L’8 aprile esce in versione italiana Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, testo in cui Lordon riflette sulla cooptazione simbolica dei lavoratori – concettualmente, gli espropriati dei mezzi di produzione e del loro prodotto – nel desiderio dei loro padroni. Pubblicato dal Rasoio di Occam.
Il capitalismo continua a lasciarci perplessi. Non fosse per lo spettacolo a volte così ripugnante, potremmo quasi osservare con ammirazione la sua audace performance che consiste nell’incalzare la massima centrale del corpus teorico che gli serve da ostentato riferimento ideologico. Si tratta del liberalismo, nella fattispecie di quello kantiano, che comanda a ciascuno di agire
«in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo»[1].
Attraverso uno di quei rivolgimenti dialettici dei quali solo i grandi progetti di strumentalizzazione detengono il segreto, si è dichiarato conforme all’essenza stessa della libertà che gli uni fossero liberi di utilizzare gli altri, e gli altri liberi di lasciarsi utilizzare dagli uni in quanto mezzi. Questo magnifico inontro tra due libertà porta il nome di lavoro salariato.
Etienne de La Boétie ci ricorda quanto l’abitudine alla servitù faccia perdere di vista la condizione stessa della servitù. Non perché gli uomini «dimentichino» di essere infelici, ma perché perseverano in questa infelicità come un fatum, rispetto al quale non avrebbero altra scelta se non sopportarlo, oppure come un semplice modo di vivere al quale finiscono per abituarsi. Gli asservimenti di successo sono quelli che riescono a separare nell’immaginazione degli asserviti le passioni tristi dell’asservimento dall’idea stessa di asservimento – la quale è sempre suscettibile, quando si presenti chiaramente alla coscienza, di far nascere progetti di rivolta. Occorre avere bene in testa questo avvertimento di La Boétie per darsi il compito di tornare al «nocciolo duro» della servitù capitalistica e misurarne la profondità di incrostazione, a un livello talmente sconvolgente da non sconvolgere più nessuno: ci sono individui – chiamati padroni – che «possono» portarne molti altri a farsi arruolare dal loro desiderio e a mobilitarsi per loro.
Un «potere», piuttosto anomalo se ci si pensa, che gli appartiene davvero? Dopo Marx sappiamo di no: è l’effetto di una certa configurazione delle strutture sociali, quella del rapporto salariale in quanto duplice separazione dei lavoratori dai mezzi e dai prodotti della produzione. Ma queste strutture non mettono la parola fine su tutto ciò che accade all’interno dell’organizzazione capitalistica. Si potrà obiettare che si tratta in questo caso di una preoccupazione specifica della psicologia o della sociologia del lavoro, ed è vero. Per questo ciò che vedremo nel seguito di questo libro non ha l’ambizione di proseguire lungo il registro proposto da tali discipline, ma di formulare un’argomentazione più astratta all’interno della quale psicologia e sociologia potranno attingere alcuni elementi: combinare lo strutturalismo dei rapporti con un’antropologia delle passioni. Marx insieme a Spinoza.
Certo, i due già si conoscono grazie alla mediazione di diversi commentatori. Le loro affinità sono ormai legione, il che non significa che siano d’accordo su tutto. Le affinità sono comunque sufficientemente forti perché il fatto di metterle insieme non faccia correre il rischio di sproloquio intellettuale. Il paradosso temporale è che Marx è posteriore a Spinoza, ma non per questo il secondo ci sarà meno di aiuto a completamento del primo. Visto che sviscerare le strutture (della mobilitazione capitalistica dei lavoratori salariati) ancora non ci dice in virtù di cosa «funzionino» queste strutture. Ovvero cosa le renda concretamente efficaci, non il fantasma ma il motore della macchina. La risposta spinozista è: gli affetti.
La vita sociale non è che l’altro nome della vita passionale collettiva. Evidentemente sotto forme istituzionali che segnano notevoli differenze, ma all’interno delle quali affetti e forze desideranti permangono il primum mobile. Riconoscere il loro carattere profondamente strutturato non impedisce allora – semmai è il contrario – di riprendere il problema salariale «passando per le passioni». Per chiedersi di nuovo come accada che un numero esiguo di individui del capitale riesca a far funzionare per sé il gran numero dei lavoratori, attraverso quali diversi regimi della mobilitazione e forse con la possibilità di tenere insieme cose del tutto disparate quali: i lavoratori salariati vanno a lavorare per non deperire (= mangiare); i loro piaceri di consumatori li riscattano un po’ (o molto) dalle loro pene laboriose; alcuni mischiano la loro vita al lavoro e sembrano trovarvi un certo interesse; altri aderiscono in tutto e per tutto all’andamento della loro impresa e lì esprimono il loro entusiasmo; quegli stessi un giorno finiscono per rivoltarsi (o per buttarsi dalla finestra).
Ed è vero: il capitalismo contemporaneo ci mostra un paesaggio passionale molto ricco e ben più contrastato di quello del tempo di Marx. Per restare fedele all’urto frontale dei monoliti «capitale» e «lavoro», il marxismo ha a lungo tardato a prenderne atto e per poco non ci ha lasciato le penne. Lo schema binario delle classi non ha forse risentito dell’emergenza storica dei quadri, quegli strani lavoratori salariati collocati materialmente sul fronte del lavoro e simbolicamente su quello del capitale, nello stesso momento[2]? I quadri sono il prototipo stesso di quel lavoro salariato felice che il capitalismo vorrebbe realizzare – senza darsi tanta pena per la manifesta contraddizione che per altri versi lo conduce, nella propria configurazione neoliberista, anche a regredire verso le forme più brutali della coercizione. L’idea di dominio non può non finire intaccata – e dunque mantenuta in forme troppo semplici –, spiazzata com’è dallo spettacolo dei dominati felici.
Tuttavia, molti sono i lavori che hanno fatto loro questo paradosso, in particolare quelli di una sociologia erede del pensiero di Pierre Bourdieu, per il quale il concetto di violenza simbolica ha appunto per vocazione quella di pensare gli incroci tra dominio e consenso. Ma non per questo può dirsi chiuso il cantiere (concettuale) del dominio capitalistico. Quale senso restituirgli, oltre a quello di luoghi in cui vi sono lavoratori salariati apertamente (e attivamente) terrorizzati, mentre altri sembrano fare ben di più dell’accontentarsi della situazione, trovandovi ben poco da ridire e finanche ricavandone vere soddisfazioni? Rendere i dominati contenti, in quanto sicuro strumento per fargli scordare la loro dominazione, resta una delle più vecchie corde dell’arte del regnare. Il capitalismo ci sta pian piano arrivando, per effetto delle necessità delle sue nuove forme produttive insieme a un processo di sofisticazione delle sue procedure di governamentalità, e il dominio ha smesso di offrire lo sguardo familiare del semplice bastone.
Certo la sociologia del lavoro si è data l’incombenza di scovare i vizi o i retropensieri meno patinati del consenso, ma senza mai porre la domanda pregiudiziale di sapere esattamente cosa significhi tale consenso. Varrebbe la pena di formularla, poiché nel lasciarla mal risolta grande sarebbe il rischio di vedere nei «consensi» (laddove esistono) destabilizzare i concetti di sfruttamento, alienazione e di dominio che la critica, nella fattispecie marxista, considerava come elementi certi del proprio viatico intellettuale. Tutti questi termini sono oggi messi in crisi dalle nuove tendenze manageriali che spingono «alla motivazione», promettono «soddisfazione sul lavoro» e «realizzazione di sé»… alle quali i lavoratori salariati sembrano a volte dare ragione. Ne è testimone la relativa miseria concettuale che porta, in mancanza di meglio, a spolverare l’espressione di «servitù volontaria», ossimoro probabilmente suggestivo ma che, in sé (e indipendentemente dall’opera eponima), a stento nasconde i propri difetti di fabbrica, che sono quelli di un ossimoro, appunto, quando si tratta di passare dal poetico al teorico.
Essere pronti alla mobilitazione o vagamente reticenti o in aperta rivolta, impegnare la propria forza-lavoro con entusiasmo o di malavoglia sono le molte diverse affezioni della messa al lavoro nel regime del lavoro salariato, cioè le forme in cui si è determinati a entrare nella realizzazione di un progetto (di un desiderio) che anzitutto non è il proprio. Ed ecco forse il triangolo elementare grazie al quale dovremmo tradurre il mistero di qualcuno che si investe per qualcun altro (nella sua forma capitalistica): il desiderio di uno, la potenza di agire degli altri, gli affetti, prodotti dalle strutture del rapporto salariale, che determinano i loro incontri. In quel luogo in cui l’antropologia spinozista delle passioni interseca la teoria marxista del lavoro salariato si offre l’occasione di pensare daccapo cosa siano lo sfruttamento e l’alienazione, ovvero di mettere di nuovo «in discussione» il capitalismo, nel duplice senso della sua critica e della sua analisi. Insieme alla speranza, a breve termine, che il capitalismo finisca per passare dall’ambito della nostra perplessità a quello della sua superabilità.
NOTE
[1] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. a cura di F. Gonnella, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 91.
[2] La teoria marxista ha considerevolmente recuperato il suo ritardo in materia, in particolare per iniziativa di Gerard Dumenil e Dominique Levy, che hanno esplicitamente formulato l’≪ipotesi dei quadri≫. Si veda: Économie marxiste du capitalisme, La Decouverte, Paris 2003; e J. Bidet e G. Dumenil, Altermarxisme. Un autre marxisme pour un autre monde, PUF, Paris 2007.
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Posted on martedì, 31 Marzo, 2015 at 09:11 in Filosofia | RSS feed Comments and pings are currently closed.
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