Il lavoro tra innovazione e declino

by gabriella

Lezione introduttiva ai problemi del lavoro nella società dell’automazione digitale e dell’intelligenza artificiale.

 

Indice

1. Lavoro e competenze nel XXI secolo

2. Intelligenze artificiali e declino del lavoro

2.1 Lo scenario
2.2
 Il pianeta dei robot
2.3 The Economist, Bussano all’ufficio proprio accanto al tuo

 

3. Francesco Daveri, Industria 4.0 e l’impatto sul lavoro

2.1 Riccardo Staglianò, Al posto tuo
2.2 Tutta la città ne parla, Intelligenza artificiale e politica

 

4. Gig e Sharing Economy

4.1 Gig economy
4.2
Sharing economy
4.3
Carlo Formenti, Abbasso Uber

 

5. Gli studi umanistici sono strategici nel lavoro del XXI secolo?

6. Esercitazione, Lavoro e società sotto il profilo giuridico e sociale

 

1. Lavoro e competenze nel XXI secolo

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Kahoot

2. Intelligenze artificiali e declino del lavoro

Di Fabio Chiusi. L’articolo è uscito nel 2016 su Valigia Blu.

È un giorno qualunque, nell’era dei robot, e il lavoratore tipo esce di casa per recarsi in ufficio. Le macchine, per strada, si guidano da sole. Il traffico pure: si dirige da sé. Lo sguardo può dunque alzarsi sopra la testa, dove, come ogni giorno, droni consegnano prodotti e generi alimentari di ogni tipo – oggi, per esempio, il pranzo suggerito dal frigorifero “intelligente”.

Sul giornale – quel che ne resta – gli articoli sono firmati da algoritmi. Giunto alla pagina finanziaria, il nostro si abbandona a un sorriso beffardo: il pezzo, scritto da un robot, parla delle transazioni finanziarie compiute, in automatico, da altri algoritmi.

Entrato in fabbrica, poi, l’ipotetico lavoratore di questo futuro (molto) prossimo si trova ancora circondato dall’automazione; per la produzione, ma anche per l’organizzazione, la manutenzione, perfino l’ideazione del prodotto: a dirci cosa piace ai clienti, del resto, sono ancora algoritmi.

Quel che mi resta, pensa ora senza più sorridere, è coordinare robot, o robot che coordinano altri robot. Finché ne avranno bisogno.

 

Ma per quanto ancora? Per rispondere, basta tornare al presente. Nei giorni scorsi, l’intelligenza artificiale di Google chiamata ‘AlphaGo’ ha umiliato il campione Lee Sedol in uno dei giochi più complessi, astratti, e dunque tipicamente umani – così pensavamo – mai esistiti: il millenario Go.

Lee Sedol battuto da Alpha Go

Secondo gli esperti, sbalorditi, alcune mosse hanno esibito un comportamento non solo “creativo”, ma in un caso, secondo Wired, addirittura geniale in un modo del tutto incomprensibile a giocatori in carne e ossa.

Peggio: il campione battuto dalla versione precedente di quella intelligenza sintetica ora scala le classifiche proprio grazie a ciò che sta imparando dalla macchina. E questo, dicono a Google, è solo l’inizio. 

Quando si parla di automazione, robot e lavoro, dunque, la questione ci riguarda tutti – senza distinzione tra operai, impiegati, intellettuali o manager d’azienda. Nessuno è più immune dal rischio di vedersi sostituito da una macchina.

Dice un sondaggio appena pubblicato dal Pew Research Center che gli interpellati statunitensi ne sono consapevoli: due terzi immaginano che, entro i prossimi 50 anni, gran parte delle occupazioni attualmente svolte da esseri umani finiranno per essere assegnate a computer e intelligenze artificiali. Il rischio è tuttavia che pecchino di ottimismo quando aggiungono di ritenere – e in massa, l’80% – che

«il loro lavoro rimarrà in buona parte immutato e continuerà a esistere nella forma attuale»

tra mezzo secolo.

Sempre più analisi, infatti, sottolineano che lo scenario potrebbe essere presto ben diverso.

Frey e Osborne

Secondo i ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne (dati 2013), il 47% dei lavori negli Stati Uniti è già a rischio automazionee un ulteriore 13% vi si potrebbe aggiungere, nota McKinsey, quando le macchine diverranno capaci di “comprendere” e processare davvero il linguaggio naturale. Per l’Europa, poi, le percentuali ottenute rielaborando quei dati sono perfino più elevate.

Di qui le profezie di sventura. Per il docente della Rice University, Moshe Vardi, per esempio, entro il 2040 i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. 
«Se le macchine sanno fare tutto», chiede Vardi, «che resta agli umani?»
Qualche istituzione se l’è chiesto. La Commissione britannica per ‘Impiego e Competenze’, per dirne una, ne ha ricavato un rapporto intitolato ‘The Future of Work: Jobs and Skills in 2030.
Uno studio che, fin dall’inizio, sottolinea come sul tema si sia passati dalla promessa di orari di lavoro ridotti e di più tempo libero, alla realtà in cui lavoro e tempo libero finiscono per confondersi, troppo spesso senza che sia più possibile distinguerli.
Altri soggetti istituzionali, invece, devono ancora cominciare a problematizzare la questione. E sarebbe ora lo facessero, governo e sindacati in testa. A partire dall’Italia, dove manca qualunque elaborazione. E, di conseguenza, è inutile chiedersi se siano stati previsti e valutati i diversi scenari possibili; figurarsi le relative proposte di soluzione in termini di policy-making.

2.2 Il pianeta dei robot

Il servizio realizzato per Presa Diretta del 6 settembre 2016 è diviso in due parti: la prima passa in rassegna le esperienze più avanzate di sostituzione tecnologica nei mestieri e nelle professioni del cameriere, dell’operatore socio-sanitario, del magazziniere, delle professioni amministrative e di consulenza, la seconda quelle del giornalista e del medico che fa diagnosi e dell’avvocato.

Ai Act, la normativa europea che regolamenta le intelligenze artificiali 14 gennaio 2024

Amelia, la segretaria artificiale

La ragazza che ruberà il lavoro a qualche decina di migliaia di segretarie è bionda, ha un sorriso docile e parla tutte le lingue del mondo. Si chiama Amelia e possiede svariate qualità che, dal punto di vista delle imprese, la rendono parecchio competitiva: impara tutto e subito, non si ammala mai, non ha cali di produttività, lavora ventiquattr’ore su ventiquattro e non percepisce stipendio.

Amelia non è umana: è un’intelligenza artificiale prodotta dalla Ipsoft, società americana che si occupa dell’automatizzazione delle aziende. Gli ingegneri ci hanno lavorato per quindici anni e adesso l’assistente virtuale è pronta a cambiare (per sempre) il mondo dei servizi alle imprese. Un settore che soltanto in Italia conta circa due milioni e mezzo di addetti.

I modelli produttivi si modificano. Se ieri i robot sostituivano i colletti blu, oggi rimpiazzano quelli bianchi. Attenzione: non si parla di un futuro remoto. Sta succedendo qui e adesso. Lo racconta il reportage «Il pianeta dei robot», realizzato da Lisa Lotti ed Elena Marzano per il programma di Riccardo Iacona «Presa diretta» su Raitre. Un viaggio tra Stati Uniti, Europa e Italia alla scoperta delle applicazioni più sorprendenti. Perché gli androidi possono essere operai, ma anche medici, centralinisti, addetti alle vendite, operatori call center, cuochi, giornalisti.

Cinque milioni di posti persi entro il 2020: questo sarà l’effetto della diffusione delle macchine intelligenti secondo il rapporto diffuso al World Economic Forum di Davos. Mentre un recente studio della Bank of England afferma che digitalizzazione, automazione ed informatizzazione metteranno a rischio addirittura un posto di lavoro su tre. Basti pensare alle banche: un italiano sue quattro effettua operazioni in rete e il taglio del personale (auspicato anche da Renzi) è in cima all’agenda degli istituti di credito.

La sfida non è fermare il progresso, ma trovare possibili soluzioni per rendere sostenibile il sistema produttivo. Da una parte l’evoluzione dei mercati e delle competenze innescherà nuove opportunità: i lavori creativi saranno quelli meno sostituibili dai robot e certi settori quali nanotecnologie, stampa 3D, genetica e biotecnologie sono già oggi i più gettonati.

Dall’altra, seppur timidamente, prende piede l’idea che lo Stato dovrebbe garantire a ogni cittadino un reddito universale. Un’ipotesi allo studio di politici, economisti ed esperti dall’Europa agli Stati Uniti senza accordo, per ora, su come finanziarlo.

Amelia è un’intelligenza artificiale prodotta dalla Ipsoft, società Usa che si occupa di automatizzazione aziendale.

«È il primo vero robot cognitivo perché comprende il linguaggio umano – spiega Ergun Ekici, capo innovazione Ipsoft -. Il suo cervello crea una rete semantica, questa rete è la comprensione. Amelia non memorizza parole, ma si fa un’idea».

Chissà se in futuro esisteranno ancora telefonisti e segretarie:

«Per risolvere un problema Amelia fa come farebbe un umano: studia e legge, ma utilizza anche l’esperienza».

A maggio scorso la multinazionale Accenture – la più grande società di consulenza aziendale al mondo – ha annunciato che proporrà la piattaforma ai suoi clienti.

Watson, algoritmo medico

Watson è un supercomputer che cambierà il destino di medici e pazienti rivoluzionando il futuro della diagnostica. È stato sviluppato nello lo storico centro Thomas Watson di Ibm, uno dei laboratori di ricerca più importanti al mondo.

Si tratta di un algoritmo in grado di elaborare quantità immense di dati, studi, pubblicazioni, immagini. Watson può capire se ci troviamo di fronte a una patologia aggressiva o trascurabile e indica la cura più adatta per il paziente. Le “predizioni” statistiche del robot sono particolarmente accurate nel campo dell’oncologia.

Ross, l’avvocato

L’epicentro di questa storia è San Francisco. Qui due ragazzi californiani hanno creato il robot avvocato. Si chiama “Ross” ed è la prima intelligenza artificiale sviluppata per comprendere e affrontare le cause legali.

Lavora già da un anno presso grossi studi negli Stati Uniti. Costa al mese quanto guadagna un avvocato in un’ora ed è in grado di elaborare una mole enorme di informazioni su ogni singolo caso. Basta porre una domanda e “Ross” elabora la risposta tenendo conto di decine di leggi, centinaia di sentenze e migliaia di casi simili. Ora sta per fare il suo debutto in Italia, in un prestigioso studio milanese.

All’ospedale Morgagni di Forlì parte del lavoro degli inservienti viene svolto da otto robottini. Trasportano farmaci, rifiuti, biancheria e pasti. Effettuano 350 viaggi al giorno per 400 chili di carico ciascuno. All’occorrenza prendono l’ascensore e chiedono permesso quando incontrano ostacoli sul loro cammino. Ognuno di questi robot svolge il lavoro che prima facevano tre dipendenti.

i robot operatori socio-sanitari

La stessa cosa succede all’ospedale di Mountain View, nella Silicon Valley:

«Abbiamo 18 robot, non sono qui per rimpiazzare i lavoratori ma per rendere la gestione più efficiente», spiega il direttore Ken King. «La sanità costa molto e dobbiamo ridurre le spese».

Il primo ristorante completamente automatizzato d’America si trova a San Francisco. Niente camerieri, né cassieri, né lavapiatti. Da “Eatsa” fanno tutto i robot. Il menù si sceglie su un tablet, dove si possono leggere gli ingredienti e i valori nutrizionali.

Si ordina con un clic, si paga con carta di credito e dopo qualche minuto si ritira il pasto da uno sportello trasparente dove appare il nome del cliente. Veloce ed economico. Gli affari vanno così bene che in un anno è stato inaugurato un secondo locale nella città del Golden Gate Bridge, uno a Los Angeles e adesso la società punta ad aprire ristoranti nelle principali città d’America.

Ro.Dy.Man, il pizzaiolo

L’hanno chiamato “RoDyMan”, che sta per robotic dynamic manipulation. È uno dei primi robot al mondo a maneggiare oggetti deformabili, anche se per ora si limita alla pizza. Il creatore dell’androide è il professor Bruno Siciliano (uno dei maggiori esperti internazionali) dell’università Federico II di Napoli. Se il robot è in grado di sfornare una margherita potrà fare qualunque lavoro comporti l’uso delle mani.

«RoDyMan – spiega il docente – è in grado di vedere, interpretare, ripetere i movimenti umani e lo ha imparato da un maestro pizzaiolo a cui hanno infilato una tuta biocinetica. Quindi non è stato programmato per fare le pizze, lo ha imparato da solo».

Ristorazione

00:14 Eatsa Restaurant – San Francisco: ristorante senza camerieri, né lavapiatti, né cassieri
01:27 MacDonalds – senza cassieri

Servizi ospedalieri

Kiva

2:01 Camino Ospital Montain View  Tag: Ospedale senza Os
5:38 Ospedale pubblico Morgagni
6:00 I magazzinieri dell’Ospedale di Forlì
6:38 Magazzino farmaceutico in provincia di Forlì

Logistica

Ro.Di.Ma

7:45 Amazon: i robot magazzinieri Kiva
10:57 Amazon: la ricerca sui robot impacchettatori
11:51 RoDiMa: pollice opponibile e manipolazione dinamica: il robot pizzaiolo che impara osservando
13:43 Birmingham: la prensione dell’androide Boris e il suo strato di neuroni artificiali

Segreteria e consulenza

Boris

Ross

16:20 La segretaria Amelia di IpSoft: il primo robot cognitivo, comprende il linguaggio con una rete semantica, studia, legge e impara come un consulente, parla tutte le lingue e coglie anche l’umore dell’interlocutore
20:30 Ross, l’avvocato digitale
21:40 Esperti, periti e mediatori robot che processano migliaia di informazioni contenute in contratti e leggi

 

Giornalismo

22:58 Emma, il robot giornalista
[24:10 intanto il robot ti serve da bere]

24:15 Forum di Davos 2016: 5 milioni di posti di lavoro sostituiti nelle prime 15 economie mondiali entro il 2020
25:00 L’automazione porterà via il lavoro a basso costo e non solo

Baxter

27:00 Baxter operaio della Kawasaki Robotics alla Foxconn
29:50 Frey e Osborne Il futuro della disoccupazione40% di distruzione tecnologica; la new economy è a bassa intensità di mano d’opera: ci lavora lo 0,94% della forza lavoro impiegata nei paesi sviluppati

 

Diagnosi medica

31:20 L’algoritmo Watson che fa diagnosi medica sul melanoma con il dermatoscopio: ha il 95% di successo contro il 70/75 dei medici. Le tecnologie cognitive sono in grado di leggere tutte le pubblicazioni che escono su un tema, a differenza degli uomini

Watson

31:30 Archivio ospedaliero interamente automatizzato in Watson

dal 2014 al 2016 sono stati prodotti più dati di tutti quelli prodotti prima dall’inizio dei tempi

36:38 Quantum computer acceleratori di processamento informazioni
39:11 Andrew McAfee e la Rivoluzione delle macchine: un processo più forte della globalizzazione. Distruzione creatrice? Questa volta è diverso
41:38 nella rivoluzione industriale le macchine hanno sostituito le braccia, oggi la mente (deep learning)
43:30 Staglianò, Al posto tuo Crescita senza lavoro, la ricchezza si concentra sempre più
46:40 la politica non ha questi processi in agenda; il reddito incondizionato

The Guardian, Robot Revolution: rise of ‘thinking’ machines could exacerbate inequality

2.3 The Economist, Bussano all’ufficio proprio accanto al tuo

Un articolo dell’Economist del gennaio 2014: Technology and Jobs: Coming to an office near you [traduzione mia] analizza la nuova ondata di distruzione tecnologica dell’occupazione appena iniziata.

Il settimanale evidenzia come il 47% degli impieghi oggi esistenti sia suscettibile di automatizzazione nei prossimi vent’anni e come anche le iniziative economiche di successo siano oggi a bassa intensità di lavoro ed alta specializzazione (ad es.: Istagram, 30 milioni di utenti, 13 impiegati, un milione di dollari di profitto).

L’articolo snocciola dati drammatici e dipinge un futuro prossimo socialmente insostenibile, nonostante mantenga uno sguardo fiducioso sulla distruzione creatrice dell’attuale fase economica.

Il testo si conclude con la considerazione che l’unica leva in mano ai governi per sostenere le proprie popolazioni è di innalzare la qualità della scuola e cercare di fornire strumenti di crescita intellettuale e sviluppo della creatività ai giovani [Il nostro paese sta invece definanziando scuola e università da oltre vent’anni].

 

3. Francesco Daveri, L’impatto della quarta rivoluzione industriale sul lavoro

Il testo dell’audizione al Senato del 13 settembre 2017 sull’impatto sociale di industria 4.0.

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3.1 Riccardo Staglianò, Al posto tuo

3.2 Tutta la città ne parla, Intelligenza artificiale e politica

Evgenij Morozov, Geopolitica dell’intelligenza artificiale
Roberto Cingolani, Direttore Istituto Italiano di Tecnologia
Bodei, Quando il logos si fa macchina

4. Gig e sharing economy

La condizione del precario e del sottooccupato in Lisa Lodi, Lavoratori alla spina su Presa Diretta del 17 febbraio 2018. [Lo scenario di un mondo globalizzato in cui il lavoro è l’attore debole è in via di elaborazione: si veda il capitolo 3 del testo sulla globalizzazione].

 

Gig economy

4.1 “Gig economy”, l’economia di lavoretti 

Tratto da Wired.

La gig economy è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale. In italiano si traduce come economia dei lavoretti.

Corrisponde a mestieri che una persona svolge a tempo perso, quasi come un secondo lavoro. Il modello, però, spinge verso un lavoro sempre più parcellizzato, affidato a freelance ma gestito dalle piattaforme con formule di organizzazione che molto spesso sono tali e quali quelle del lavoro alle dipendenze.

Talvolta si confonde la gig economy con la sharing economy. La seconda, tuttavia, prevede la condivisione di risorse sottoutilizzate. Mentre la gig economy si impernia su un lavoro vero e proprio, organizzato dalla piattaforma digitale attraverso freelance.

L’esempio è chiaro se si confrontano i servizi di Uber (sharing economy) e Blablacar (Gig economy). Con Blablacar, una persona che sta facendo un tragitto monetizza i posti liberi in auto ospitando persone che vanno nella stessa direzione. Ma se non trovasse nessuno, andrebbe comunque a destinazione. Un autista di Uber invece copre una determinata tratta perché è pagato appositamente per farla.

I fattorini di consegne a domicilio per Glovo, Foodora, Deliveroo sono un altro esempio di gig economy. La novità sta nell’organizzazione del lavoro, ma non avviene una condivisione di risorse. La gig economy sta crescendo e il fenomeno è sotto osservazione per capire come inquadrare le aziende e i lavoratori: la giurisprudenza del lavoro ha recentemente prodotto, in Italia, sentenze che intimano a Deliveroo di riconoscere lo statuto di dipendenti ai propri fattorini (1) o di adeguare economicamente il loro salario al contratto nazionale di categoria (2).

4.2 Sharing economy

La sharing economy è una presenza consolidata nei Paesi occidentali e non solo: da Uber a Airbnb  è inevitabile che ciascuno di noi, prima o poi, si trovi a fruire di un servizio di condivisione. I vantaggi sono molteplici, e non soltanto per i consumatori, ma non mancano certo le zone grigie, a partire dal problema del lavoro.

In questo contesto, non esistono, infatti, più posti di lavoro – né a tempo determinato, né indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi avviene solo “on demand”, quando c’è richiesta. Per qualcuno si tratta di una nuova forma di caporalato, il  “caporalato digitale”.

Lavorare nel mondo della sharing economy, originariamente, era un modo per molte persone per arrotondare, un secondo impiego da affiancare al proprio lavoro per integrare il reddito nei ritagli di tempo. In alcuni casi questo è ancora vero, ma va riconosciuto che sono ormai tante le persone che si guadagnano da vivere esclusivamente attraverso servizi condivisi. Basti pensare ai tanti autisti a tempo pieno che lavorano con Uber per comprendere l’ampiezza del fenomeno.

Nella “gig economy” il mercato tra domanda e offerta è gestito online. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro. Un fenomeno, questo, che gli studiosi hanno già ribattezzato Plattform-Kapitalismus, capitalismo delle piattaforme, che attraverso app solo in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono prestazioni temporanee di lavoro [stralci da blog.terminologiaetc.com].

 

4.3 Carlo Formenti, Abbasso Uber

Tratto da Micromega.

Carlo Formenti

Il New York Times riferisce che Travis Kalanick, Il CEO di Uber, la startup americana che gestisce una applicazione che mette in contatto autisti e passeggeri via smartphone, sta compiendo una serie di viaggi in diverse città europee per convincere le amministrazioni locali a consentire l’attivazione del servizio, bypassando l’opposizione delle associazioni dei tassisti che, spalleggiate da partiti e sindacati, sono finora riusciti a sbarrargli la strada in molte città, fra cui Berlino, Amsterdam e tutte le città iberiche (dopo che un giudice di quel Paese ha dichiarato che Uber viola le leggi spagnole e fa concorrenza sleale ai tassisti “ufficiali”).

Kalanick controargomenta che quelle leggi, e più in generale tutti i regolamenti europei in materia, agevolano la formazione di monopoli corporativi sui servizi di taxi e che l’Europa, se fosse coerente con i suoi principi liberisti, dovrebbe essere ben contenta di favorire un operatore che reintroduce la libera concorrenza nel settore, contribuendo ad abbattere i prezzi a tutto favore dei cittadini/consumatori. In altre parole, i politici dovrebbero capire che, dando via libera a Uber, si alienerebbero il consenso di una piccola corporazione ma guadagnerebbero quello della massa degli utenti.

Dal punto di vista neoliberista, il ragionamento non fa una grinza, ma proviamo a considerare la faccenda da un altro punto di vista. Cominciamo prima di tutto a spiegare come funziona – e come realizza i suoi profitti – Uber.

Gli autisti, ovviamente, non vengono assunti: si tratta di lavoratori precari molti dei quali svolgono questa attività come secondo lavoro, per integrare i redditi insufficienti che percepiscono da altre fonti (fra le loro fila c’è di tutto: lavoratori del terziario arretrato, ma anche pensionati, studenti, professori e perfino esponenti di qualche professione “nobile” a corto di clienti).

Non essendo tutelati dalle associazioni di categoria accettano compensi irrisori e devono rendersi disponibili a scattare nel momento in cui vengono contatti dai clienti attraverso il software di Uber (nessuno li “obbliga” a farlo, ma è chiaro che meno rispondono meno guadagnano, per cui finiscono per rendersi disponibili in ogni momento libero).

In breve, siamo di fronte a un tipico modello di business della new Economy: supersfruttamento, precarietà, assunzione di tutti i rischi da parte del lavoratore “autonomo” che viene ironicamente etichettato come imprenditore di se stesso.

Passiamo ora ai vantaggi per il cittadino/consumatore. In primo luogo andrebbe chiarito che non stiamo parlando della massa degli appartenenti agli strati sociali medio bassi, i quali si servono assai più spesso di autobus, metropolitane e altri mezzi di trasporto pubblici piuttosto che di taxi – un mezzo di trasporto i cui utenti non occasionali sono in generale membri delle classi medio alte o impiegati che possono addebitare il prezzo della corsa ai datori di lavoro.

Il taxi è il mezzo di trasporto tipico dei centri urbani gentrificati, da cui sono stati espulse le attività industriali, la classe operaia e i tradizionali quartieri popolari per lasciare posto a megauffici e quartieri residenziali. Da parte loro i tassisti (come ristoratori, addetti alle pulizie, conduttori di tram, badanti, ecc.) fanno parte della massa di lavoratori non qualificati che restano in città a prestare servizi ai “veri” professionisti.

La “soluzione” che Uber propone alle città europee, dopo averla sperimentata Oltreoceano, è dunque quella della guerra fra poveri per cui chi sta sotto subisce la concorrenza di chi sta ancora più sotto per far guadagnare più soldi al padrone (in questo caso Uber) e per far risparmiare chi potrebbe benissimo permettersi di continuare a pagare quanto paga attualmente per un certo servizio.

Il generico cittadino/consumatore, in nome del quale si scatenano queste guerre al ribasso, letteralmente non esiste: è una figura immaginaria dietro cui si nascondo classi sociali dagli interessi assai diversi, se non in aperto conflitto.

 

 

Esercitazione

Il testo della simulazione della seconda prova per il LES del 2 aprile 2019.

 

Titolo: Lavoro e società sotto il profilo giuridico e sociale

PRIMA PARTE

La dimensione del lavoro in tutte le sue sfaccettature chiama in causa non soltanto la popolazione attiva nel suo insieme ma anche, e soprattutto, la sua fascia giovanile che appare come la più vulnerabile rispetto alle oscillazioni e alle contraddizioni economiche e sociali della società contemporanea.

In particolare, negli ultimi anni, si registra lo sviluppo di due distinte categorie di giovani che presentano caratteristiche, tendenze e percorsi agli antipodi tra di loro, per ciò che concerne l’impegno sia lavorativo che formativo.

Per definire tali categorie sono stati utilizzati gli acronimi di Neet (Not in education, employment or training) e Eet (Employed-Education, employment or training): ci si riferisce, nel primo caso, ai giovani (Neet) che hanno rinunciato ad impegnarsi nella ricerca di un lavoro e di una formazione qualificante, restando in una condizione di inoccupazione; nel secondo caso, ai giovani (Eet) che riescono a superare la crisi, sfruttando le competenze acquisite e guardando all’attività d’impresa e al mondo del web.

Con riferimento ai documenti allegati e sulla base delle sue conoscenze, il candidato esprima le proprie riflessioni in merito alle cause ed alle conseguenze delle due condizioni di Neet e Eet.

Documento 1

NEET – Not in Education, Employment or Training, secondo gli istituti di statistica, “bamboccioni” secondo un termine provocatorio entrato nel vocabolario corrente a rappresentare ragazzi sfiduciati, che non fanno nulla e vivono in famiglia.

A livello europeo, i giovani che non sono inseriti in un percorso scolastico o formativo e che non sono neanche impegnati in un’attività lavorativa, i cosidetti Neet appunto, sono un fenomeno da qualche anno censito dalle statistiche e oggetto di ricerca perchè segno di preoccupante degrado della situazione dell’occupazione, soprattutto nelle fasce più giovani.

Il Neet infatti è un individuo tra i 15 e i 29 anni che non lavora, non studia, non partecipa ad attività di formazione, neanche seminari, conferenze o corsi di lingua. Il prolungato allontanamento dal mercato del lavoro e lo “scoraggiamento” nella ricerca di un impiego ne fanno una categoria a rischio di esclusione sociale, perché ha difficoltà a entrare o rientrare nel mercato del lavoro.

Il Neet è diventato simbolo di una generazione che si ritiene “senza speranza”, che vive alla giornata, spesso sulle spalle della famiglia di origine, e non riesce a realizzare piani per costruirsene una propria o comunque per la creazione di una vita autonoma.

In Italia i Neet sono più di due milioni, il 22% della popolazione tra i 15 e i 29 anni, con un picco che sfiora il 25% tra le donne e livelli molto più elevati al Sud.

Sono individui per lo più con un titolo di studio medio-basso, anche se, con la crisi degli ultimi anni, hanno fatto ingresso in questa categoria giovani con diploma di scuola superiore o laurea.

La quota di Neet in Italia è nettamente superiore alla media europea che si ferma al 15% del totale ed è più che doppia rispetto a paesi come la Germania.

Per l’economia europea l’inattività di questi giovani è diventata una sfida da affrontare perchè segno di uno spreco di risorse: Eurofund stima che, se questi giovani riuscissero a entrare a far parte del sistema produttivo, il PIL europeo crescerebbe dell’1,2%, quello italiano addirittura del 2%.

È per questo che governi e Unione Europea elaborano provvedimenti per arginare il fenomeno. […] In Italia […] sono stati messi a punto agevolazioni fiscali per i nuovi imprenditori, incentivi per gli operatori che investono in fondi di venture capital o per coloro che promuovono start up. I risultati di tutto ciò non sono però ancora visibili.

Alessandra Carini, Le parole chiave del lavoro. Neet, in L. Gallino, Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario, Laterza, Roma-Bari, ed. digitale, marzo 2014, pag.66

Documento 2

Non solo Neet: ecco i giovani italiani che ce la fanno […]

I giovani che lavorano valgono 46,5 miliardi di euro, il 2,8% del Pil. I giovani con una età compresa tra 15 e 29 anni che lavorano sono 2.630.000, pari all’11,7% degli occupati complessivi, e incidono sui redditi da lavoro per il 7,3%: un valore pari a 46,5 miliardi di euro, cioè il 2,8% del Pil. Con differenze tra lavoro dipendente e indipendente: incidono per l’8% dei redditi da lavoro dipendente e per il 5,3% dei redditi da lavoro autonomo. […]

Ecco gli Eet, i giovani che ce la fanno: vincono la crisi con servizi avanzati e web. Non siamo solo il Paese dei Neet. Oggi i titolari d’impresa giovani sono 175.000, di cui il 24,7% presente nel Nord-Ovest, il 15,7% nel Nord-Est, il 18,5% nelle regioni centrali, mentre nel Mezzogiorno la quota raggiunge il 41,1%. È vero che tra il 2009 e il 2016, a fronte di una riduzione complessiva del 6,8% dei titolari d’impresa in Italia, la componente più giovane degli imprenditori, con una età fino a 29 anni, subisce una compressione del 19,1%, perdendo poco più di 41.000 giovani aziende.  Ma ci sono settori in crescita in cui le imprese guidate dai giovani mostrano invece un saldo positivo. La dinamica positiva vede crescere del 53,4% il numero dei giovani titolari d’impresa nei servizi d’informazione e altri servizi informatici, del 51,5% nei servizi per edifici e paesaggio, del 25,3% nei servizi di ristorazione. Nelle attività legate alla gestione di alloggi per vacanze e altre strutture per soggiorni brevi l’incremento è del 55,6%. Raddoppiano, inoltre, i giovani imprenditori nelle attività di supporto per le funzioni d’ufficio e i servizi alle imprese (+113,3%).

Considerando solo i settori in cui si manifesta una dinamica positiva, tra il 2009 e il 2016 i titolari d’impresa giovani aumentano del 32%, passando da 27.335 a 36.079. Sono questi gli Eet (Employed-Educated and Trained), quelli che ce la fanno, sfruttano le competenze acquisite e guardano all’attività d’impresa.

Fonte: Comunicato Stampa del CENSIS, Roma, 3 novembre 2016, dal sito del CENSIS, http://www.censis.it/7?shadow_comunicato_stampa=121080

SECONDA PARTE

Il candidato sviluppi due tra i seguenti quesiti:

  1. In che modo le Nuove Tecnologie hanno trasformato il lavoro?
  2. Come vengono sanciti nella Costituzione il diritto al lavoro, alla formazione professionale e all’imprenditorialità?
  3. Quali strategie in ambito sociale e quali strumenti normativi possono essere adottati dallo Stato per favorire l’occupazione e l’iniziativa imprenditoriale giovanile?
  4. Quali sono gli elementi essenziali di una delle teorie relative all’organizzazione del lavoro?

 

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