Archive for ‘Filosofia’

20 Marzo, 2013

Quentin Meillassoux, Dopo la finitezza. Saggio sulla necessità della contingenza

by gabriella

Meillassoux

Traggo da The Pensive Image, la traduzione italiana dell’appassionante seminario che Quentin Meillassoux (Sorbonne) ha tenuto alla Middlesex University l’8 maggio 2008 su Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, il saggio che lo ha imposto all’attenzione del dibattito filosofico mondiale. Di seguito, la playlist di una sua conferenza sulla critica della necessità delle leggi di natura e l’intervista di Rick Dolphijn e Iris Van der Tuin pubblicata dal Rasoio di Occam.

La réalité qui le préoccupe n’implique pas tant les choses telles qu’elles sont, que la possibilité qu’elles puissent toujours être autrement.

Alain Badiou, Prefazione a Après la finitesse

Sono materialista perché non credo nella realtà.

Michel Foucault

Nella sua critica del correlazionismo, Quentin Meillassoux individua due principi costituenti l’argomento centrale della filosofia di Kant: il primo è il principio di correlazione, il quale pretenderebbe che il soggetto pensante possa conoscere solo il correlato di pensiero ed essere, in altre parole, ciò che sta al di fuori della correlazione è inconoscibile. Il secondo è chiamato da Meillasoux il principio di fattualità, che sostiene che le cose potrebbero essere diverse da come sono. Tale principio è sostenuto da Kant nella sua difesa della cosa-in-sé quale immaginabile sebbene inconoscibile: possiamo immaginare la realtà in modo radicalmente differente anche se non conosciamo tale realtà.

Secondo Meillassoux, la difesa di entrambi i principi dà come risultato un correlazionismo debole (come quello di Kant e Husserl), mentre il rifiuto della cosa-in-sé porta ad un correlazionismo forte come quello di Hegel, Wittgenstein e Heidegger. Per i correlazionisti forti non ha senso supporre che ci sia qualcosa fuori dal correlato di pensiero ed essere, così il principio di fattualità viene eliminato in favore di un principio di correlazione rafforzato.

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19 Marzo, 2013

Agamben, Elogio della profanazione

by gabriella

Giorgio_AgambenIn questa potente indagine genealogica del sacro, Agamben demistifica il significato della religione, mostrando come essa non sia affatto ciò che lega l’umano e il divino (religio), ma al contrario, ciò che li tiene separarati (relego). Nella sua analisi, il frammento su capitalismo e religione di Walter Benjamin contenuto nelle Tesi sul concetto di storia, serve a precisare la natura del capitalismo, inteso non tanto – come voleva Max Weber – come un gigantesco processo di secolarizzazione del numinoso, ma come un fenomeno religioso esso stesso, nato all’interno del cristianesimo e divenutone poi il parassita.

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14 Marzo, 2013

Marx e la giustizia

by gabriella

Marx nel 1875Il dibattito sul Rasoio di Occam. Secondo Petrucciani, prima di Marx la critica sociale si reggeva principalmente su un impianto moralistico. Ecco perché Marx ha segnato un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto. Panissidi spiega come e perché Marx non ne abbia mai avuto bisogno e anzi opponga esplicitamente la prospettiva materialistica a quella etica.

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14 Marzo, 2013

Dalla filosofia alla concezione materialistica della storia

by gabriella

Stralcio alcuni passi da questa introduzione al materialismo storico e alla dialettica di Area globale.

Marx ed EngelsMolto raramente si ricorda che una delle conclusioni teoriche di Marx è quella del superamento della divisione disciplinare della conoscenza (si potrebbe dire, della divisione del lavoro nel campo della conoscenza) e l’adozione di un approccio olistico – diciamo, interdisciplinare – ai problemi che in genere vengono catalogati come “filosofici”, “economici”, “storici”, “sociali”, “psicologici”, ecc…

il marxismo non si lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali del sistema delle scienze borghesi, e anche se si intendesse approntare appositamente per esso… un nuovo comparto chiamato sociologia, esso non vi rimarrebbe tranquillamente, ma continuerebbe a uscirne per infilarsi in tutti gli altri. “Economia”, “filosofia”, “storia”, “teoria del diritto e dello Stato”, nessuno di questi comparti è in grado di contenerlo, ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si intendesse collocarlo in un altro» [K. Korsch, Marxismo e filosofia, Sugar, Milano, 1968, p. 87. Cit. in Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Vol.3, Cap.10 “Marx”].

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14 Marzo, 2013

Oscar Oddi. Recensione a Luca Basso, Agire in comune

by gabriella

agire in comuneTraggo da Consecutio temporum. Hegeliana, marxiana, freudiana la bella recensione di Oscar Oddi ad Agire in comune, uno studio sull’ultimo Marx al cui approccio sono particolarmente vicina. Testo e recensione affrontano i temi cruciali dell’evoluzione del concetto di alienazione e delle forme di produzione capitalista, del rapporto individuo-comunità e uomo-macchina, nonché del passaggio dal concetto di proletariato a quello di classe operaia.

Il rinnovato interesse verso l’opera di Marx ha suscitato anche in Italia una nuova produzione di studi critici sul complesso itinerario del pensatore di Treviri, sorta prevalentemente in ambito accademico vista la riduzione ai minimi termini, non solo numerici, delle espressioni politiche e sociali che dovrebbero averlo come riferimento. All’interno di questo filone si colloca l’ultima fatica di Luca Basso “Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx”, Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 247, € 20,00.

Con l’ausilio dei vari manoscritti che la nuova edizione critica delle opere di Marx e Engels (nota come Mega2) sta progressivamente mettendo a disposizione degli studiosi, Basso ripercorre alcuni snodi fondamentali del percorso marxiano tentando di proporne una lettura lontana dai tradizionali canoni. L’obiettivo prefisso è quello di tenere insieme l’oggettività dell’analisi del capitale e la politicità della soggettività di classe, rintracciando la loro relazione anche attraverso le instabilità che la caratterizzano. Per questo Basso intreccia la riflessione del Capitale con gli scritti storici e politici di Marx, così come respinge una lettura “logicista” del Capitale (si veda la scuola “logicista” tedesca, con Backhaus tra i principali esponenti, di cui è uscito in traduzione italiana, a cura di Riccardo Bellofiore e Tommaso Redolfi Riva, “Dialettica della forma di valore, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 549), che insiste sul fatto che la riflessione marxiana non scaturisce da dati ricavabili empiricamente.

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13 Marzo, 2013

Walter Benjamin, Capitalismo e religione

by gabriella

Benjamin

Due saggi, di Giorgio Agamben e Giorgio Fontana, sul frammento benjaminiano Capitalismo e religione.

Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.

Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:

1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha signigicato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.

2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.

3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa.

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11 Marzo, 2013

Giorgio Bongiovanni, Giovanni Sartor, Ronald Dworkin: i diritti presi sul serio. L’uguaglianza e i fondamenti della moralità politica

by gabriella

220px-Ronald_Dworkin_at_the_Brooklyn_Book_FestivalE’ uscita oggi sul Rasoio di Occam una ricognizione complessiva del pensiero di Ronald Dworkin, filosofo del diritto tra i più eminenti, scomparso lo scorso 14 febbraio.

La riflessione dworkiniana*, secondo molti teorici del diritto, ha rappresentato un vero e proprio cambio di paradigma rispetto alle posizioni classiche della teoria giuridica quali il giuspositivismo, il giusnaturalismo e il realismo giuridico. Nel dibattito italiano e dei paesi di lingua neolatina, Dworkin viene considerato come uno dei principali ispiratori della corrente del “neocostituzionalismo”. Le analisi dworkiniane non si sono limitate al diritto, ma si sono estese a fondamentali temi della politica e dell’etica: si può dire che le sue indagini abbiano preso in esame i principali aspetti della ragion pratica.

L’opera di Dworkin a nostro parere può essere vista come lo sviluppo di un’unica tesi fondamentale, quella della connessione tra diritto e moralità politica1. Questa tesi fornisce una chiave di lettura coerente delle sue riflessioni teorico-giuridiche, filosofico-politiche e filosofico-morali.

In relazione alla teoria del diritto, la tesi della connessione comporta la critica del modello positivistico del diritto, cioè la negazione della riducibilità del diritto alle fonti formalmente valide, quali le statuizioni autoritative del legislatore, dell’amministrazione e dei giudici. Al contrario, per Dworkin il diritto include necessariamente valutazioni morali, la cui validità si fonda non solo sulla loro accettazione da parte dei giudici e dei cittadini, ma anche sulla loro intrinseca correttezza, quali aspetti della moralità politica della comunità. Si tratta in particolare dei principi inclusi nel sistema costituzionale, che esprimono primariamente una serie di diritti degli individui.

Questa prospettiva comporta un’implicazione politica importante al livello della struttura del sistema giuridico, cioè il vincolo del legislatore di fronte ai principi e ai diritti che fondano la comunità. Nella visione di Dworkin l’interpretazione e l’attuazione di quei principi è affidata ai giudici, cui pertanto egli riconosce un ampio ruolo, anche in contrapposizione al legislatore. Ad essi spetta garantire il principio “liberal”, della eguale considerazione e rispetto degli individui (e innanzitutto la tutela dei loro diritti), che rappresenta il necessario presupposto della legittimità dei sistemi giuridici.

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10 Marzo, 2013

Paolo di Tarso, L’amore ἀγάπη

by gabriella

Da Studia humanitatis, traggo questo brano paolino sul significato utopico dell’amore che non nasce dal bisogno ma dalla sovrabbondanza, dalla fraternità (ἀγάπη).

Conversione-di-san-Paolo-Caravaggio

Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, sono bronzo echeggiante o cembalo risonante. Se ho profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza e se ho tutta la fede così da trasportare i monti, ma non ho amore, sono un nulla. Se impegnassi tutti i miei averi per nutrire i bisognosi e se consegnassi il mio corpo perché io sa bruciato, ma non ho amore, a nulla mi giova. L’amore è longanime, è clemente l’amore, non è invidioso, l’amore non è borioso, non si gonfia d’orgoglio, non compie azioni vergognose, non ricerca il proprio interesse, non si lascia andare all’ira, non tiene conto del male, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della rettitudine. Tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non viene mai meno. Invece le profezie saranno abolite, le lingue cesseranno, la conoscenza sarà eliminata. Parzialmente, infatti, conosciamo e parzialmente profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello parziale sarà eliminato.

1 Corinzi, 13

Per descrivere la lingua degli uomini e degli angeli, priva di amore, Paolo usa l’immagine impiegata da Platone per definire i retori, cioè i politici:bronzi sonanti” che continuano a vibrare “fino a che una mano vi si posi sopra” (Protagora, 324); vale a dire parlanti fino a quando chi li muove  – interessi di parte, di precisi segmenti di società – non li fermi  – sono perciò discorsi eterodiretti, senza autonomia -. Le loro sono parole che persuadono senza verità, cioè senza giustizia, nello stesso senso in cui, in Michelstaedter, la“rettorica” sta contro la persuasione.

Nessuna erudizione, nessuna fede, nessuna compassione, valgono un ette senza giustizia- ἀγάπη. I migliori sentimenti umani sorgono infatti quando essa si impone, senza prescrizioni, senza catechismi, senza ammonizioni. Allora essa trionfa, perchè quando la fraternità regna, ogni parzialità (cioè ogni ingiustizia) viene a cadere.

8 Marzo, 2013

Italo Testa, Giustizia poetica

by gabriella

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In questo bellissimo studio pubblicato su Le parole e le cose, Italo Testa spiega il senso di quella giustizia senza nome, dell’utopia che aspira alla perfezione, cioè alla felicità e alla piena individuazione che, seguendo Thomas Rymer, chiama poetic justice.

E’ un ideale consapevolemente individualista, quello di Testa, storicamente più vicino a quello di Robespierre («i popoli non emettono sentenze, scagliano la folgore») che a quello di Marx, cioè allo slancio morale del dover essere più che alla prometeica lotta per la costruzione della realtà («un’epoca sorgerà carica di sole» Walter Benjamin).

La vita immaginata

Nella sua Teoria del Romanzo György Lukács ha scritto una volta dei «fini utopistici di tutte le filosofie»[1]. La questione dell’utopia eccede così i limiti, il corsetto spagnolo della politica, abbracciando l’intera impresa del pensiero. Ed è forse nella metafisica, più che altrove, che si installa l’elemento utopico. Non è del tutto casuale che l’utopia politica, che altro non è che una manifestazione particolare dello spirito utopico, abbia trovato la sua formulazione originaria nel centro dell’impresa platonica che per prima ha indagato la possibilità di un sapere metafisico. La topologia metafisica è così illuminata dalla fonte utopica. E il fine utopistico della metafisica potrebbe essere afferrato se fossimo in grado di cogliere il ruolo giocato dall’immaginazione al suo interno.

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8 Marzo, 2013

Tomaso Montanari, Il Dio di Ratzinger

by gabriella

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Da Le parole e le cose, la spietata analisi di Tomaso Montanari delle dimissioni di Benedetto XVI: agli occhi del cristiano, il gesto di Ratzinger appare il segno di quell’interiorizzazione del relativismo, del dichiarato ateismo e del materialismo affaristico che il papato, in teoria, combatte. Il fedele, insomma, si scandalizza, opponendo alle dimissioni del papa – e al potere temporale della chiesa romana – il sovvertimento divino, mentre il laico Agamben coglie nel gesto di Benedetto XVI l’occasione per una riflessione tutta terrena sulla tensione tra legalità e legittimità.

In quale Dio crede Joseph Ratzinger?

Se da almeno mille e settecento anni l’esercizio del potere da parte della Curia romana tradisce un ateismo pratico, il discorso con il quale, l’11 febbraio scorso, Benedetto XVI ha annunciato l’inaudita decisione di lasciare il pontificato sembra presupporre un ateismo anche teorico:

«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».

In altre parole: mi dimetto perché non sono forte, non sono adatto (in latino, ha scelto la parola «aptus»: capace). E per vincere, nel mondo d’oggi («in mundo nostri temporis»), ci vuole la forza: «vigor». Per un cristiano (come me) queste sono affermazioni sconvolgenti perché negano radicalmente l’idea di Dio che la Chiesa stessa mi ha insegnato, seguendo la Scrittura e la Tradizione. Il Dio della Bibbia è il Dio che ribalta sistematicamente la logica, umana, della forza:

«Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Luca, 9, 24).

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