Paolo Virno, Socialità e negazione dell’altro

by gabriella

2004 / MILAN: PAOLO VIRNO/ PHILOSOPHER / © ARMANDO ROTOLETTI / AG. GRAZIA NERINel saggio seguente, uscito nel 2004 nei nn. 2 e 3 di Forme di vita, Paolo Virno ha esplorato l’anomalia presentata dalla nostra specie, nella quale la naturale socialità, che ha i neuroni mirror per base biologica, coabita con la facoltà linguistica, che ci offre la tragica possibilità di negare il riconoscimento all’altro uomo. Il linguaggio è in grado, infatti, di negare e disconoscere qualunque evidenza percettiva, incluso il riconoscimento della comune umanità. Esso è quindi sia frattura che possibilità di ricomposizione dell’empatia originaria, in questo caso, come premessa della vita associata, può essere, kat’echon, la forza che trattiene (Paolo di Tarso) [titoli, mediatori didattici e incipit sono miei].

L’imperativo categorico [è] di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole.

Karl Marx, Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico

 

Ipotesi 1 [Il noi precede l’io, la base fisiologica della socialità originaria sono i neuroni specchio]

aristotele2

«ὁ ἄνθρωπος φύσει ζῷον πολιτικὸν»: l’uomo è un essere politico

La relazione di un animale umano con i propri simili è assicurata da una “intersoggettività” originaria, che precede la stessa costituzione della mente individuale. Il “noi” è presente prima ancora che si possa parlare di un “io” autocosciente. Su questa basilare correlazione tra conspecifici hanno variamente insistito pensatori come Aristotele, L. Vygotskji (1934), D.W. Winnicott (1971), G. Simondon (1989). Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni mirror, l’ha riformulata in modo particolarmente incisivo, incardinandola a un dispositivo cerebrale. Per sapere che un altro essere umano  soffre o gode, cerca cibo o riparo, sta per aggredirci  o baciarci, non abbiamo bisogno del linguaggio verbale né, tanto meno, di una barocca attribuzioni di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo ]frontale inferiore.

 

Ipotesi 2 [Permettendoci di negare l’umanità dell’altro, il linguaggio rompe la socialità originaria]

soldato israeliano

ma può negare il riconoscimento della comune umanità

Di questa socialità preliminare, che del resto l’Homo sapiens condivide con altre specie animali, il linguaggio verbale non è affatto una potente cassa di risonanza. Non bisogna credere, cioè, che esso amplifichi e articoli con dovizia di mezzi la simpateticità tra conspecifici già garantita a livello neurale. Il pensiero preposizionale provoca piuttosto una lacerazione in quell’originario co-sentire (l’espressione è di Franco Lo Piparo) cui si deve l’immediata comprensione delle azioni e delle passioni di un altro uomo. Non prolunga linearmente l’empatia neurofisiologica, ma la intralcia e talvolta la sospende. Il linguaggio verbale si distingue dagli altri codici comunicativi, nonché dalle prestazioni cognitive prelinguistiche, perché è in grado di negare qualsivoglia contenuto semantico. Anche l’evidenza percettiva “questo è un uomo” perde la propria incontrovertibilità allorché è soggetta all’opera del “non”. Il linguaggio inocula la negatività nella vita della specie. Animale linguistico è soltanto quello capace di non riconoscere il proprio simile.

 

Ipotesi 3 [Il linguaggio, quale negazione della negazione, è anche lo strumento di ricomposizione della socialità originaria]

Henri Matisse, La danse

Per essere strumento di ricomposizione, la parola deve essere critica e denuncia di tutto ciò che nega l’uomo [Henri Matisse, La danse, 1910]

La critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione. […] Essa non si pone più come fine a se stessa, ma ormai soltanto come mezzo. Il suo pathos essenziale è l’indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia.

Karl Marx, Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico

Il linguaggio fa da antidoto al veleno che esso stesso immette nell’innata socialità della mente. Oltre a poter contraddire in tutto o in parte la simpateticità neurale, esso può togliere questa contraddizione. L’intersoggettività specie-specifica dell’animale umano è definita precisamente da questa duplice possibilità. La sfera pubblica è il risultato instabile di una lacerazione e di una ricucitura, della prima non meno che della seconda. Detto altrimenti: la sfera pubblica deriva da una negazione della negazione. Va da sé che la negazione della negazione non ripristina la compatta empatia preliguistica. Il rischio del non-riconoscimento è introiettato una volta per tutte nell’interazione sociale.

 

Corollari all’ipotesi 1

gallese

Vittorio Gallese

Scrive Vittorio Gallese:

Circa dieci anni fa, il nostro gruppo ha scoperto nel cervello della scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (ad es. afferrare un oggetto), ma anche quando osservava la stessa azione eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse), abbiamo denominato questi ‘neuroni mirror’.

La regione della corteccia premotoria ventrale della scimmia, all’interno della quale i neuroni mirror realizzano la simulazione, è quella preposta a programmare il comportamento motorio,

non tanto nei singoli passaggi […] quanto i quelli astratti della relazione globale tra l’agente e gli scopi dell’azione (Napoletano 2003). L’esperimento è stato esteso con successo alla nostra specie. Si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano: per la precisione […] regione del Broca, aree 44 e 45. [Quando osserviamo qualcuno che compie una determinata azione] nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione (ibid.).

È questo il presupposto neurofisiologico che consente di riconoscere immediatamente le tonalità emotive di un conspecifico, nonché d’inferire lo scopo a cui mirano le sue azioni. I neuroni mirror, secondo Gallese, costituiscono il fondamento biologico della socialità della mente. Comprendo il pianto di un altro uomo imitandone il comportamento a livello neurale, insomma grazie ad un inizio di innervazione delle mie stesse ghiandole lacrimali. Questo co-sentire automatico e irriflesso è chiamato da Gallese ‘simulazione incarnata’. Le interazioni di un organismo corporeo con il mondo sono radicalmente pubbliche, già sempre condivise dagli altri membri della specie.

L’intersoggettività, di gran lunga anteriore alla formazione di soggetti individuali, non può essere spiegata a partire dai modelli cognitivi di cui si servono questi ultimi:

Molto di ciò che nel corso dei nostri rapporti interpersonali attribuiamo all’attività di una supposta capacità di formulare teorie sulla mente altrui deriva in realtà da meccanismi molto meno’mentalistici’. Sarebbe cioè il risultato della capacità di creare uno spazio ‘noi-centrico’ condiviso con gli altri. La creazione di questo spazio condiviso sarebbe il risultato di questa attività di ‘simulazione incarnata’, definita a sua volta in termini sub-personali dell’attività dei neuroni mirror che permettono di mappare sullo stesso substrato nervoso azioni eseguite e osservate, sensazioni ed emozioni esperite personalmente e osservate negli altri” (Gallese. 2003).

Vygotskij

Lev Vygotskij (1896-1934)

L’individuazione di uno spazio noi-centrico – là dove il “noi” non equivale affatto ad una pluralità di “io” ben definiti, designando piuttosto un ambito pre-individuale o sub-personale – è il punto filosoficamente cruciale della riflessione di Gallese. Il medesimo punto è stato messo in luce, ma con altri argomenti e diversa terminologia, anche dallo psicologo sovietico Vygotskji e dallo psicoanalista inglese Winnicott. Per Vygotskji la mente individuale, anziché incontrovertibile punto di avvio, è il risultato di un processo di differenziazione che avviene in seno ad una socialità originaria:

il movimento reale del processo di sviluppo infantile non dall’individuale al socializzato, ma dal sociale all’individuale (Vygotskji, 1934).

Secondo Winnicott, nella prima infanzia predomina un’area intermedia tra io e non-io (l’area dei cosiddetti “fenomeni transizionali”): essa non collega due entità già formate, ma, al contrario, rende possibile la loro successiva formazione come polarità distinte. La relazione preesiste, dunque, ai termini correlati (Winnicott, 1971). L’importante, per Winnicott come per Gallese, è che questa soglia indifferenziata o preliminare chiamata “spazio noi-centrico” non è soltanto un episodio ontogenetico che si lascia alle spalle, ma la condizione permanente della relazione sociale. Osserva Gallese:

Lo spazio interpersonale in cui viviamo fin dalla nascita continua a definire per tutta la nostra vita una parte sostanziale del nostro spazio semantico” (Gallese, 2003).

Non è il caso di approfondire, qui, l’inopinata convergenza tra autori così distanti. La si consideri, però, il sintomo prezioso di un’obiettiva necessità teorica. La tesi di Gallese si condensa in questa affermazione:

Winnicott

Donald Winnicott (1896-1971)

L’assenza di un soggetto non cosciente con preclude […] la costituzione di uno spazio primitivo ‘sé/altro, caratterizzando così una forma di intersoggettività priva di soggetto (ibid.).

Questa formulazione assai radicale rompe i conti con il simulazionismo egocentrico (anzi, solipsistico) secondo il quale l’animale umano generalizzerebbe alle altre menti ciò che ha appreso della propria. La frase di Gallese appena citata postula una simulazione operante ben prima che si formino menti individuali in grado di apprendere, proiettare, ecc. Il merito grande di questa posizione sta nel liquidare molte entità concettuali superflue: un autentico “rasoio di Ockam”, direbbe lo storico della filosofia. È del tutto incongruo ascrivere al linguaggio verbale quell’immediata simpateticità aspecifica che i neuroni mirror realizzano anche in «assenza di un soggetto autocosciente». Di fronte al comportamento altrui, «quasi mai ci vediamo coinvolti in un processo di esplicita e deliberata interpretazione»: non è necessario, cioè, tradurre le informazioni sensoriali in «una serie di rappresentazioni mentali che condividono col linguaggio lo stesso formato preposizionale»(ibid.), ma è ancora più incongruo evocare una schiera di concetti fantasma, ubicati a metà strada tra i neuroni mirror ed il linguaggio verbale, post-neurali o pre-linguistici, inetti a dar conto sia di una simulazione cerebrale che di una proposizione. La tesi di Gallese restituisce a ciascuno il suo: alla neurofisiologica ciò che è neurofisiologica, alla linguistica ciò che è linguistico. Così facendo, rende la vita difficile ai pretendenti illegittimi. Per spiegare la relazione sociale, non è affatto necessario, ad esempio, ipotizzare che ogni animale umano disponga di una implicita “teoria della mente”, ovvero sia capace di rappresentarsi le altrui rappresentazioni.

Se mentre siedo in un ristorante vedo qualcuno dirigere la mano verso una tazzina di caffè, comprendo immediatamente  che il mio vicino di tavolo sta per sorseggiare quella bevanda. Il punto cruciale è: come faccio? Secondo l’approccio cognitivista classico, dovrei tradurre i movimenti del mio vicino in una serie di rappresentazioni mentali riguardanti il suo desiderio di bere il caffè, le sue credenze circa  il fatto che la tazzina che sta per afferrare sia effettivamente piena di caffè, e la sua intenzione di portare la tazza alla bocca per bere. […] Penso che questa caratterizzazione, in base alla quale la nostra capacità di interpretare le intenzioni alla base del comportamento altrui sia esclusivamente determinata da metarappresentazioni create ascrivendo agli altri atteggiamenti preposizionali, sia del tutto implausibile dal punto di vista biologico (ibid.).

 

Corollari all’ipotesi 2

empatia animale

empatia animale

Il funzionamento dei neuroni mirror connette la socialità umana alla socialità di altre specie animali. Resta da chiedersi dove passi, e in che cosa consista di preciso, la linea di confine tra la prima e la seconda. Ancora Gallese:

La notevole messe di dati neuroscientifici qui brevemente riassunti suggerisce l’esistenza di un livello di base delle nostre relazioni interpersonali che non prevede l’uso esplicito di atteggiamenti preposizionali” (ibid.).

D’accordo, ma quali effetti provoca l’innesto del linguaggio su questo ‘livello di base’? gli atteggiamenti preposizionali (credere, ipotizzare, presupporre, ecc.) assecondano e potenziano la simulazione già realizzata dai neuroni mirror? O invece la perturbano e ne limitano la portata? Propendo decisamente per la seconda alternativa. Non ho dubbi sull’esistenza di un ‘livello di base’ della socialità: a patto, beninteso, che lo si ancori alla neurofisiologica e soltanto ad essa. Mi sembra inverosimile, invece, l’idea secondo cui il pensiero verbale si limiterebbe a ornare di mille raffinatezze lo ‘spazio noi-centrico’ già perimetrato per tempo dai neuroni mirror. Ritengo piuttosto retroagisca distruttivamente su questo ‘spazio’, lacerandone la compattezza originaria. La socialità specie-specifica della mente umana è qualificata da una retroazione siffatta. Come dire: è qualificata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla parziale divaricazione tra co-sentire neurale e pensiero preposizionale. Ogni pensatore naturalista deve rendere ragione di un dato di fatto: l’animale umano può non riconoscere un altro animale umano come proprio simile. I casi estremi, dall’antropofagia ad Auschwitz, non fanno che attestare in modo virulento questa possibilità permanente. Essa si manifesta perlopiù con modalità mediane, incuneandosi in forme edulcolorate e allusive negli interstizi della comunicazione quotidiana. Collocata al limite dell’interazione sociale, l’eventualità del non-riconoscimento si ripercuote tuttavia anche nel suo centro e ne permea l’intera trama.

nazisti

Polonia, Soldati della Wermacht picchiano un ebreo

Che cosa significa non-riconoscere il proprio simile? Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange dall’umiliazione. L’ufficiale nazista sa cosa prova questo suo conspecifico, in virtù della “simulazione incarnata”, ossia della “capacità basilare di modellare il comportamento altrui attraverso l’impiego delle stesse risorse neurali utilizzate per modellare il nostro comportamento” (ibid.).

ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente o provvisoriamente, l’empatia prodotta dai neuroni mirror. Sicché arriva a trattare il vecchio ebreo come un non-uomo. È troppo comodo imputare la neutralizzazione del co-sentire intraspecifico a ragioni culturali, politiche, storiche. Sempre pronto a sottolineare i tratti invarianti della natura umana, il naturalista non può indossare a tradimento, quando più gli fa comodo, i panni dell’ermeneuta relativista. Niente gioco delle tre carte per cortesia. Va da sé che la dimensione politico-culturale, contraddistinta da una intrinseca variabilità, ha un peso preponderante nell’esistenza di qualsiasi essere umano: quel che conta però è mettere a fuoco la base biologica di questa dimensione e della sua variabilità.

L’ufficiale nazista non può non-riconoscere il vecchio ebreo grazie a un requisito tutt’affatto naturale (dunque innato e invariante) della specie Homo sapiens. Può non riconoscerlo, cioè, perché la sua socialità non è determinata soltanto dai neuroni mirror, ma anche dal linguaggio verbale. Se quei neuroni permettono di mappare sullo stesso substrato nervoso

[…] sensazione ed emozioni esperite personalmente e osservate negli altri (ibid., p. 13),

gli atteggiamenti proposizioni autorizzano invece a mettere tra parentesi e contraddire la primitiva rappresentazione dell’altro «come persona simile a noi» (ibid., p. 27). La messa tra parentesi del co-sentire neuronale è dovuta a quella che forse è la più tipica prerogativa del linguaggio verbale: la negazione, l’uso del “non”, i molti modi in cui un locutore può confinare un predicato o un’intera asserzione nella regione del falso, dell’errore, dell’inesistente. La negazione, se non ci lascia andare a usi metaforici o semplicemente dissennati del termine è una funzione solo verbale. Non nego il nero indicando il bianco. Lo nego se, e solo se, dico «non-nero». Il tratto distintivo della negazione linguistica consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato un solo e medesimo contenuto semantico. Il “non” è apposto dinanzi ad un sintagma che continua ad esprimere la cosa o il fatto di cui si parla in tutta la sua consistenza. La cosa o il fatto sono pur sempre designati, e così conservati come significati, nel momento stesso in essi vengono (verbalmente) soppressi. Supponiamo che l’SS pensi:

Le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane.

Kant

Immanuel Kant (1724-1804)

La sua proposizione conserva e sopprime ad un tempo l’empatia prodotta dalla “simulazione”: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un conspecifico, non di umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime del vecchio quel carattere umano che, pure, era implicito nell’immediata loro percezione-designazione come “lacrime-di-un-vecchio”. Solo grazie a questo potere di abrogare ciò che peraltro si ammette, o per l’appunto di sopprimere-conservando, la negazione linguistica può interferire distruttivamente con un dispositivo biologico “sub-personale” qual è il co-sentire neuronale. La negazione (strettamente correlata alla diade vero/falso e alla modalità del possibile) non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo reversibile il significato. L’ufficiale nazista può considerare “non-uomo” il vecchio ebreo, anche se ne comprende appieno, per immedesimazione simulatoria, le emozioni. Il pensiero verbale dissesta l’empatia intraspecifica: in questo senso, esso costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il “male radicale”.

Georg Wilhelm Hegel (1770-1831)

Georg Wilhelm Hegel (1770-1831)

L’ipotesi 2 fa da premessa ad un insieme di ricerche concettuali ed empiriche. Offre la chiave, forse, per una lettura inconsueta di uno dei testi più prestigiosi che siano mai stati scritti sulla mente sociale: il capitolo IV della Fenomenologia dello spirito di Hegel, dedicato per l’appunto al “reciproco riconoscimento delle autocoscienze”. È opinione diffusa che quelle pagine contengano una storia a lieto fine, ossia illustrino il modo in cui il reciproco riconoscimento, superati molti e drammatici intralci, riesce in ultimo a realizzarsi. A me pare un fraintendimento. Se solo si sfoglia senza pregiudizi il capitolo IV ci si accorgerà subito che esso dà conto piuttosto dei diversi modi in cui il reciproco riconoscimento tra animali linguistici può fallire. Hegel presenta un nutrito catalogo di scacchi e di colpi a vuoto: aggressività che distrugge ogni empatia e trascina verso la generale autodistruzione; riconoscimento unilaterale del signore da parte del servo; graduale emancipazione del non-uomo asservito, che però smette di riconoscere come uomo colui che in precedenza non l’aveva riconosciuto; infine, a coronamento sarcastico dell’intero tragitto, la “coscienza infelice” che interiorizza la negatività insita nei rapporti sociali, fino a fare dell’aporia e del fallimento un cronico modo di essere. Si potrebbe anche dire: Hegel delineando questa vistosa catena di insuccessi, mostra come il vivente che pensa con le parole può rendere labile, e talvolta mettere in mora, l’immediata simpateticità intraspecifica, ovvero l’opera del neuroni mirror. Pur decifrando immediatamente le emozioni e gli scopi del suo simile in base ad un dispositivo neurofisiologico, l’animale umano è tuttavia in grado di negare che costui sia un suo simile. L’eventualità del non-riconoscimento: ecco il contributo hegeliano a una ricognizione naturalistica (ma niente affatto idilliaca) della socialità specie-specifica dell’Homo sapiens.

Tra le ricerche concettuali ed empiriche da sviluppare in base all’ipotesi 2 spicca per importanza, come ovvio, quella sulla negazione linguistica. Non solo molti i logici moderni che hanno messo apertamente a tema quest’ultima, evitando così di tenerla per un segno operazionale primitivo. Quanto ai linguisti, oltre a valorizzare qualche cenno rapsodico di Benveniste, bisognerebbe leggere e rileggere con attenzione i saggi di Culioli sulle diverse forme che prende la negazione nelle lingue storico-naturali (Culioli 1990-2000). I materiali più promettenti sono reperibili, però, nelle indagini degli psicologi sperimentali e nelle opere della tradizione metafisica. Per quanto riguarda le prime, mi limito a ricordare le analisi delle «relazioni tra affermazioni e negazioni» nel pensiero infantile prodotte dai collaboratori di Piaget (Piaget e altri 1973 e 1974). Per quanto riguarda le seconde, la cittadella da espugnare è e resta il Sofista di Platone.

A me pare che l’epicentro teorico di questo dialogo, ossia la discussione serratissima su come si può negare ciò che è e affermare ciò che non è, descriva minuziosamente una tappa ontogenetica. Il rivoluzionamento provocato nei primi anni di vita dall’innesto del linguaggio sulle precedenti forme di pensiero è ricostruito lì, nei minimi particolari. La possibilità di negare, di asserire il falso, di intrattenere alacri rapporti con il non essere, non è data per scontata, ma, anzi, suscita una genuina meraviglia e pone questioni spinose.

Il fatto che si possa dire una cosa, e che questa cosa non sia vera, è un problema di straordinaria difficoltà (Soph., 236 e 1-3).

Platone

Platone (428-427 – 348-347 a.C.)

Il Sofista è forse la sola opera filosofica che prenda sul serio il traumatico avvento del “non” nella vita umana. In un certo senso, il testo platonico non fa che interrogarsi su quel che accade quando il bambino, a un certo stadio del suo sviluppo, diventa capace di dire irosamente a sua madre «Tu non sei la mia mamma». La prima e decisiva scoperta di ogni locutore debuttante è la facoltà di dire le cose come non sono: proprio questa facoltà, infatti, determina una cesura rispetto alle pulsioni pre-linguistiche e consente di contravvenire in certa misura al co-sentire naturale.

Il fedele ritratto di una tappa ontogenetica, nonché la rivendicazione  della sua duratura attualità, non sono però gli unici motivi che consigliano di tenere sotto gli occhi il Sofista allorché si discute – da naturalisti, of course – della mente sociale. C’è di più. È abbastanza noto che per Platone negare un predicato significa asserire che l’oggetto del discorso è “diverso” (heteron) rispetto alle proprietà attribuitegli da quel predicato. L’eterogeneità non ha nulla a che fare con la contrarietà:

Se diranno che la negazione significa il contrario del termine negato, noi non saremo d’accordo limiteremo tale asserzione a questo; che il ‘non’, il segno della negazione cioè, premesso a uno o più termini, indica soltanto qualcosa di diverso dai termini che lo seguono, o meglio, qualcosa di diverso delle cose a cui si riferiscono i termini pronunciati dopo di esso (ibid., 257 b9-c39).

Se dico “non bello”, non dico “brutto”, ma lascio aperta la strada a un insieme potenziale di predicati diversi: “rosso”, “noioso”, “gentile”, ecc. questi ulteriori predicati non sono incompatibili con quello negato, cioè con “bello”, tant’è che in un diverso contesto enunciativo possono essere anche correlati ad esso. L’heteron, vera posta in palio della negazione linguistica, aiuta a capire la dinamica del non-riconoscimento tra animali umani. Il tenente nazista, che dice “non uomo” a proposito del vecchio ebreo piangente, non intende il contrario di “uomo” (non ritiene, cioè, di avere davanti a sé un gatto o una pianta), ma qualcosa di diverso da “uomo”: per esempio “totalmente inerte”, “privo di ogni dignità”, “tale da esprimersi solo con lamenti inarticolati”. Nessuno può affermare che l’ebreo (o l’arabo, nel caso di Oriana Fallaci) sia il contrario logico del predicato “umano”, dato che i neuroni mirror attestano la cospecificita del vivente in questione. Il non-riconoscimento si radica piuttosto nel potere linguistico di evocare una diversità che, essendo di per sé potenziale e indeterminata, viene circostanziata di volta in volta mediante il ricorso a qualche proprietà contingente (il comportamento fattuale dell’ebreo o dell’arabo, per esempio). Quando il bambino dice alla madre «Tu non sei la mia mamma», dice in effetti che essa non è ciò che per altri versi indubbiamente è. Il bambino prende dimestichezza con l’heteron, con il diverso. Il nazista e Oriana Fallaci esibiscono il profilo atroce di questa stessa dimestichezza.

 

Corollari all’ipotesi 3

Il linguaggio non civilizza l’aggressività intraspecifica, ma la radicalizza oltremisura, portandola a quel limite estremo che è il dis-conoscimento del proprio simile. È senz’altro legittimo affermare che il pensiero proposizionale riplasma da cima a fondo il co-sentire neurofisiologico. Salvo aggiungere una precisazione essenziale: “riplasmare” significa anzitutto che il pensiero proposizionale erode l’originaria sicurezza del co-sentire. Soltanto questa erosione, di per sé  tragica, apre il varco ad una socialità complessa e duttile, costellata di promesse, regole, patti, progetti collettivi. Sarebbe sbagliato credere che un discorso inteso a persuadere gli interlocutori sia il prolungamento “culturale” dell’empatia “naturale”, istituita fin da principio dai neuroni mirror. Il discorso persuasivo è piuttosto la risposta tutt’affatto naturale alla lacerazione dell’empatia neurofisiologica a opera della negazione linguistica. L’argomentazione retorica, con tutte le sue finezze espressive, introietta la possibilità del non-riconoscimento e la sventa sempre di nuovo. Non fa che disattivare, con proposizioni perspicue, la parziale disattivazione del co-sentire provocata dal pensiero proposizionale. Nei paragrafi 23 e 25 delle Ricerche filosofiche (1953), Wittgenstein afferma che la “storia naturale” della nostra specie consiste (anche) in un insieme di pratiche linguistiche: comandare, interrogare, raccontare, chiacchierare, elaborare ipotesi, coniare una battuta di spirito, ringraziare, imprecare, salutare, e così via. Ebbene, queste pratiche linguistiche tengono a freno la negatività inoculata nella vita animale dallo stesso linguaggio verbale; regolano l’uso del “non” e delimitano la gittata dell’heteron; consentono insomma il reciproco riconoscimento tra viventi che potrebbero anche dis-conoscersi.

Paolo di Tarso

Paolo di Tarso (5-10 – 64-67)

La sfera pubblica tipicamente umana ha il suo baricentro nella negazione di una negazione: è un “non” collocato dinanzi al latente sintagma “non-uomo”. Il potere della negazione linguistica si esplica anche rispetto a sé medesima: il “non” che sopprime-e-conserva può essere a sua volta soppresso (e conservato come eventualità catastrofica, passibile di infinito differimento). Lo “spazio noi-centrico”, che la simulazione incarnata  dischiude al momento della nascita, diventa una sfera pubblica non già mediante un rafforzamento evolutivo, ma, tutto al contrario, in seguito al suo infragilimento carico di rischi. Lo “spazio noi-centrico” e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta l’innata socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, un compatto e infallibile co-sentire neurale, dopo, l’incertezza della persuasione, le metamorfosi tumultuose della cooperazione produttiva, l’asprezza dei conflitti politici. Per definire la negazione della negazione, grazie alla quale il linguaggio verbale inibisce il “male radicale” che proprio esso ha reso possibile, utilizzo un concetto teologico-politico dalla storia non poco travagliata: il concetto di kat’echon. Questo termine, presente nella seconda epistola ai tessalonicesi dell’apostolo Paolo, significa per l’appunto “forza che trattiene”. Kat’echon è il dispositivo che rinvia senza posa l’estrema distruzione: la fine del mondo per il teologo, il disfacimento dell’ordine sociale per il pensiero politico medievale e moderno. Il linguaggio verbale è il kat’echon naturalistica che, assecondando la formazione della sfera pubblica, trattiene la catastrofe del non-riconoscimento. Si tratta è vero di un kat’echon molto singolare, giacché salvaguarda da quel “male radicale” che esso stesso ha messo al mondo. L’antidoto, qui, non è cosa diversa dal veleno.

Neuroni mirror, negazione linguistica, reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche contraddittori, che configurano la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Chomsky) che postuli una originaria “creatività del linguaggio”, poi repressa e mortificata da apparati di potere tanto più iniqui, quanto più innaturali. La fragilità dello “spazio noi-centrico”, dovuta con la negatività che il linguaggio verbale porta con sé, deve costituire invece il presupposto realistico di ogni movimento politico che miri ad una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo:

Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana (Schmitt 1932 p.71).

È venuto il tempo di confutare questa asserzione. Una analisi adeguata della mente sociale permette di fondare il radicalismo ostile allo Stato (e al modo di  produzione capitalistico) sulla pericolosità della natura umana, anziché sulla sua originaria armonia. L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Suo compito eminente è sperimentare nuovi e più efficaci di negare la negazione, di apporre il “non” davanti a “nonuomo”. Là dove attinge il suo fine, questa sua azione incarna una “forza che trattiene, ossia un kat’echon.

L'innocenza dei bambini è tremendamente permeabile e questo padre, cercando di spiegare al proprio bimbo spaventato quanto è accaduto a Parigi, ha commosso tutto il mondo.I bambini, nella loro ingenuità, si fanno mille domande e la curiosità è strumentale anche per dare una risposta alle paure.Così, padre e figlio devono cercare insieme una risposta.É qualcosa che va oltre la politica ed una valida riflessione per chi quotidianamente pensa di dispensare soluzioni che in realtà, altro non sono che la causa dei nostri problemi.

Publié par Sorial Girgis Giorgio sur jeudi 26 novembre 2015

BIBLIOGRAFIA:
Culioli A. (1985), Pour une lingusitique de l’énounciation, Ophirys, Paris 1990-2000, 3 voll. In particolare : La négation pp.91-114
Hegel G. W. F. (1807), Die Phaenamenologie del geistes, trad. it. Fenomenologia dello Spirito. La Nuova Italia, Firenze 1973.
Gallese V. (2003) Neuroscienza delle relazioni sociali, in Ferretti F (a cura di), Lo specchio delle parole, Bollati Boringhieri, Torino.
Piaget J. et al. (1973-74), Recherches sur la contradiction : 1 Les différentes formes de la contradiction ; 2 Les relations entre affermations et négations, «Etudes d’épistemologie genetique» Voll XXXI e XXXII, Presses Universitaries de France, Paris.
Platone (Soph.= Sophista), trad. it. Con testo greco a fronte Il Sofista. Bompiani, Milano 1992
Simondon G. (1989), L’individuation psychique et collective, trad.it. L’individuazione psichica e collettiva, Derive Approdi, Roma 2001.
Vygotskji L.S. (1934), Mislenie i rec’, trad .it. Pensiero e Linguaggio, Laterza, Bari 1990.
Winnicott D. W. (1971), Playing and reality, trad. Fr. Jeu et réalité, Gallimard. Paris 1975.
Wittgenstein L. (1953), Philosophische Untersuchungen, trad. it Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974.

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