacità di compiere operazioni mentali (o intellettuali) sugli oggetti, ma solo con un riferimento concreto a oggetti materiali e ad azioni reali.

Le azioni interiorizzate si coordinano e si raggruppano per dar luogo a delle strutture di insieme, appunto le operazioni intellettuali, caratterizzate dalla reversibilità: ogni azione è collegata logicamente alla sua inversa.

Il bambino, pertanto, è in grado di compiere le più importanti e basilari operazioni logiche, ovvero classificare e costruire delle serieriesce così a effettuare delle operazioni aritmetiche di numerazione.

Acquisisce la nozione di conservazione della sostanza, dei liquidi, del peso, del volume, ecc. nonché le nozioni di tempo, spazio, velocità, causa, caso, che costituiscono le operazioni infra-logiche.

stadio operazioni formali

Lo stadio delle operazioni formali (da 11 anni): il pensiero non esige più il sostegno dell’esperienza, né di schemi d’azione o di supporti materiali, ma procede da dati teorici e si esercita su ipotesi, lavora con concetti astratti e ricava conclusioni logiche attraverso deduzioni e induzioni: utilizza il procedimento ipotetico-deduttivo: il bambino sviluppa così il pensiero scientifico, oggettivo.

Parallelamente allo sviluppo intellettuale, si forma anche il giudizio morale. Il bambino passa infatti dall’anomia tipica dell’egocentrismo originario all’eteronomia dell’esteriorità della regola e dell’obbedienza all’adulto, fino all’interiorizzazione delle regole morali e all’autonomia, stimolata dalla cooperazione con gli altri e dalla reciprocità.

 

4.1.4 Le implicazioni pedagogiche

Dewey

Montessori

In questo quadro, l’insegnante non è qualcuno che trasmette un sapere cristallizzato, ma colui che aiuta il bambino a problematizzare l’esperienza, rendendolo consapevole delle proprie costruzioni mentali.

L’educazione non può precedere lo sviluppo, ma solo seguirlo, perché gli apprendimenti sono sostanzialmente l’esito di uno sviluppo biologico che procede per stadi.

L’epistemologia genetica di Piaget ha, dunque, fornito all’attivismo pedagogico una base scientifica. Poiché il bambino non impara in modo passivo, ma attraverso un’assimilazione attiva in rapporto all’ambiente, è infatti importante che la scuola sia organizzata in modo da permettere questa modalità di apprendimento.

In virtù di questa concezione, per Piaget l’intelligenza precede il linguaggio. La visione opposta è invece presente in Vygotskij e nella scuola storico-sociale.

4.2 Il bambino sociale di Lev Vygotskij

Lev Semënovič Vygotskij

Lev Semënovič Vygotskij

la natura psicologica dell’uomo rappresenta l’insieme delle relazioni sociali trasportate
all’interno e divenute funzioni della personalità e forme della sua struttura 

 

Nonostante la sua morte precoce e la doppia censura subita prima in Unione sovietica, poi negli Stati Uniti (quando, negli anni ’70, il suo Pensiero e linguaggio, scritto nel 1934, fu pubblicato), Lev Vygotskij rappresenta la più importante alternativa all’epistemologia genetica di Piaget.

Vygotskij nacque in Bielorussia nel 1896, studiò poi a Mosca dove si trasferì definitivamente dopo aver raggiunto una grande notorietà con le sue ricerche di psicologia dello sviluppo che evidenziano i limiti del modello piagettiano.

 

4.2.1 La critica all’«egocentrismo infantile» di Piaget

Dal punto di vista teorico, lo psicologo sovietico ha criticato l’assunto dell’«egocentrismo infantile» con cui Piaget riconduce a unità i vari elementi che caratterizzano la logica de bambino, trasformando una massa di tratti caotici e disordinati in un tutto strutturato di fenomeni spiegato da una causa.

 

4.2.2 Il linguaggio come prodotto sociale e base dell’intelligenza

Vygotskij sostiene invece che la direzione dello sviluppo del pensiero non va dall’individuale al sociale, ma segue la direzione inversa e che il linguaggio non segue il pensiero, ma lo precede.

L’idea centrale della prospettiva di Vygotskij è, infatti, che lo sviluppo della psiche è guidato e influenzato dal contesto sociale, quindi dalla cultura del particolare luogo e momento storico in cui l’individuo si trova a vivere e che provoca quindi delle stimolazioni nel bambino, e si sviluppa tramite “strumenti” (come il linguaggio) che l’ambiente mette a disposizione.

Dunque, mentre per Piaget, il linguaggio egocentrico non aveva una funzione importante nello sviluppo del bambino, per Vygotskij il ruolo socializzante del linguaggio è fondamentale nello sviluppo cognitivo, perché la coscienza è appunto il prodotto dello sviluppo dell’uomo nella società. La coscienza infantile, quindi, non emerge dallo sviluppo biologico, ma è un prodotto della socializzazione.

Di conseguenza, anche il rapporto sviluppo/apprendimento non è un rapporto causale: se per Piaget esso doveva seguire gli stadi d’apprendimento, per Vygotskij al contrario, è un agente socializzante che attiva l’evoluzione della mente infantile.

Si tratta del completo rovesciamento della prospettiva di Piaget: l’individuo non diventa sociale, lo è originariamente, ed è attraverso le sue interazioni sociali che si individualizza. La relazione tra l’individuale e il sociale è una relazione dialettica: il linguaggio come tutti i prodotti culturali, è indissociabile dal suo impiego sociale.

 

4.2.3 L’origine sociale dei processi psichici superiori

Jerome Bruner (1915 – 2016)

In virtù di tale caratteristica, i processi psichici superiori (pensiero, linguaggio, memoria) non hanno un’origine naturale, ma sociale e li si può comprendere solo prendendo in considerazione la storia sociale.

Secondo Vygotskij e, successivamente, Bruner, l’intelligenza si sviluppa quindi a partire dalla negoziazione sociale del significato ed ha dunque natura relazionale: pensiero e linguaggio procedono insieme.

L’aspetto caratteristico dello sviluppo, per Vygotskij, è dunque la sua socialità. Ne segue che se per Piaget, il lavoro pedagogico deve essere commisurato alla maturità cognitiva del bambino, per Vygotskij, al contrario, perché l’apprendimento sia fecondo il maestro deve lavorare sull’area prossimale (o potenziale) di sviluppo.

E’ l’adulto e la relazione educativa, insomma, a fornire al bambino il supporto su cui salire per costruire la propria conoscenza. Lo sviluppo umano dipende quindi dalla dimensione sociale dell’educazione.

 

4.3 Il bambino costruzionista di Bruner 

Jerome Bruner (1915 – 2016)

Dopo il lancio sovietico dello Sputnik (1957) e il timore degli americani di perdere la competizione spaziale con l’URSS, si fa strada negli Stati Uniti l’esigenza di rinnovare e potenziare il sistema educativo.  Su questa base viene indetta la Conferenza di Woods Hole del 1959, presieduta da Jerome Bruner che ne scrive anche relazione conclusiva Dopo Dewey.

Bruner polemizza con l’attivismo, accusato di aver posto l’accento più sul fare che sul conoscere, troppo sulla socializzazione e sul nesso scuola-società, mentre alla scuola andava assegnato un ruolo specializzato di formazione cognitiva. Secondo Bruner, le trasformazioni economiche e tecnologiche impongono un nuovo modello.

Punto di partenza del pensiero pedagogico di Bruner è che l’istruzione non è solo acculturazione ma anche e soprattutto sviluppo dei processi cognitivi. L’insegnamento, quindi, ha il compito di nutrire il desiderio di apprendere e l’aspirazione al conseguimento della competenza, l’imparare ad imparare. E’ evidente la distanza di queste tesi piagettiane costrutttiviste da quelle comportamentiste a cui si ispirava ancora la scuola americana.

In antitesi al primato deweyano della socialità e dell’azione, la scuola bruneriana è, pertanto, strumento per il potenziamento dell’intelligenza mediante l’istruzione. Quella scolastica non è un’esperienza naturale o sociale, ma esperienza in una istituzione artificiale che consente l’ingresso nella «vita della ragione», sede privilegiata per l’acquisizione del patrimonio culturale che si articola in discipline, intese come chiavi di lettura della realtà.

L’ispirazione strutturalista verso cui Bruner inclina, fa sì che lo psicologo pensi a una didattica impegnata a dar rilievo ai concetti-chiave delle discipline, piuttosto che alle nozioni particolari. L’apprendimento delle strutture fondamentali delle discipline consente allo studente di coglierne gli aspetti generali, di comprendere in modo approfondito i principi, di riordinare le idee ben salde e chiare e di organizzare così in modo sistematico le nozioni specifiche, evitando il disorientamento della frammentazione mnemonica e delle informazioni slegate.

In questa fase Bruner, conserva comunque ancora la prospettiva piagettiana dello sviluppo stadiale dell’intelligenza, ma sviluppa già un punto di vista culturalista, debitore delle tesi di Vygotskij, per il quale lo sviluppo delle funzioni psichiche del bambino avviene in una dimensione socialmente pragmatica e strumentale.

Un punto di svolta della prospettiva bruneriana è la sua adesione alle ricerche del New Look on perception, un contesto di ricerca interessato a mostrare gli aspetti dinamici, costruttivi, e non solo passivo-ricettivi, della percezione. Il concetto di set cognitivo che Bruner sviluppa, evidenzia la soggettività dei processi cognitivi che si sviluppano entrano il fascio di luce illuminato dalla mente. Per questo, l’attività cognitiva è definita da Bruner

«un processo costruttivo che elabora i dati dell’esperienza culturalmente determinati».

Il bambino, per Bruner, costruisce la proprie esperienza attraverso operazioni mentali, rappresentazioni, con cui riproduce nella mente ciò che avviene all’esterno. Le modalità di queste rappresentazioni cambiano col tempo, così che il bambino passa dalla rappresentazione esecutiva, tipica della fase in cui il bambino è capace di elaborare solo informazioni che vengono dall’azione, cioè dall’uso che si fa degli oggetti, alla rappresentazione iconica propria del momento in cui il bambino è in grado di riferirsi alle cose attraverso segni che stanno al posto delle cose stesse, immaginando le cose indipendentemente dalle azioni svolte con esse, fino alla rappresentazione simbolica in cui il bambino sostituisce i riferimenti concreti percepiti, poi immaginati, con simboli e concetti logici.

Secondo Bruner, l’evoluzione umana ha trasformato biologicamente gli esseri attraverso agenti esterni, e non interni; evoluzione e adattamento si spiegano cioè come trasformazione genetica e psichica determinata dalla necessità di adeguare le abilità interne (gli atti sensoriali, la percezione, il pensiero) alle esigenze poste dagli utensili esterni, prima tra tutte la mano, quindi gli strumenti:

«l’uso degli arnesi, la vita sul suolo, la vita di caccia crearono il grande cervello umano, e non fu l’uomo dal grande cervello a scoprire certi modi di vita».

A differenza di Piaget, però, secondo Bruner non possiamo parlare di stadi evolutivi distinti: i tre sistemi della rappresentazione non sono da considerare “stadi”, termine che indica una consequenzialità rigida, ma caratteristiche salienti delle fasi di sviluppo. Se è vero che ciascuno dei tre tipi di rappresentazione incide maggiormente sulla vita mentale degli esseri umani in età diverse (bambino, fanciullo, preadolescente), lo sviluppo intellettuale non è una semplice sequenza automatica, ma risente delle influenze ambientali e dell’ambiente scolastico.

Per lo studioso americano, quindi, l’uomo dipende dall’ereditarietà di caratteristiche acquisite dal patrimonio culturale anziché da quello cromosomico. La cultura diventa allora lo strumento principale per garantire la sopravvivenza.

Una conseguenza delle teorie di Bruner è il fatto che tutto può essere insegnato a qualsiasi età, purché il contenuto dell’apprendimento sia tradotto in forme di rappresentazione adeguate. È quindi possibile accelerare i processi di apprendimento, anziché seguire passivamente lo sviluppo cognitivo dell’allievo.
Il metodo di insegnamento, pur non trascurando la dimensione psicologica dell’alunno, va pertanto cercato all’interno delle discipline: questo è il principio fondamentale della pedagogia strutturalista.

E’ possibile accelerare i processi di apprendimento attraverso un insegnamento a spirale: la scuola riprende i contenuti dell’istruzione via via approfondendoli e traducendoli

«in forme di pensiero congrue all’età, stimolanti perciò, e tali da invogliare il fanciullo ad andare avanti, ad anticipare».

Per Bruner, inoltre, è necessario prestare attenzione sia allo sviluppo delle funzioni logiche e scientifiche (la mano destra) sia di quelle intuitive (la mano sinistra). Al pensiero analitico (o paradigmatico o logico-scientifico), finalizzato alla costruzione scientifica della realtà, Bruner accosta il pensiero intuitivo (o sintagmatico o narrativo), preposto alla comprensione delle interazioni sociali e del significato dell’esperienza sul piano emotivo ed affettivo. Il “creare storie” risulta essere importante almeno quanto le capacità logico matematiche.

 

4.4 Il bambino “multimodale” di Gardner 

Lo psicopedagogista statunitense è il principale teorico delle cosiddette intelligenze multiple.

Gardner considera, infatti, priva di fondamento la concezione classica dell’intelligenza secondo la quale questa deriva da un complesso di facoltà mentali (memoria, attenzione, percezione, associazioni, apprendimento, etc.) che agiscono in maniera generale come un fattore unitario misurabile tramite il Quoziente di Intelligenza.

Egli, invece, identifica almeno sette (poi nove) differenti e relativamente indipendenti tipologie di intelligenza, ognuna deputata a differenti settori dell’attività umana. Di conseguenza, un bambino (o anche un adulto) può risultare molto abile in un determinato ambito e, invece, più o meno inadeguato in un altro. Non, dunque, sette abilità cognitive che riflettono una intelligenza unitaria ma proprio nove moduli mentali distinti anche se interagenti.

Secondo la “teoria delle intelligenze multiple”, i diversi tipi di intelligenza sono presenti in tutti gli esseri umani e la differenza tra le relative caratteristiche intellettive e prestazioni è da individuare unicamente nelle rispettive combinazioni. In conseguenza di un fattore ereditario preponderante o di un’educazione particolarmente stimolante, alcuni individui sviluppano alcune intelligenze più di altre.

Gardner prospetta la necessità che nell’insegnamento si tenga conto del raccordo tra le singole discipline e le singole intelligenze, con interventi calibrati e diversificati, al fine di permettere e promuovere la crescita e lo sviluppo di ogni singola intelligenza. Attraverso tale impostazione didattica, sarebbe possibile perseguire il bruneriano traguardo dell’eccellenza e della “democrazia cognitiva”.

L’obiettivo della scuola, dunque, diventa la prospettiva di una scuola «fatta su misura per ogni singolo bambino».
In coerenza con le caratteristiche delle abilità delle varie intelligenze multiple, nella scuola si dovrà insegnare un insieme di know how, di “come” fare, delle modalità di azione e soluzione dei problemi, e non dei “saperi”, dei know that, che sono il contenuto della scuola formale tradizionale.

 

4.5 Il bambino “ambiguo” di Freud 

Sigmund Freud (1856 – 1938)

Lo studio sull’inconscio è il contributo più importante di Sigmund Freud che propone una visione dell’uomo secondo la quale le componenti psicologiche inconsce ed irrazionali sono determinanti nella comprensione del comportamento umano, sia normale sia patologico.

Su questa base individua tre istanze psichiche, tre funzioni della mente: Es (o Id), Io e Super-io in rapporto dialettico tra loro.

L’Es rappresenta la spinta pulsionale presente fin dalla nascita e mira ad un appagamento immediato e totale (principio del piacere). Questa energia pulsionale si manifesta come eros (istinto vitale) e come thanatos (istinto di morte) che genera comportamenti aggressivi, sia verso gli altri, sia verso se stessi.

Nell’interazione con il mondo esterno, le pulsioni dell’Es si scontrano con i limiti che la realtà pone al soggetto. Si forma così gradualmente l’Io, che è la dimensione prevalentemente conscia e di controllo dell’Es.

Attraverso la socializzazione e il rapporto con gli adulti (in particolare con i genitori), il bambino inizia a conoscere le regole (sociali, morali, religiose, ecc.) che questi impongono. Il processo di interiorizzazione di queste regole, porta alla formazione della terza istanza psichica: il Super-io, che è l’istanza morale. Il Super-io è come un io ideale, è ciò a cui ciascuno aspira, la perfezione che si vorrebbe raggiungere, ma che viene a scontrarsi con gli istinti inconsci (dei quali non si accetta la soddisfazione immediata e brutale) e con l’impossibilità materiale che la realtà esterna pone (ad esempio: se qualcuno vuole diventare il migliore in qualche campo di attività, può scoprire l’esistenza di limiti – di tempo, di capacità, fisici, ecc.– che gli si pongono).

In questo continuo scontro fra Es, mondo esterno e Super-io, l’Io si pone come mediatore e, per cercare una situazione di ottimale equilibrio fra le varie istanze psichiche, mette in atto i meccanismi di difesa i quali hanno lo scopo di spostare, trasformare, inibire le pulsioni inconsce e di permettere una migliore sopportazione delle frustrazioni che l’ambiente e la vita quotidiana continuamente impongono. I più importanti meccanismi di difesa sono: la rimozione, la sublimazione, la regressione, le formazioni reattive, la proiezione, l’interiorizzazione, la negazione, la razionalizzazione, ecc.

Quando l’Io fallisce la mediazione tra Es e Super-Io, il soggetto vive stadi di crisi che, a seconda della gravità, si configurano come nevrosi o psicosi.

Va detto che l’Es è totalmente inconscio, ma non è tutto l’inconscio; mentre l’Io e il Super-io sono in parte inconsci e in parte coscienti. Non vi è sovrapposizione, quindi, tra Es, Io, Super-io e Inconscio, Preconscio, Conscio.

L’importanza di Freud in pedagogia si deve, soprattutto alla sua ridefinizione dell’infanzia; alla nuova descrizione dei rapporti familiari; al ruolo centrale assegnato all’emotività/affettività.

L’infanzia è in psicanalisi soprattutto pulsione libidica, affermazione incontrollata dell’eros e del narcisismo. Questa carica vitale anarchica è anche carica sessuale, pregenitale (prima orale, poi anale, infine fallica) e perverso-polimorfa, senza alcuna regola, che vuole espandersi liberamente. Il bambino ha con i genitori un rapporto complesso, condizionato dall’amore verso il genitore di sesso opposto e dall’iniziale conflittualità verso quello del proprio sesso, rivale nel rapporto con l’altro genitore, che si scioglie poi nell’identificazione..

Con Freud cade l’immagine del bambino come creatura innocente e pura e ne emerge un profilo ambivalente al quale Freud è interessato soprattutto per comprendere l’adulto. Infatti, l’interesse di Freud per l’infanzia è legato alla ricerca sulle origini delle nevrosi, delle psicosi e dell’isteria che egli collega alla libido repressa e dalle crisi non risolte nei vari stadi dello sviluppo psicosessuale. Anche per Freud, quindi, l’infanzia costituisce un periodo fondamentale per la costruzione della personalità adulta, con l’aggiunta e la sottolineatura della sua vulnerabilità, al punto da far risalire ad essa alcuni esiti psicopatologici presenti negli adulti. Dato che il vissuto infantile (in particolare fino ai 5 anni) condiziona in modo irreversibile la vita successiva dell’individuo, la responsabilità degli educatori è notevole. Il loro compito si presenta estremamente delicato poiché solo tramite un giusto equilibrio tra lassismo ed autoritarismo si evitano le condizioni per l’eventuale disposizione nevrotica.

Gli interventi educativi devono perciò evitare sia il lassismo sia l’autoritarismo, consentendo la soddisfazione delle pulsioni mediante mete socialmente accettate (sublimazione) favorendo così uno sviluppo equilibrato e armonico. Gli scopi sono il rafforzamento dell’Io e l’integrazione sociale contro i pericoli esterni, contro la tendenza alla punizione del Super-Io e contro le seduzioni egoistiche dell’Es.

 

4.6 Il bambino secondo la “psicologia umanistica”

Abraham Maslow (1908 – 1970)

Carl Rogers (1902-1987)

La prospettiva freudiana è stata messa progressivamente in discussione dalla psicologia del profondo di Erikson, Winnicott, Maslow e Rogers. In particolare, gli psicologi americani Abraham Maslow (1908-1970) e Carl Rogers (1902-1987) hanno dato vita alla cosiddetta psicologia umanistica, alternativa sia al comportamentismo che alla psicologia clinica considerata portatrice di una visione deterministica della natura umana.

La prospettiva umanistica si caratterizza per una visione olistica della personalità animata dalla spinta verso l’autorealizzazione: in ogni essere umano c’è una forza intrinseca volta a realizzare il proprio potenziale innato (cd “tendenza attualizzante”).

L’individuo è infatti dotato della capacità di autodeterminarsi e di sviluppare le proprie potenzialità mediante un processo interiore che nasce dalla propria autenticità, al di fuori di qualsiasi influenza dell’ambiente. La maturazione si identifica con l’essere veramente se stessi, liberi da qualsiasi condizionamento, per conseguire un adattamento attivo e positivo. Le malattie mentali, come altri problemi dell’individuo, non sono altro che distorsioni della cd “tendenza attualizzante”.

Rogers è stato l’ideatore della “terapia centrata sul cliente” o “counseling non direttivo”.
Occorre sottolineare l’utilizzo del termine “cliente” in sostituzione di quello di “paziente”. Tale scelta lessicale sta ad indicare la posizione di vis-à-vis, di confronto, tra due individualità con un pari livello di umanità anche se con ruoli differenti: quello del terapeuta/agevolatore e del paziente/cliente.

Nell’impianto rogersiano le caratteristiche imprescindibili del rapporto terapeutico sono la comprensione empatica: il terapeuta è in grado di mettersi nei panni del cliente senza però entrare in completa fusione con lui; l’accettazione positiva ed incondizionata: il terapeuta accetta pienamente il cliente, non è direttivo, non si impone su di lui, si astiene dall’esprimere giudizi ed evita di spingerlo al cambiamento; spontaneità e genuinità: sono caratteristiche fondamentali per instaurare un contatto umano ed un clima di fiducia reciproca; congruenza personale: il terapeuta non interpreta alcun ruolo e mantiene una congruenza con la propria identità e maturità personale.

La visione rogersiana ha importanti implicazioni sul piano pedagogico.
Per Rogers l’apprendimento è un processo personale e autonomo, fondato sull’esperienza diretta senza interventi esterni.

Si ha così la distinzione tra due tipi antitetici di apprendimento: l’apprendimento “dal collo in su” è subordinato all’insegnamento, è imposto dall’esterno ed è formato di contenuti insignificanti per l’individuo; l’apprendimento significativo in senso stretto sorge dal desiderio di perseguire scopi, dall’esperienza diretta e dalle esigenze vitali del soggetto.

La scuola, perciò, deve fondarsi sulla non-direttività della relazione insegnante-allievo: occorre stabilire con gli alunni un rapporto non autoritario, del tutto diverso dall’attività dell’insegnare così come la si è sempre intesa. Il modello di riferimento è il rapporto tra terapeuta e paziente: il processo educativo si identifica, dunque, con la psicoterapia.
L’educatore diviene così un facilitatore, un consigliere e una guida psicologica che aiuta l’alunno a crescere, ad avere fiducia in se stesso, a scoprire le sue potenzialità e a realizzarle.

 

5. Lo sguardo socio-pedagogico

5.1 Il bambino “socializzato”di Durkheim  e Parsons 

Emile Durkheim (1585 – 1917)

Il sociologo francese Émile Durkheim (1858-1917), docente di scienza dell’educazione alla Sorbona dal 1902 al 1917, è il fondatore della sociologia dell’educazione.

Dal suo punto di vista, l’educazione è essenzialmente un’attività di apprendistato sociale da parte dell’individuo e strumento di riproduzione sociale quanto alla sua funzione sociale, cioè mezzo per conformare gli individui a norme e valori collettivi da parte della società, e strumento per perpetuare nelle generazioni più giovani le tradizioni e le conquiste del livello di sviluppo sociale e culturale raggiunto da una collettività.

I modelli educativi sono così storicamente variabili e condizionati dalle strutture economico-sociali come pure dalle specifiche divisioni del lavoro presenti nelle varie comunità.

L’educazione si configura pertanto come un riflesso della società (si parla di “determinazione sociale del sistema educativo”) e la società si serve dell’educazione per “socializzare” la nuova generazione, ovvero per adattarla alle esigenze sociali: l’opera della scuola serve a trasformare il bambino, di per sé egoista e asociale, in un individuo dotato di una vita morale e sociale mediante un adeguamento dell’individuo ad un modello proposto dal tipo di società in cui egli è inserito.

Jean Jacques Rousseau (1712 – 1778)

Se Rousseau ha un concetto negativo di educazione e positivo dell’uomo (non è il bambino a non essere ancora formato, ma l’adulto che è de-formato), Durkheim viceversa ha una concezione negativa dell’uomo e positiva dell’educazione vista come un mezzo per ridurre le tendenze individualistiche e per far prevalere le istanze sociali su quelle personali.

Il ruolo della scuola è quindi prioritario e decisivo rispetto alla famiglia che tende a privilegiare interessi particolari a danno dei valori collettivi. La scuola ha il compito di trasmettere valori funzionali alla continuità sociale al fine di preservare l’ordine e il benessere della comunità.

Durkheim prospetta una sostanziale equivalenza tra socializzazione, educazione e integrazione sociale, mettendo l’accento su questo ultimo aspetto, cioè su un’educazione che ha per scopo la formazione di un adulto «ben integrato».

La visione di Durkheim è stata ed è punto di riferimento essenziale per tutti i sociologi funzionalisti e strutturalisti.

Talcott Parsons (1902 – 1979)

Un altro funzionalista è Talcott Parson, sociologo statunitense che rivaluta il ruolo della famiglia, considerandola come il luogo in cui nella socializzazione primaria vengono trasmessi ed interiorizzati le norme ed i valori, e non solo come il luogo dell’affettività. Il bambino è portato a cercare approvazione e gratificazione per evitare punizioni e privazioni. Per fare ciò, procede alla interiorizzazione dei valori comuni. Tale meccanismo non è innato o automatico: si tratta, piuttosto, di un processo particolare di apprendimento che Parsons definisce «processo di socializzazione» e che costituisce il nucleo fondante della «struttura della personalità».

A poco a poco, il bambino acquista una maggiore autonomia: la sua socializzazione ha carattere processuale (alla socializzazione primaria segue quella secondaria e poi altre risocializzazioni), in quanto l’essere umano è plastico, capace di cambiare ed apprendere per tutta la vita. La personalità non è un’entità cristallizzata e ciascuna fase dello sviluppo viene affidata ad un’agenzia predominante, secondo una logica graduale di passaggio dai sistemi semplici a quelli più complessi.

Parsons costruisce così un modello di socializzazione che, attraverso le varie fasi di sviluppo, ha come obiettivo il raggiungimento della capacità da parte dell’individuo di comprendere e rispondere alle aspettative di ruolo, che rappresenta il collegamento tra il sistema della personalità ed il sistema sociale.

L’ipotesi di base del funzionalismo è che la società sia un insieme di parti interconnesse tra loro in modo funzionale al mantenimento del sistema. Come in un organismo vivente, nessuna parte vale dunque di per sé, ma assume significato in relazione alla funzione o al compito che svolge per mantenere e riprodurre la struttura sociale. Le parti del corpo sociale sono le istituzioni deputate a rispondere ai suoi bisogni: economico, politico, educativo, religioso-metafisico.

Modellato sul paradigma biologico, il funzionalismo postula uno stato di equilibrio (o salute) della società che si ottiene quando ogni parte svolge correttamente il proprio compito, postulando che ogni volta che interviene una perturbazione, il sistema risponda in modo da ripristinare l’equilibrio preesistente.

L’organizzazione funzionale dei sistemi sociali teorizzata da Parsons in The Social System (1951) è uno degli esempi più ortodossi di teoria funzionalista (o struttural-funzionalista) in quanto si propone di illustrare la struttura di fondo della società attraverso il funzionamento delle sue componenti.

Il sociologo descrisse il sistema sociale attraverso un modello che chiamò AGIL, dall’acronimo delle quattro funzioni principali (o «imperativi funzionali») della società: quella di adattamento (Adaptation), di raggiungimento dei fini (Goal attainment), di integrazione (Integration) e di mantenimento dei modelli latenti (Latent pattern maintenance).

La funzione di adattamento risponde al problema di ricavare sufficienti risorse dall’ambiente e di distribuirle nel sistema. A svolgere questo compito, indispensabile per la sussistenza, provvedono le istituzioni economiche (apparati produttivi e dei servizi). Affinché il sistema sociale possa raggiungere fini specifici, occorre un potere in grado di decidere e mobilitare la società ed è il compito delle istituzioni politiche. Il bisogno di integrazione consiste nella necessità di mantenere la coesione del sistema ed è il compito assolto dalle istituzioni giuridiche, controllando che si rispettino le regole e sanzionando i comportamenti devianti. La funzione di mantenimento dei modelli latenti è la funzione che assicura i valori, i significati e le motivazioni necessari per orientare l’azione degli individui in modo adeguato alle esigenze del sistema. Essa garantisce la stabilità di tali valori, significati, motivazioni attraverso norme e modelli di comportamento che, una volta istituzionalizzati a livello sociale, vengono interiorizzati dagli attori tramite il processo di socializzazione (apprendimento-educazione). Tali processi di istituzionalizzazione e di interiorizzazione sono alla base dell’integrazione degli individui nel sistema sociale.

Nella concezione di Parsons(1902-1979) la società è composta da più sistemi stratificati e in connessione tra loro: il sistema culturale, che rappresenta l’insieme dei valori, dei modelli di comportamento e delle regole, (collegato alla funzione di mantenimento dei modelli); il sistema sociale, in quanto insieme degli status e dei ruoli all’interno dei quali viene definito normativamente l’agire sociale (corrispondente alla funzione di integrazione); il sistema della personalità, capace di organizzare le risorse disponibili per il raggiungimento delle finalità perseguite (corrispondente alla funzione di raggiungimento dei fini); il sistema fisico-biologico, da cui proviene l’energia fisica di base del sistema della personalità nel suo rapporto con l’ambiente (corrispondente alla funzione di adattamento).

L’integrazione sociale non è assicurata però solo dall’interiorizzazione dei contenuti culturali. Occorre anche che gli individui agiscano conseguentemente, cioè in modo conforme ai dettati del sistema sociale. Per spiegare come ciò accada, Parsons propone una teoria dell’azione sociale razionale [La struttura dell’azione sociale, 1937], sostenendo che le persone si comportano conformemente alle regole sociali perché sono esseri razionali che decidono che cosa fare coerentemente con le mete che si prefiggono. Secondo Parsons, poiché è la società che suggerisce a ciascuno quali mete prefiggersi e quali strategie seguire per raggiungerle, l’individuo finisce per conformarsi al sistema sociale.

Parsons considerò anche i comportamenti devianti funzionali al sistema. Si tratta ai suoi occhi di perturbazioni marginali, non in grado di nuocere alla tenuta complessiva del sistema sociale, il cui sanzionamento contribuisce al rafforzamento simbolico dell’ordine sociale.

 

5.2 Il contributo dell’interazionismo simbolico: G.H. Mead

George Herbert Mead (1863 – 1931)

L’interazionismo simbolico è una prospettiva sociologica che esamina le interazioni tra individui e gruppi a partire dall’assunto che il comportamento umano non nasce in risposta a stimoli (comportamentismo), ma dall’interpretazione dei significati simbolici attribuiti agli stimoli stessi.

Gli interazionisti simbolici, il cui massimo esponente è Mead, ritengono che gli individui agiscono nei confronti delle cose in base ai significati che attribuiscono loro; significato che emerge dall’interazione degli individui che hanno a che gare con le cose (il significato è un prodotto sociale).

L’interazionismo rappresenta quindi il capovolgimento della prospettiva funzionalista che vede la socializzazione come un processo lineare di interiorizzazione delle norme da parte del bambino. Gli interazionisti sostituiranno il concetto di sviluppo a quello di socializzazione, mostrando come fin dalle prime fasi della vita, lo scambio simbolico con il bambino sia bilaterale e abbia esiti non sempre prevedibili.

L’avvio della riflessione interazionista si deve alla polemica di George H. Mead con i comportamentisti i quali avevano escluso l’elemento psichico individuale nell’analisi del comportamento sociale, perché non controllabile empiricamente.

Mead afferma la centralità dell’interazione, della comunicazione e del linguaggio nella costruzione del mondo soggettivo dell’individuo che costruisce la propria personalità inserendosi come membro attivo all’interno di una comunità. Il centro della sua indagine sono, infatti, i processi attraverso cui si costituiscono i soggetti sociali – Self-, emerge la dimensione della mente e del pensiero – Mind – e si forma l’organizzazione sociale – Society.

Il punto d’incontro tra società e individuo è l’assunzione del ruolo, attraverso cui il bambino costituisce riflessivamente il proprio sé. La società non prevale quindi sull’individuo, perché il bambino diventa un essere sociale mentre costruisce la propria identità personale.

Herbert Blumer (1900 – 1987)

Gli elementi di libertà individuale presenti nel pensiero di Mead sono stati ripresi e ampliati dal Herbert Blumer, allievo di Mead, il quale chiarisce l’azione umana non si legittima in base a un patrimonio simbolico condiviso, ma attraverso l’interpretazione dell’agire degli altri che si dà entro la struttura condivisa di significati. Ciò in quanto l’ordine sociale e la socializzazione emergono dall’interazione sociale, non da “ruoli” che definiscono l’esistenza degli individui.

 

5.3 La sociologia fenomenologica: Alfred Schütz

Alfred Schütz (1899 – 1959)

La sociologia fenomenologica nasce agli inizi degli anni ’50 per iniziativa del sociologo tedesco Alfred Schütz sulla base della filosofia di Edmund Husserl, da cui accoglie la rilevanza della struttura intenzionale della coscienza nell’interpretazione dell’azione sociale. Ha avuto importanti sviluppi negli Stati Uniti con studiosi come Berger e Luckman.

Schütz analizza i processi sociali attraverso un’analisi fenomenologica che osserva come gli individui fanno esperienza degli altri attraverso la comunicazione e le istituzioni sociali. Il sociologo mostra come gli individui si trovino inseriti fin dall’infanzia in un mondo intersoggettivo già organizzato, costruito culturalmente, in cui gli individui si collocano per comprendere gli altri e definire se stessi.

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