Giuseppe Patella, Da Lacan alla cultura di massa e viceversa. Žižek e gli studi culturali

by gabriella

Slavoj chi?

È possibile utilizzare le teorie psicoanalitiche di Lacan, alcune categorie marxiste, il cinema di Hitchcock, il pensiero di Hegel, farli umoristicamente interagire con la storia della letteratura, della musica, del cinema, con la realtà virtuale, con le teorie sociologiche e applicare il tutto per interpretare alcune forme dominanti della cultura e della società contemporanee, senza tuttavia produrre il risultato di banalizzare o di semplificare alcunché? Parrebbe proprio di sì, ed è quanto – in sintesi – avviene nella speculazione, ascrivibile agli studi culturali, di Slavoj Žižek.

Ma i più potrebbero subito chiedersi chi è Slavoj Žižek, da dove vien fuori questo sconosciuto studioso e cosa vuole. Si tratta in realtà di un singolare pensatore di origine slovena, docente all’Istituto di Scienze Sociali dell’Università di Lubiana, dove ha fondato la Società per la Psicanalisi teoretica e dirige la rivista “Wo es war”, che sconosciuto lo è soltanto in Italia; ha all’attivo diversi libri pubblicati in Francia, Inghilterra, Usa, Germania e numerosi interventi pubblici, che nel variegato campo degli studi culturali – dove è peraltro conosciuto come il “gigante di Lubiana”, come lo definisce la stampa americana – hanno fatto di lui un personaggio notissimo ed autorevole.

Tratto distintivo della sua densa riflessione, acutissima e brillante, portata avanti con una forma ed uno stile “multimediali”, paragonabili – come è stato detto da qualcuno – al funzionamento di un CD-Rom (“vai su”, “clicca qui”, “apri l’immagine”, “ascolta il brano”…), è la straordinaria capacità di coniugare lucidamente analisi lacaniana e cultura di massa, riflessione filosofica e indagine socio-politica, mostrando spesso l’aspetto oscuro, inconscio della società e delle ideologie che la attraversano.

Il suo primo libro risale al 1988 ed è stato pubblicato a Parigi, Tout ce que vous avez toujours voulu savoir sur Lacan, sans jamais oser le demander a Hitchcock (Tutto quello che avreste sempre voluto sapere su Lacan, e non avete mai osato chiedere a Hitchcock), che oltre alla sua passione incontenibile per il regista inglese, testimonia immediatamente il suo debito intellettuale, mai più abbandonato, nei confronti del pensiero lacaniano e del suo complesso apparato categoriale. D’ora in poi termini lacaniani come “simbolico”, “immaginario” o “godimento” (jouissance) diventano parole-chiave, sempre più abituali e familiari per Žižek, i cui libri successivi, forti del “debito” contratto, si misurano via via – tra i molteplici riferimenti incrociati – con la teoria dell’ideologia (1989), con la cultura di massa (1991), con i problemi della politica, la ex-Jugoslavia, il nazionalismo, i conflitti etnici (1991a, 1999), col mondo di Hollywood ed il cinema (1992), con Kant ed Hegel (1993), con Schelling (1996), il cyberspace e le fantasie sessuali (1997) e così via.

 “L’idiota sono io”

Ciò che nella produzione žižekiana emerge sempre più chiaramente è il significato ed il ruolo svolti dalla cultura di massa, da quella cultura popolare intrisa di cinema, pubblicità, immagini, romanzi, televisione, che per il pensatore sloveno rappresenta il luogo per eccellenza tanto del simbolico quanto dell’immaginario e, in quanto tale, oggetto principale della sua analisi. La ragione dell’impiego di esempi tratti dalla cultura popolare per spiegare Lacan è chiaramente espressa da Žižek in una interessante autointervista, finalmente tradotta in italiano. Qui si legge:

“Ricorro a questi esempi soprattutto per evitare il gergo pseudo-lacaniano e per raggiungere la maggiore chiarezza non solo per i miei lettori ma anche per me stesso: l’idiota per cui mi sforzo di formulare il più chiaramente possibile un punto teoretico sono proprio io”. E aggiunge “mi convinco di aver davvero compreso qualche concetto lacaniano quando riesco a tradurlo efficacemente nell’intrinseca stupidità della cultura popolare. In questa completa accettazione dell’estrinsecazione in un medium stupido, in questo rifiuto radicale di qualsiasi segreto iniziatico, risiede l’etica di trovare la parola appropriata” (1999it: 171).

È così che Lacan aiuta a spiegare Hitchcock, Spielberg o David Lynch, ma viceversa è anche Hitchcock, Spielberg o Lynch che aiutano a comprendere, esemplificare e ad attualizzare Lacan (il sottotitolo di un’importante opera del 1991 suona infatti: An Introduction to Jacques Lacan through Popular Culture). Ben note sono, infatti, le letture cinematografiche di Žižek e in specie del suo maestro preferito, il “buon marxista” Hitchcock: non c’è quasi pagina dei suoi scritti in cui non compaia una qualche notazione, osservazione sul suo modo di fare cinema, sulla straordinaria capacità hitchcockiana di mettere in scena fantasmaticamente mediante i suoi inquietanti personaggi le complesse ed enigmatiche sfaccettature della personalità umana. (Si pensi in questo senso, solo per fare un esempio notissimo, al magistrale racconto filmico de La finestra sul cortile e all’apparentemente semplice ma analiticamente intricatissimo rapporto tra Jeff, il protagonista interpretato da James Stewart, la sua bellissima fidanzata, interpretata da Grace Kelly, e l’assassino dell’appartamento posto esattamente di fronte allo sguardo – impotente ma dominante, distante ma attivo, neutrale ma interessato, innocente ma coinvolto – dietro la finestra di Jeff).

La cultura di massa non è tuttavia per Žižek solo il banco di prova delle teorie lacaniane, lo scenario privilegiato in cui queste troverebbero conferma e legittimità, essa ancor più rappresenta la vera ideologia della società tardocapitalista. Non già però l’ideologia nel senso di inconscio collettivo, espressione inconsapevole di forze represse della società, o di “immaginario collettivo”, rappresentazione di ansie o aspettative di una società, ma di immaginario del “Grande Altro”, come si esprime lacanianamente Žižek, vale a dire il modo di strutturarsi dei soggetti all’interno di un ordine simbolico, l’ordine simbolico proprio del potere. Il potere è infatti sempre se stesso e contemporaneamente il suo opposto, un doppio simbolico in grado di duplicarsi fantasmaticamente. Il suo mandato si esplica sempre su un duplice registro, sostiene Žižek, è sempre del tipo: “Obbedisci/Ribellati” o “Lavora/Divertiti”. Il suo comportamento è intimamente autocontraddittorio, conosce una improvvisa e radicale oscillazione tra due poli opposti, tra due atteggiamenti estremi, infatti 

“dopo aver dispiegato la sua “crudeltà irrazionale” e dopo averci fatto sentire colpevoli fino all’estremo, improvvisamente “cambia musica”, mostra il suo volto amichevole, si stupisce per la nostra paura e cerca di farci sentire meglio” (1999it: 118).

Tutti quelli che hanno fatto il militare, esemplifica Žižek, sanno cosa vuol dire, conoscono perfettamente la “logica di questa scelta impossibile”.

Il Grand Autre incarna allora il modo di essere proprio del potere in tutte le sue forme, nelle sue più complesse, stratificate ed ambigue manifestazioni: palesi ed implicite, scritte ed indeterminate, pubbliche ed oscene, categoriche e paradossali. Esso rappresenta quindi l’insieme delle etichette, delle convenzioni non scritte, non definite, ma già sempre conosciute e praticate da un gruppo. Ed è proprio nella cultura di massa che viene a manifestarsi uno dei volti, quello più immediato e rappresentativo, più idiota ed abbordabile del Grande Altro, ragione per cui è da essa che bisogna partire, è da essa che non ci si può allontanare, occorre albergarvi, indugiarvi, prenderla estremamente sul serio – come fa lo Spirito hegeliano che conquista la propria verità solo quando “guarda in faccia il negativo” e si “sofferma” presso di esso (Tarrying with the Negative, suona precisamente il titolo di un’opera zizekiana del 1993) – e farne l’oggetto principale di studio e di riflessione. Soprattutto nelle sue manifestazioni più correnti e consumate, nei fenomeni trash o nel kitsch, per una specie di cortocircuito verrebbe allora in chiaro la verità inversa dell’ordine simbolico del Grande Altro:

“queste determinazioni non fanno che fungere da oggetti sintomatici entro il campo di tale cultura; più che svelare il “cattivo gusto” intrinseco di tutta la cultura di massa, ne raddoppiano, confermandolo, il carattere di grande sintomo – la cultura di massa rivela cioè proprio nelle sue forme più basse, scadenti, emulative la sua inversione, ossia la sua verità”,

scrive Marco Senaldi (in Žižek 1999it: 198). Si tratta pertanto di prendere parte al sintomo, enjoy your symptom! come dice Žižek (cfr. 1992), goderlo fino in fondo, cioè assumerlo su di sé ed identificarsi con esso, fino ad arrivare a leggere – sembra dire il pensatore sloveno – la cultura “alta” come se fosse “bassa”, a leggere l’“elitario” Mozart come il “massificato” Michael Jackson. Ma se il sintomo è il modo in cui una società organizza il proprio godimento, non si può nascondere il godimento provocato dalla cultura di massa, ed è chiaro allora, scrive Žižek,

che la teoria lacaniana serve come scusa per indulgere nell’idiota godimento della cultura di massa.

Un insolito piacere. Il godimento e l’altro

Ora, non certo a caso a proposito della cultura di massa e della reazione che essa provoca si parla di “godimento” (jouissance, enjoyment) e non di piacere (Lust), giacché per Žižek, sulla scorta di Lacan, il godimento si pone “al di là del principio del piacere”, nasce da un incontro conflittuale, doloroso con l’oggetto. Si tratta di un piacere insolito, di una soddisfazione sempre irrisolta, paradossale, suscitata da una cosa che spezza l’equilibrio del piacevole, rompe la corrispondenza tra soggetto e oggetto e introduce una dimensione altra, differente, non pacificata3. Il godimento, dice Lacan, non è mai il mio godimento, è sempre il godimento dell’altro. E lo stesso vale per il desiderio. Il desiderio che troviamo al centro dell’immaginario, quello che Žižek chiama la fantasy, non è mai il mio desiderio, è piuttosto la relazione con il desiderio dell’altro:

il desiderio messo in scena nell’immaginario non è il mio, ma è il desiderio dell’altro. L’immaginario è, per il soggetto, un modo per rispondere alla domanda riguardo all’oggetto che egli è agli occhi dell’altro, al desiderio dell’altro; cioè che cosa vede in lui l’altro, quale ruolo egli ha nel desiderio dell’altro. […] In breve, l’immaginario è la prova più evidente del fatto che il desiderio del soggetto è il desiderio dell’altro (1999it: 172).

Ma qual è la ragione per la quale tanto il godimento quanto il desiderio hanno a che fare con l’altro? La spiegazione sta nel fatto basilare che per Žižek, che ancora una volta rileggendo Lacan va oltre Lacan stesso, è l’Io che ha già l’altro in sé, è l’Io che è già sempre un altro5. Infatti il soggetto da cui parte il pensatore sloveno è il $, il soggetto barrato di cui parla lo stesso Lacan, cioè il soggetto come assoluta mancanza di essere, un segno puramente formale privo di qualsiasi contenuto positivo, un vuoto originario che viene riempito solo da un contenuto e una presenza immaginari. Ma questo oggetto che cerca di colmare il vuoto del soggetto, non è una cosa, un comune oggetto materiale, è – ancora con Lacan – l’objet petit a, l’oggetto a minuscolo, cioè l’oggetto senza proprietà, l’oggetto sublime, “un fascio di proprietà cui manca l’esistenza”, scrive Žižek, che in questo senso coincide con l’oggetto dell’immaginario stesso. Ma come alcunché di immateriale è anche ciò che è “in me più che in me stesso”, per dirla con Agostino, qualcosa che è già sempre sotto il mio sguardo ma – per la costituiva, radicale alterità che mi attraversa e in una prospettiva essenzialmente intersoggettiva – di cui sono in grado di fare esperienza solo attraverso la mediazione dello sguardo dell’altro. Per comprendere meglio l’insieme di tali problematiche conviene forse chiarire che per Zizek, sempre sulle orme di Lacan, si può dire che il reale non preesiste al simbolico. Non vi è un primum reale che in seguito viene simbolizzato. Il reale viene ad essere nello stesso momento in cui è il simbolico. Il reale possiede un’esistenza puramente formale, di per sé è immateriale. Ciò che esperiamo come la realtà “non è la “cosa in sé”, è già-sempre simbolizzata, costituita, strutturata per mezzo del meccanismo simbolico (1999it: 26). Solo che, continua Žižek, si presenta il problema che “la simbolizzazione in definitiva fallisce sempre, che non ha successo completo nel “coprire” interamente la realtà, che sempre implica un certo non saldato, non redento, debito simbolico. Questo Reale (la parte di realtà che rimane non simbolizzata) ritorna sotto forma di apparizione spettrale” (Ibidem). Tuttavia, se “la realtà stessa non è nulla se non l’incarnazione di un certo blocco nel processo di simbolizzazione” (1991: 45), la parte di realtà che rimane non simbolizzata, questo “buco nel Reale”, questo “piccolo pezzo di Reale” rimasto fuori, rappresenta anche quanto vi è di più importante e costituisce precisamente l’objet petit a, il quale, fungendo “da schermo, da spazio vuoto in cui il soggetto proietta le fantasie che sostengono il suo desiderio” (Ivi: 133), finisce col coincidere con il soggetto stesso, il $, il soggetto barrato, che in quanto mancanza di essere equivale dialetticamente a quel pezzo non “coperto”, a quel frammento di Reale escluso. In altri termini, conclude Žižek, “la realtà non è direttamente “se stessa”, essa si presenta solo attraverso la sua incompleta-fallita simbolizzazione, e le apparizioni spettrali emergono in questa spaccatura che separa sempre la realtà dal Reale, e in base a cui la realtà ha il carattere di una fiction (simbolica): lo spettro dà corpo a ciò che schiva la (simbolicamente strutturata) realtà” (1999it: 26). In questo senso complessivo si può davvero dire che il rapporto tra soggetto barrato e objet petit a rappresenta ciò attorno a cui ruota il pensiero di Žižek, al punto che le riformulazioni delle dimensioni lacaniane del simbolico e dell’immaginario in termini, rispettivamente, di fiction e di fantasy costituiscono il quadro di riferimento concettuale senza la cui comprensione rimane irrelato tutto l’insieme dei fitti rimandi che senza posa si rincorrono nella sua riflessione.

Il cinico, la vittima e Forrest Gump

Ora, senza aver paura di “soffermarsi sul negativo” – per dirla con l’Hegel di Žižek – dell’ideologia contemporanea, ma guardandola apertamente in faccia, indagando approfonditamente su di essa, come si è visto per la cultura di massa e le sue peculiari forme sintomatiche, scorgiamo uno dei suoi tratti dominanti nella posizione del cinismo. L’atteggiamento cinico è quello proprio di colui che nonostante sappia perfettamente ciò che sta facendo continua tranquillamente a farlo, di chi ad esempio conosce esattamente i meccanismi di coercizione del potere ma vi si adegua senza troppe difficoltà. Secondo Žižek è la “distanza cinica” che rappresenta la forma dominante dell’atteggiamento ideologico del soggetto tardocapitalista, un cinismo che però dileggiando “la legge pubblica dalla posizione del suo substrato osceno” (Ivi: 54), finisce per lasciare intatto tutto il suo potere. Ora, scrive Žižek, “dal momento che il godimento che permea questo lato nascosto osceno è strutturato in fantasie, si potrebbe anche dire che ciò che il cinico lascia intatto è la fantasia, lo sfondo fantasmatico del testo ideologico pubblico e scritto. Distanza cinica e completo affidamento alla fantasia sono così strettamente interdipendenti: il tipico soggetto odierno è uno che, mentre ostenta una cinica sfiducia in ogni ideologia pubblica, indulge senza ritegno in fantasie paranoiche a proposito di cospirazioni, minacce e forme eccessive dijouissance dell’altro” (1999it: 34).

L’esempio emblematico del fatto che oggi l’ideologia funziona in modo cinico può essere fornito dal brillante film di Robert Zemeckis Forrest Gump, in cui per la prima volta viene in chiaro proprio il nuovo ruolo dell’ideologia: nell’epoca post-ideologica essa non si preoccupa più di nascondersi, di occultarsi in qualche modo, mostra anzi apertamente il proprio volto, rivela a tutti il segreto del suo funzionamento e così facendo può continuare a funzionare indisturbata; la condizione del suo esistere sta paradossalmente proprio nel suo mostrarsi a viso aperto. Il personaggio di Forrest Gump, dice Žižek, rappresenta infatti “l’ideologia nella sua massima purezza”, egli “dà corpo all’impossibile soggetto puro dell’ideologia, all’ideale di un soggetto in cui l’ideologia funzionerebbe senza imperfezioni”. La morale del film è infatti semplice ed esplicita: smetti di capire, obbedisci, e avrai successo! L’idiota esecutore automatico degli ordini, Forrest, alla fine diventa miliardario, la sua ragazza, dotata di spirito critico ed impegnata politicamente, viene invece colpita e muore di Aids. Forrest Gump, dunque, “rivela il segreto dell’ideologia (il fatto che il suo modo di funzionare più efficace implica la stupidità dei suoi soggetti) tanto esplicitamente che, in contesti storici differenti, avrebbe indubbiamente prodotto effetti sovversivi; oggi comunque, nell’era del cinismo, l’ideologia può permettersi di rivelare il segreto del proprio funzionamento (la sua idiozia costitutiva, che l’ideologia tradizionale, precinica, doveva mantenere segreta) senza nemmeno intaccare la propria efficienza” (Ivi: 56).

Un aspetto determinante e significativo della configurazione ideologica che caratterizza la nostra epoca, secondo Žižek sarebbe ora rappresentato dalla figura della vittima, o meglio dall’universalizzazione dell’idea di vittima. Oggi tutti si proclamano vittime, siamo tutti vittime di qualcosa, sostiene il pensatore lubianese, perché tutto sembra minacciarci: la guerra e la fame, la violenza sessuale, il fumo passivo, l’alcool e il freddo (o il caldo) e così via. In questa dimensione di vittimizzazione generalizzata, addirittura “fa parte dell’immagine pubblica di una star del cinema o della musica avere la propria vittima favorita” (Ivi: 187): Richard Gere ha il Tibet, Liz Taylor i malati di Aids, Sting le foreste amazzoniche, Brigitte Bardot gli animali e così via, fino al punto che, si potrebbe aggiungere, il mondo intero tiene come vittima par excellence i bambini affamati del Terzo Mondo. Ora, sostiene Žižek, questa vittimizzazione dell’altro diventa pericolosa nel momento in cui “l’etica liberal-democratica “postmoderna” della compassione per le vittime legittima la rinuncia, il differimento all’infinito dell’azione” (Ivi: 188). Ma non basta, perché in quest’ottica si avanza anche l’idea che l’altro merita di essere riconosciuto come tale solo nella misura in cui rimane nella condizione di vittima. Come dire che l’altro buono è l’altro vittimizzato. Ciò che fa veramente paura, scrive Žižek, “è che l’altro non sia più disposto a giocare il ruolo della vittima: se si rifiuta, allora è subito denunciato come “terrorista”, “fondamentalista” ecc. […] L’altro buono risiede nell’universalità anonima e passiva della vittima: ma nel momento in cui incontriamo un altro reale/attivo, c’è sempre qualcosa per cui rimproverarlo: di essere patriarcale, fanatico, intollerante…” (Ibid.). Limitare l’autenticità dell’“altro” alla condizione di vittima si  può dire rappresenti una delle forme più violente ed autoritarie per sopprimerne l’identità. Il risultato di questa ideologia, va da sé, sono l’esplosione delle etnie, i fondamentalismi.

L’altro viene dunque sempre più percepito come una potenziale minaccia, come qualcuno che attenta alla mia identità personale, che mi priva di ciò che mi appartiene. Nella prospettiva lacaniana di Žižek non è allora difficile individuare ciò che un simile atteggiamento cerca di nascondere: il desiderio come tale che, con Lacan, è sempre il desiderio dell’altro. “L’altro costituisce una minaccia poiché è il soggetto del desiderio, poiché esprime un desiderio impenetrabile che sembra invadere l’equilibrio protetto del “mio sistema di vita”” (Ivi: 189). Ma accanto al desiderio, questo atteggiamento occulta anche il godimento, il godimento dell’altro: “ciò che davvero non sopportiamo nell’altro è il modo peculiare in cui organizza il suo godimento, precisamente il surplus, l’“eccesso” che contraddistingue tale modo: l’odore del “loro” cibo, le “loro” canzoni e le “loro” danze rumorose, i “loro” strani modi di fare, il “loro” modo di lavorare” (Ivi: 64), arrivando così ad imputare all’altro il furto del nostro godimento (cfr. Žižek 1993: 201-206).

Definendo in sintesi il panorama ideologico attuale come l’età del cinismo, Žižek vuole indicare come il vero nemico ideologico oggi sia precisamente l’atteggiamento post-ideologico della “distanza cinica”, che egli fa coincidere con la posizione “postmoderna” in senso lato e con la sua etica liberal-democratica (di cui il filosofo americano Richard Rorty sarebbe il profeta6), che pur richiamandosi idealmente ai principi della differenza e della tolleranza trova il suo limite reale nel momento in cui si scontra con una differenza concreta.
L’atteggiamento cinico è certo meno ingenuo rispetto alla trasgressione, cioè al semplice capovolgimento del Grande Altro, alla mera inversione del suo ordine simbolico, che gli fornisce così un appoggio inconsapevole. La consapevolezza del cinico è nondimeno troppo integrata al potere stesso, troppo inserita nei suoi giochi per non risultare in definitiva funzionale alla sua stessa strategia di sopravvivenza. Anche quando riesce a mantenersi a distanza dal Grande Altro, il cinico finisce per essere incapace di prenderlo sul serio e quindi smette di costituire per lui un problema: la sua distanza risulta così quantomeno inoffensiva.
Ora, di fronte all’odierno cinismo – i cui caratteri fondamentali erano peraltro stati acutamente analizzati qualche anno fa dal volume di Peter Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft7, che parlava del cinico moderno come di un “asociale integrato” e proponeva di arginare la sua avanzata con una terapia per così dire “omeopatica”, basata cioè sul recupero del kinismo ironico e dissacrante degli antichi – quale tipo di atteggiamento bisogna assumere per cercare di evitare di fornire un sostegno al Grande Altro e al suo potere, per non permettergli di rafforzarsi? La soluzione neocinica non è certo quella di Žižek. Certe volte, egli scrive significativamente,

la cosa più sovversiva da fare, quando si è faccia a faccia con il discorso del potere, è semplicemente di prenderlo alla lettera” (1999it: 118).

Cosa significa prendere alla lettera il potere, soprattutto nel momento in cui esso ha già cominciato a vacillare, a collassare? Per Žižek il “collasso del Grande Altro” è infatti già avvenuto nei paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est, dove è improvvisamente accaduto qualcosa, di natura puramente simbolica, che ha provocato uno “spostamento nella tessitura simbolica che costituisce il legame sociale” (cfr. Žižek 1993: 231-237). Se è così, di fronte a queste manifestazioni di impotenza del potere stesso, occorre allora continuare in questa opera di demolizione, portarla fino in fondo arrivando a indebolire anche la nostra inconsapevole fiducia nel Grande Altro del potere. Perché

il potere nel suo funzionamento si basa sulla profonda spaccatura tra la nostra conscia consapevolezza dell’impotenza del potere, la nostra distanza ironica nei suoi confronti, e la nostra inconscia credenza nella sua onnipotenza. Cioè, il potere si basa sul fatto che noi non crediamo alla nostra stessa inconscia credenza dell’onnipotenza del potere (1999it: 117).

Di qui la necessità di “prenderlo alla lettera”, cioè demolire questa fede inconscia nel grande Altro del potere. Un prenderlo alla lettera che è anche un contare sulla sua efficienza, dice Žižek, ma non avere “fiducia in Lui”, poiché sappiamo di avere a che fare “con un ordine di sembianze” (Ivi: 181). È dunque quest’insieme di mosse che costituisce quella che Žižek chiama la “trasgressione intrinseca”, l’unica reale alternativa tanto alla semplice trasgressione quanto alla distanza cinica.

In quest’ottica complessiva si deve allora guardare alla prospettiva generale in cui Žižek legge il nostro tempo. Per comprendere ciò che accade sotto i nostri occhi spesso non serve fissare il reale, non è possibile farlo, isolarlo nella sua presunta purezza, realtà, avvicinarsi smisuratamente ad esso, quanto piuttosto filtrarlo, guardarlo di sbieco, di traverso (un looking awry, come dice Žižek 1991), magari attraverso le lenti sgranate di una finzione narrativa, un film, un romanzo, che però sono in grado di restituircene la trama complessiva che lo sostiene, la cui natura è sostanzialmente fantasmatica. Sicché, contrariamente a quanto avveniva nel pensiero critico, compresa la sua più recente propaggine francofortese, in cui l’astratto procedeva dal concreto, il pensiero dal reale, Žižek ritiene che oggi si debba procedere in senso inverso, e cioè partire da un immaginario pseudo-concreto per cercare di individuare i dispositivi astratti che sono alla base delle nostre esistenze. Ed è qui che sorge quello che Žižek, prendendo spunto da un verso di Petrarca, definisce il “tormento delle fantasie” (The Plague of Fantasies, 1997), provocato dal conflitto tra la sempre maggiore astrazione delle nostre esistenze e il martellamento di immagini pseudo-concrete cui siamo continuamente esposti.
Ed è così che allora va compreso anche il modo generale in cui Žižek guarda alla cultura di massa e in cui “si sofferma” in essa, rovesciando l’approccio tradizionalmente accademico e la sua snobistica ed inefficace “distanza cinica”. Avec Lacan, Žižek esprime in sintesi una estrema fiducia nella psicanalisi e nella sua capacità di trasformare il “reale”, di produrre effetti tramite le parole, “disfare le cose (i sintomi) con le parole”. Di qui possiamo trarre anche noi una più generale fiducia nella cultura e nella teoria, cioè in un sapere di tipo effettuale che guardi ai fenomeni della società e della cultura non da un punto di vista ideale, astratto, ma come ad un insieme di “pratiche” sociali e culturali e di dispositivi di potere (è questo l’approccio “resistente” e decisivo dei cultural studies), che rivendichi quindi il proprio diritto di non appiattirsi sull’esistente, di far valere in sintesi un punto di vista critico.

Note

1. Un valido esempio della lettura psicanalitica žižekiana di questo film, e più in generale del cinema di Hitchcock, si trova in Žižek (1991: 89-106), ora in traduzione italiana col titolo La macchia di Hitchcock, in “aut aut”, nn. 293-294, 1999, pp. 133-151.
2. Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, vol. I, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1973.
3. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicanalisi, ediz. it. a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1994, dove si chiarisce che il godimento è precisamente “Lust im Unlust”.
4. Il desiderio dell’uomo, scrive Lacan, “trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro”, Scritti, ediz. it. a cura di G. Contri, vol. I, Torino, Einaudi, 1974, p. 261.
5. Per Lacan l’Io è originariamente un altro, ciò che consente che vi sia un simile, un altro che sia me. Per quello che Lacan chiama “lo stadio dello specchio”, l’Io del bambino, infatti, si costituisce a partire dall’immagine del suo simile. Cfr. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, vol. I, cit., pp. 87-94.
6. Quando nel suo Contingency, Irony and Solidarity, Rorty definisce l’uomo come “qualcosa che può essere ferito”, scrive Žižek (1999it: 187-188), egli sta definendo il ruolo dell’uomo esattamente nei termini post-ideologici della “vittima potenziale”.
7. Cfr. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, ediz. it. a cura di A. Ermano e M. Perniola, Milano, Garzanti, 1992.

Bibliografia

Žižek, S.
1989    The Sublime Object of IdeologyLondon, New York, Verso.
1991    Looking Awry: An Introduction to Jacques Lacan through Popular Culture, Cambridge, Mass., MIT Press.
1991a  For They Know Not What They Do: Enjoyment as a Political Factor, London, New York, Verso.
1992    Enjoy Your Symptom!: Jacques Lacan In Hollywood and Out,
London, New York, Routledge.
1992a  Everything You Always Wanted to Know about Lacan (But Were Afraid to Ask Hitchcock), London, New York, Verso.
1993    Tarrying with the Negative: Kant, Hegel and the Critique of Ideology, Durham, Duke University Press.
1994    The Metastases of Enjoyment: Six Essays on Woman and Causality, London, New York, Verso.
1996    The Indivisible Remainder: An Essay on Schelling and Related Matters, London, New York, Verso.
1997    The Plague of Fantasies, London, New York, Verso.
1999    The Ticklish Subject: The Absent Centre of Political Ontology (Wo Es War), London, New York, Verso.
1999it  Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, ediz. it. a cura di M. Senaldi, Milano, Feltrinelli.

http://www.agalmaweb.org/articoli.php?rivistaID=2

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: