La lezione sulla globalizzazione è in aggiornamento.
Indice
1. Globalizzazione, mondializzazione
2. L’integrazione economica
2.1 Imprese transnazionali e concentrazione di capitali
2.2 La finanziarizzazione dell’economia
2.3 La fiscalità di vantaggio: elusione ed evasione fiscale
3. La divisione mondiale del lavoro e il declino della classe lavoratrice
3.1 Deindustrializzazione, delocalizzazione
3.2 La telematizzazione del lavoro
3.3 Il declino del lavoro
3.4 Ricchezza globale (global class), povertà locali
4. Globalizzazione e deglobalizzazione
5. Gli aspetti culturali
5.1 La compressione spazio-temporale
5.2 La glocalizzazione
5.3 Migrazioni e multiculturalismo
5.4 Secolarizzazione e reincantamento del mondo
6. Gli aspetti politici
6.1 Il declino della politica e la post-democrazia
6.2 Fake news: tra disinformazione e populismo
7. Post-modernità vs ipermodernità
7.1 Instabilità, appiattimento sul presente, accecamento della velocità
1. Globalizzazione, mondializzazione
I termini globalizzazione e mondializzazione sono entrati nel lessico sociologico negli anni ’80, per indicare un ampio insieme di fenomeni connessi all’aumento dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.
In quegli anni iniziavano infatti ad accelerare i processi tipici della modernizzazione, primo tra i quali l’integrazione economica (intensificazione degli scambi commerciali, abbattimento barriere doganali e accordi di libero scambio ecc.) già descritta da Marx nel XIX secolo, oltre che lo sviluppo di una rete di comunicazione planetaria che McLuhan indicava nel 1962 (The Gutenberg Galaxy) come l’infrastruttura del «villaggio globale», ossimoro sociologico con cui lo studioso canadese alludeva all’abbattimento simbolico dello spazio e della distanza e alla nuova vicinanza tra genti lontane [che non esclude una nuova lontananza tra vicini] generata dai media elettrici, poi da quelli elettronici.
Questa straordinaria trasformazione che impatta su molti aspetti della vita individuale e collettiva dell’umanità, presenta le caratteristiche distintive dell‘interdipendenza planetaria, per la quale ciò che accade localmente non resta isolato ma produce conseguenze nel resto del pianeta [Giddens, 1990].
Di questa interdipendenza cresce la percezione globale, vale a dire la consapevolezza diffusa di vivere ormai in un mondo ristretto, in cui ciò che succede lontano ci riguarda – dallo tsunami di Fukushima e il conseguente sversamento di materiale radioattivo nell’Oceano Pacifico, alla pandemia di Sars-CoV2, forse partita dalla città cinese di Wuhan, alla guerra in Ucraina con le sue ricadute sull’aumento dell’inflazione in Europa – e in cui eventi e accadimenti significativi vengono vissuti simultaneamente in ogni parte del globo – dal matrimonio del principe Carlo, oggi re, alla finale dei mondiali di calcio, alla guerra in Iraq.
2. L’integrazione economica
L’integrazione economica mondiale è un fenomeno di progressiva unificazione dei mercati, nel cui contesto la produzione e la commercializzazione di beni e servizi hanno per scenario il mondo intero.
Negli ultimi cinquant’anni, la presenza di reti di telecomunicazione planetarie e di efficienti reti di trasporto aereo e navale ha dato un decisivo impulso alla riorganizzazione dei processi produttivi delle imprese che ha permesso la dislocazione di strutture e servizi in luoghi diversi del pianeta – in genere, mantenendo i centri direzionali in Occidente e delocalizzando la produzione nel resto del mondo.
Dall’altro lato, si assiste all’omogeneizzazione dei bisogni e dei modelli di consumo che, minimizzando le tradizionali differenze regionali tra i gusti dei consumatori, ha permesso alle imprese di rivolgersi ad un pubblico globalizzato, sfruttare rilevanti economie di scala (cioè risparmi crescenti all’aumento della dimensione dei fenomeni economici) nella produzione, distribuzione e marketing dei prodotti, e praticare politiche di bassi prezzi, penetrando in tutti i mercati.
Tali fenomeni scaturiscono dai processi di integrazione internazionale avviati nel XIX secolo e intensificatisi dopo le guerre mondiali, grazie al progresso tecnologico (trasporti e telecomunicazioni) e a una serie di accordi commerciali promossi da organismi internazionali nati dopo il secondo conflitto mondiale (WTO, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale), che hanno ridimensionato le barriere naturali e giuridiche alla libera circolazione delle merci e dei capitali (liberalizzazione), rendendo il commercio mondiale sempre meno condizionato dalle distanze geografiche.
2.1 Imprese transnazionali e concentrazione di capitali
L’intensificazione ed estensione planetaria degli scambi commerciali ha alimentato la crescita dei gruppi multinazionali e la concentrazione di capitali: oggi, giganteschi flussi planetari di capitali, beni e servizi sono prodotti da imprese multinazionali e transnazionali i cui patrimoni superano quelli di molti stati.
Questi flussi passano per le cosiddette città globali, metropoli come Londra, New York, Bangkok, Shanghai, divenute crocevia dell’economia e della finanza internazionale.
Il gigantismo di queste entità economiche che includono imprese industriali e complessi finanziari, fa sì che in alcuni settori esse operino in regime di oligopolio – una situazione in cui il mercato è dominato da poche grandi imprese – come accade nell’agribusiness che vede il 70% del mercato del cacao controllato dalle tre multinazionali Gill & Duffus, Caldbury-Schweppes e Nestlé, mentre il 30% di quello della margarina è dominato dalla Unilever, erede della compagnia che nell’Ottocento ha realizzato le prime grandi piantagioni in Africa.
Le dimensioni di queste imprese e la loro natura internazionale tendono ad accentuarsi attraverso fusioni e acquisizioni aziendali, fenomeni di concentrazione di capitali che danno luogo anche alla formazione di colossi aziendali che collezionano più marchi di una stessa filiera produttiva (come Facebook che in poco più di dieci anni di vita ha acquisito 56 marchi i più conosciuti dei quali sono WhatsApp, Instagram, Oculus).
o che operano in settori diversi (conglomerati), come l’americana Reynolds che produce sigarette ed è proprietaria anche del marchio Del Monte.
2.3 La finanziarizzazione dell’economia
Tali dinamiche hanno favorito un’espansione abnorme della finanza internazionale, tanto che il valore delle transazioni giornaliere sui mercati valutari è ormai superiore allo stock delle riserve valutarie esistenti, il che segnala la progressiva divaricazione tra i fenomeni produttivi e quelli relativi alla circolazione di denaro (finanziarizzazione dell’economia).
Uno dei fenomeni legati alla finanziarizzazione dell’economia, espressione con la quale si intende la tendenza dei capitali a fare profitti fuori dalla produzione di beni e servizi e a spostarsi velocemente in investimenti e disinvestimenti internazionali, è la crescente importanza delle agenzie di certificazione (agenzie di rating), società di analisti finanziari che emettono giudizi e valutazioni sui bilanci di enti pubblici e privati, in grado di orientare i flussi di investimenti giocando quindi un ruolo diretto, più che terzo, nella valorizzazione dei capitali.
Altrettanta rilevanza hanno ormai i nuovi strumenti finanziari, future, swap (derivati) e contratti d’opzione, che hanno affiancato gli strumenti tradizionali di circolazione del denaro nelle borse mondiali quali le azioni, le obbligazioni, i titoli pubblici e i fondi d’investimento.
Questi nuovi strumenti, sono caratterizzati dalla circolazione di capitali su una pluralità di mercati – alcuni regolati, altri, molto ricchi, che sfuggono anche alle autorità internazionali di regolazione (dark pool) – in cui si scambiano previsioni sui rendimenti futuri, compravendite anticipate e strumenti assicurativi contro rischi finanziari, per una valore calcolato nel 2018 in 33 volte la ricchezza mondiale.
Oltre all’entità complessiva delle transazioni, la capacità delle grandi banche di spostare ingenti liquidità è essa stessa fattore di instabilità e perturbazione, così che le turbolenze di mercato rendono permanentemente instabile l’infrastruttura finanziaria dell’economia globale.
Tale volatilità è all’origine delle crisi finanziarie, nelle quali si verificano improvvise cadute dei prezzi di determinati beni che fanno crollare il mercato (bubble burst). Il fenomeno, noto dallo scoppio della bolla dei tulipani del 1637, si è intensificato recentemente.
Solo negli ultimi venticinque anni, si è assistito al crollo del fondo Long Term Capital Management (LTCM) nel 1998; la bolla delle dot-com (2000) e quella immobiliare (sub-prime 2007). In relazione a questo fenomeno, in un’audizione al FMI del 2013, l’economista di Harvard ed ex segretario del Tesoro americano Larry Summers ha parlato di stagnazione del capitalismo e della possibilità di sostenerlo solo riproducendo bolle borsistiche o immobiliari simili a quelle che l’hanno sostenuto nel recente passato, sfociate tuttavia nella crisi finanziaria ancora in corso.
Che si tratti della fine di un ciclo di accumulazione dell’economia capitalistica – come sostenuto da quanti accolgono la tesi braudeliana che l’espansione finanziaria non sia una novità della globalizzazione, ma una costante dell’esaurimento delle forze produttive che ne hanno dominato una fase (Arrighi, 1996) – , o di una crisi più radicale del sistema di mercato, è oggetto di discussione [ma spicca con evidenza lo stile decadente dei protagonisti della borsa, consapevoli, come in una famosa scena di The Wolf of Wall Street di non creare niente ed essere attori di una perpetua rivoluzione del fake].
L’idolatria del denaro in letteratura
2.3 La fiscalità di vantaggio: elusione ed evasione e fiscale
Si registra da anni la tendenza alla divaricazione tra profitti d’impresa e reddito da lavoro. Attraverso il meccanismo dell’elusione fiscale (o tax avoidance) i profitti delle grandi case multinazionali sono detassati e a sottoporli a regimi fiscali di vantaggio.
Spesso sono gli stati nazionali, o le regioni di uno stesso paese ad entrare in competizione tra loro per attrarre investimenti sul proprio territorio offrendo ribassi delle aliquote e creando regimi particolaristici (cioè differenti da quelli imposti a tutti gli altri contribuenti) per i capitali esteri.
Per questa ragione si è assistito, negli ultimi anni, oltre alle delocalizzazioni degli impianti produttivi, anche allo spostamento delle sedi amministrative e direzionali delle grandi multinazionali nei paesi che concedono loro una fiscalità di vantaggio, producendo impoverimento dei paesi da cui i capitali emigrano (spillover negativo).
In sintesi, mentre la tassazione sul reddito da lavoro si inasprisce sempre di più (toccando punte del 60% in alcuni paesi), quella sui profitti del capitale e sui patrimoni tende ad abbassarsi (dal 20% a quasi zero). Il Irlanda, ad esempio, la tassa sui profitti d’impresa è al 12,5%, ma attraverso il meccanismo del patent box, la maggior parte dei profitti, quella legata alle innovazioni di prodotto, è tassata ancora di meno.
Un riepilogo dell’elusione fiscale delle multinazionali nell’immagine sottostante:
3. La divisione mondiale del lavoro e il declino della classe lavoratrice
3.1 Deindustrializzazione, delocalizzazione
La deindustrializzazione di molte aree produttive occidentali si è legata alla delocalizzazione delle fabbriche nell’est Europa e in Asia che, per converso si industrializzano.
Si assiste, così, allo spostamento delle fabbriche in luoghi diversi da dove erano nate (delocalizzazione) e alla telematizzazione del lavoro, con la quale si può lavorare da casa o dal proprio paese, rendendo un servizio a un’azienda o a una regione lontani dal proprio domicilio (telelavoro).
La deindustrializzazione, il cui esempio più emblematico è probabilmente quello della città di Detroit, è un processo di drammatico declino degli impianti produttivi che trascina con sé le forme di vita legate all’economia industriale con le loro relazioni sociali, gli stili di vita, le culture operaie.
Detroit è sede della General Motors, un tempo la fabbrica d’auto più importante al mondo, il cui impianto è stato pesantemente ridimensionato nel 2005 in seguito alla crisi iniziata negli anni ’80 e allo spostamento della produzione in Cina.
La capitale del Michigan è, oggi, una città che lotta contro il rimboschimento delle proprie periferie e ha visto più che dimezzata la popolazione residente (da 1.800.000 a 700.000 abitanti), oltre che radicalmente mutata la sua composizione demografica, oggi al 70% nera, contro il 30% di quella degli anni ’60.
A causa della perdita delle entrate economiche, nel 2013 la municipalità cittadina ne ha dichiarato la bancarotta, decidendo di lasciare allo stato di abbandono due terzi del territorio urbano.
Ancora su Detroit
Mentre genera impoverimento in occidente, nel sud del mondo lo spostamento degli impianti produttivi innesca meccanismi di radicale trasformazione sociale e l’aumento delle diseguaglianze.
Com’è avvenuto nella prima e seconda industrializzazione europea, anche in Asia le forme rurali e i costumi tradizionali sono entrati bruscamente in contatto con un sistema di vita caratterizzato da ritmi e valori sconosciuti.
Della condizione anomica degli ex contadini trapiantati nelle nuove megalopoli industriali, testimonia il disagio degli operai della Foxconn di Shenzhen, la fabbrica che produce componenti elettronici per la Apple nella quale, nel 2010, undici operai si sono suicidati gettandosi dagli ultimi piani dello stabilimento.
3.2 La telematizzazione del lavoro
La telematizzazione del lavoro è un fenomeno che si lega alla terziarizzazione dell’economia – vale a dire all’aumento di dimensioni e rilevanza strategica dei servizi del terziario avanzato verificatosi nel secondo dopoguerra – e con il quale servizi amministrativi, di produzione software o di assistenza ai clienti vengono assegnati a personale che lavora in strutture lontane dalla sede della propria azienda o che lavora da casa.
Mentre il telelavoro domestico è diventato importante con la pandemia di SARS-CoV-2, durante la quale ha permesso a molte attività professionali di telematizzarsi e non fermarsi durante il lockdown, lo spostamento in luoghi lontani di interi reparti amministrativi in collegamento telematico e telefonico con l’azienda e con i clienti ha già dimensioni rilevanti a causa del minor costo dei lavoratori telematici, residenti in aree non industrializzate.
Dai primi call center Vodafone che rispondevano dall’India ai clienti inglesi, alla customer care di Fastweb che oggi risponde a quelli italiani dall’Albania (nazione nella quale l’italiano è conosciuto grazie alla ricezione satellitare delle nostre televisioni), si aggiunge il massiccio impiego degli sviluppatori software di Bangalore (India) da parte di Microsoft, che non deve più preoccuparsi di procurare visti d’ingresso a una forza lavoro skilled (scolarizzata e competente) e a basso costo che resta in patria.
3.3 Il declino del lavoro
Con la divisione mondiale del lavoro cambia il valore e la percezione del lavoro stesso, perché l’impresa può aumentare i profitti senza aumentare la produzione o la vendita, semplicemente distribuendo il lavoro in modo da ridurre i costi.
Diminuisce, in questo modo, la rilevanza del personale nel processo produttivo.
Per i lavoratori cresce l’incertezza e si profila concretamente la concorrenza incontrollabile di lavoratori lontani, non sindacalizzati e disposti a vendere la propria attività al miglior costo per l’azienda (dumping).
Nonostante l’aumento della conflittualità delle relazioni industriali nei paesi emergenti, con richieste salariali e forti scioperi in Cina, in Sudafrica, in Brasile, le condizioni e i diritti del lavoro sono ancora molto differenti da quelle conquistate in Occidente, tanto che gli orari di lavoro e i ritmi massacranti delle fabbriche, i morti nelle miniere cinesi e turche profilano un nuovo scenario di accumulazione originaria, la condizione di sfruttamento intensivo osservata da Marx ed Engels nell’Europa del XIX secolo.
La collocazione dei lavoratori di una stessa azienda in luoghi diversi, la disoccupazione, la sottooccupazione e la precarizzazione, il dumping sociale dai paesi emergenti, il venir meno di luoghi condivisi di lavoro (telelavoro), accelerano il declino della classe lavoratrice, nata con l’industrializzazione.
La debolezza sociale del lavoro è attestata dal crollo della conflittualità sindacale negli ultimi trent’anni e dalla contrazione del reddito da lavoro fatta registrare nello stesso periodo.
Anche la tradizionale polarità tra direzione e operai nel quadro della gerarchia del lavoro, tende ad essere sopravanzata dalla nuova opposizione tra chi è incluso nei processi produttivi e chi ne è, invece, tagliato fuori, tra chi è in e chi è out.
A partire dagli anni ’80, ha scritto André Gorz, il filosofo (naturalizzato) francese autore di Addio al proletariato (1980), e Metamorfosi del lavoro (1988)
«stiamo uscendo dalla società del lavoro senza crearne nessun’altra».
L’ingresso dell’automazione e della robotica nei processi produttivi (industria 4.0), poi quella delle tecnologie digitali, hanno ridotto l’esigenza di mano d’opera nelle fabbriche e negli uffici, mentre ulteriori innovazioni annunciano una nuova ondata di distruzione tecnologica del lavoro (The Economist, 2014) (disoccupazione tecnologica).
Il sogno di una società liberata dal lavoro sembra quindi mostrare, negli anni della nuova depressione economica, il volto poco rassicurante della povertà diffusa.
Il problema del nostro tempo, aggiungeva quindi Gorz ben prima degli anni zero, non è allora quello della produzione, ma dell’
«equa ripartizione sia della ricchezza sia del lavoro necessario a produrla».
Nelle società moderne la finalizzazione capitalistica al profitto si legittimava in quanto portatrice di benessere diffuso. L’impresa che faceva profitti, creava occupazione e finanziava lo stato, concorrendo alla creazione di benessere.
Si profila, ora, la possibilità di un capitalismo svincolato dal peso di assicurare l’occupazione e di finanziare il Welfare statale.
3.4 Ricchezza globale (global class), povertà locali
Zygmunt Bauman e Ulrich Beck hanno osservato, tra i tanti, la nascita di una nuova stratificazione sociale, portatrice di diseguaglianze più ampie di quelle comparse con la modernizzazione.
Si tratta di un fenomeno difficile da percepire nella sua effettiva entità. Il video sottostante [elaborato da Michael Norton della Harvard Business School e Dan Ariely della Duke University] mostra, ad esempio, quanto sia arduo per i cittadini americani stimare la diseguaglianza esistente nel proprio paese.
Qui la mappa mondiale dell’Indice di Gini
Nei paesi emergenti (BRICS Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), come in quelli poveri, nascono nuove élite che controllano le risorse naturali e gli scambi commerciali verso i mercati occidentali e si separano dalla condizione media delle loro società, adottando una stile di vita sfarzoso.
Emerge una global class di cittadini del mondo, di ogni provenienza, ad alto reddito e capaci di muoversi nello spazio transnazionale per trarne molteplici vantaggi, accanto a una moltitudine di uomini incatenati alla loro condizione locale, con basso reddito, bassa scolarizzazione, limitate opportunità, diritti e libertà di movimento.
E’ stato Beck il primo a descrivere questa nuova upper class globale, dalla sala d’aspetto di un aeroporto che miscelava i gusti, le conoscenze e le esperienze di chi faceva colazione a New York per finire la serata a Francoforte dalla quale progettare un week end a Bangkok (U. Beck, What Is Globalization?, 1999; trad. it. Che cos’è la globalizzazione?). La global class è nomade e a proprio agio nel mondo, sono i poveri invece a restare legati al suolo.
Bauman ha fatto notare come la nuova stratificazione mondiale presenti aspetti peggiorativi rispetto alla precedente, perché sta venendo meno la reciproca dipendenza tra ricchi e poveri che vedeva i benestanti di un tempo preoccupati dell’esistenza e dei consumi degli umili nella duplice veste di forza-lavoro e di consumatori.
4. Gli aspetti culturali
4.1 La compressione spazio-temporale
Nella società contemporanea le interconnessioni e le interdipendenze che caratterizzano la vita moderna aumentano vertiginosamente, mentre le distanze, fisiche e comunicative, si riducono.
Mentre l’interdipendenza tra paesi è legata all’integrazione economica e alle telecomunicazioni globali, la riduzione delle distanze si deve alla compressione dello spazio/tempo (space-time compression), ovvero la percezione di un mondo rimpicciolito dalla diminuzione dei tempi di percorrenza delle distanze (Harvey, 1989, 1993).
4.2 La glocalizzazione
L’interconnessione e il restringimento del mondo non danno luogo, tuttavia, a una cultura globale, uniforme e pienamente omologata come vuole la tesi dell’imperialismo culturale (americano o occidentale), ma a una cultura globalizzata che si manifesta nella trasformazione delle relazioni che legano le nostre pratiche, esperienze e identità culturali ai luoghi che abitiamo.
Nel 1997, Roland Robertson ha definito questa trasformazione “glocalisation”, sottolineando come locale e globale oggi non si escludano, ma si fondano, dando luogo a fenomeni paradossali e ironici. La glocalizzazione è infatti,
la presenza simultanea, la co-presenza, sia dell’universalizzazione che di tendenze particolari – “the simultaneity – the co-presence – of both universalizing and particularizing tendencies” [Globalization and Indigenous Culture, 1997].
Una celebre presa d’atto dell’esistenza di questa dinamica si trova in un aneddoto riferito da Anthony Giddens nel 1999:
Qualche anno fa, una mia amica che studia la vita di villaggio nell’Africa centrale fece la sua prima visita in un’area remota, dove avrebbe dovuto svolgere la sua ricerca sul campo.
Il giorno in cui arrivò fu invitata da persone del posto a trascorrere la serata insieme al loro: si aspettava di incappare nei consueti passatempi di questa comunità isolata, invece si trovò invitata alla proiezione su videocassetta di Basic Instinct, film che a quell’epoca non era ancora uscito nelle sale di Londra [Runaway World: How Globalization is Reshaping Our Lives, 1999].
Teorici come Robertson e Giddens escludono, quindi, che stia avvenendo un’omologazione culturale tra società diverse, alla quale invece aveva alluso l’americano George Ritzer, che nel 1996 aveva parlato di mcdonaldizzazione del mondo, indicando nella diffusione degli hamburger di McDonalds il simbolo della standardizzazione degli stili di vita e di consumo a livello mondiale.
Il limite dell’analisi di Ritzer consiste infatti nel pensare alla globalizzazione come ad una riduzione ad uno, alla cancellazione del locale, che da un lato reagisce all’invadenza della cultura estranea e dall’altro è funzionale alla produzione di merci diverse e interessanti per il pubblico mondiale.
4.3 Migrazioni e multiculturalismo
Il fenomeno migratorio, antico quanto la specie homo, ha ricevuto un nuovo impulso dalla globalizzazione.
La progressiva riduzione dello spazio fra le nazioni indotto dalle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT) esercita effetti significativi sulla percezione reciproca degli abitanti del pianeta e promuove una domanda di mobilità e di cambiamento nel sud del mondo.
Flussi imponenti di migranti cercano di sottrarsi alle guerre, alla miseria, all’oppressione politica, passando illegalmente il muro della morte al confine tra Messico e Stati Uniti, o premendo alle frontiere della «fortezza Europa» davanti alle quali, dal 1988, hanno perso la vita oltre trentamila persone.
L’Immigrazione dal sud del mondo è, infatti, illegale in un mondo che ha abbattuto le barriere alla circolazione delle merci e del denaro, ma ha rafforzato quelle relative allo spostamento degli uomini [Bauman, 2004] .
Nei paesi europei, il soggiorno di stranieri richiedenti asilo o in cerca di un visto per lavoro o ricongiungimento familiare è segnato dalla restrizione della libertà personale nei centri di identificazione o dai rimpatri e, per quelli che ottengono il permesso di restare, da forti difficoltà di inserimento.
In Occidente, dove gli immigrati lavorano prevalentemente nei servizi stagionali all’agricoltura, nei cantieri e nei servizi di cura ai malati e agli anziani, la presenza degli immigrati crea resistenze e barriere all’integrazione, a causa dei differenti modelli normativi di cui i nuovi arrivati sono portatori, e della difficile convivenza nello strato più disagiato della popolazione autoctona in cui i nuovi arrivati si inseriscono e nel quale facilmente si accendono conflitti tra laters – autoctoni, ma anche immigrati di più antica data che non è infrequente veder protestare agli uffici comunali perché nel proprio condominio «ci sono troppi stranieri» – e newcomers – i nuovi arrivati [Herbert J. Gans, Makins Sense of America, 1999].
Negli Stati Uniti e in paesi come la Francia e l’Inghilterra, nei quali il fenomeno del multiculturalismo, cioè della convivenza di gruppi sociali di diversa provenienza, si è presentato fin dalla disgregazione degli imperi coloniali, si sono affermati due modi alternativi, ugualmente problematici, di affrontare le questioni della coesione sociale e dell’inclusione delle minoranze etniche: l’assimilazione e il melting pot.
Il primo modello, praticato in Francia, considera i francesi di ogni origine formalmente uguali nei diritti universali di cittadinanza, senza riguardo alle differenze culturali e religiose che passano in secondo piano rispetto ai valori repubblicani.
Il secondo, proprio dei paesi anglosassoni, manca della cornice universalistica tipica dell’approccio illuministico dei francesi e mantiene le differenze culturali l’una accanto all’altra rinunciando alla missione di fonderle e assimilarle in una sintesi superiore, come accade appunto in un minestrone, le cui componenti vegetali sono riconoscibili anche dopo la cottura.
L’universalismo francese si è scontrato, negli ultimi trent’anni, con una forte reazione identitaria da parte dei propri cittadini di origine straniera che hanno avvertito in modo stridente la divaricazione tra una condizione di marginalità e la promessa d’emancipazione della République.
Sono espressione di questo disagio il ritorno al velo islamico di donne che non lo avevano mai indossato – shock che alimenta un dibattito estesissimo sulla laicità delle istituzioni e sul divieto di indossarlo a scuola -, il recupero, anche da parte dei figli di immigrati nati in Francia, di comportamenti legati alla religione e alle tradizioni della madre patria, oltre alla forte partecipazione dei beurs (termine dispregiativo per i figli degli immigrati di origine magrebina) alle vicende dei paesi d’origine, dai fischi all’équipe quando gioca con la nazionale algerina, agli scontri di protesta agli Invalides contro i bombardamenti su Gaza.
Nel modello multiculturale di matrice anglosassone è meno avvertita la necessità di riappropriarsi di costumi che sono lasciati ad ognuno nell‘indifferenza delle differenze, ma è invariato il problema dell’inclusione e forte quello del razzismo, come nel caso emblematico della società americana.
Entrambi gli approcci sono in difficoltà davanti ai conflitti normativi, nel momento in cui il complesso di valori e orientamenti di cui sono portatori gli immigrati entra in collisione con le norme sociali e con le leggi dei paesi d’arrivo: poligamia, decisioni sull’educazione dei figli, mutilazioni genitali.
4.4 Secolarizzazione e reincantamento del mondo
L’erosione delle tradizioni è stato uno degli aspetti più appariscenti della modernizzazione. Marx ed Engels ne avevano parlato come di un «ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali»:
l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti [Marx, Engels, Manifesto del Partito Comunista, 1848].
In Occidente, la globalizzazione sta erodendo l’autorità di modelli di vita che si rifanno al passato collettivo delle comunità. I modi tradizionali di vivere la famiglia, la sessualità, la procreazione, le differenze di genere e di provenienza, entrano in crisi, diventando habitus senza forza vincolante per molti, scelte reattive di forte identificazione per alcuni.
Le religioni perdono fedeli, il culto viene praticato da un numero decrescente di adepti, sovrastato da quello in aumento di individui che adottano una relazione intima e personale – non più pubblica e condivisa – con la divinità, dove non si professino apertamente atei o agnostici. Lo stile di vita si laicizza.
Sono i riti secolari dello spettacolo, dalle partite di calcio ai mega-raduni (anche quando si tratta di eventi religiosi, perché è ora la forma e non il contenuto a creare comunità) ad assolvere, in luogo dei rituali religiosi, il ruolo catartico della costruzione dell’ecclesia, dello stare insieme.
Un luogo di crisi straordinaria della tradizione è rappresentato dalla trasformazione della famiglia e dal nuovo rapporto degli individui con la sessualità e la procreazione.
Aumentano le famiglie informali, i divorzi, le famiglie monoparentali e ricostituite, la filiazione fuori dalla famiglia, eterologa, omosessuale, di single, mentre la famiglia nucleare, lasciata sola ad affrontare le trasformazioni e i drammi del vivere quotidiano esplode in mille contraddizioni, diventando luogo di conflitti e di pericolo per i suoi componenti più deboli: le donne, i bambini, i vecchi.
A questo massiccio fenomeno di disgregazione della tradizione e di laicizzazione dei costumi rispondono i fondamentalismi religiosi – cristiano e islamico, ma anche indù e buddista -, espressione di porzioni di società che rifiutano il declino secolare del rispettivo credo e reagiscono riaffermando i valori comunitari della religione tradizionale.
Di fondamentalismo religioso si è cominciato a parlare negli Stati Uniti agli inizi del ’900, per riferirsi alle sette protestanti che rifiutavano la teoria biologica dell’evoluzione perché in contrasto con il racconto biblico della creazione. Il numero dei fondamentalisti che negli USA si oppongono all’insegnamento nelle scuole della teoria di Darwin, rappresenta oggi una realtà sociale significativa.
Più noto in Europa è il fondamentalismo islamico, definizione coniata dai media occidentali nel 1979, per indicare l‘integralismo della Repubblica Islamica dell’Iran sorta dalla rivoluzione islamica guidata dell’imam Khomeini. Più recentemente, è stata attribuita al richiamo ai presunti valori fondanti dell’Islam di wahabiti e salafiti che hanno conquistato seguito in diversi paesi islamici, nei quali hanno imposto la sharīa (la legge coranica).
Dall’attentato alle Torri gemelle (2001), attribuito ad Al Qaeda, e seguito dagli appelli dell’organizzazione al jihad, oggi replicati dall’ISIS, il termine ha finito per identificare la violenza di organizzazioni terroristiche o militari che dichiarano di ispirarsi alla lettura integrale della pagina coranica.
Al di là di fenomeni che restano separati dal culto, va osservata la natura radicalmente antimoderna dell’Islam, nel cui contesto manca – con l’eccezione di una gracile letteratura tardonovecentesca – l’idea di una possibile separazione tra etica e politica, etica ed economia, che è invece un tratto distintivo della secolarizzazione moderna e della laicizzazione delle istituzioni politiche occidentali.
I musulmani hanno infatti una visione del mondo racchiusa dall’espressione dīn wa dunya, ovvero “religione e mondo”, che rende impossibile per un credente riservare l’espressione della fede alla sfera intima della propria coscienza, senza tentare di modellare il mondo esterno su di essa.
Le dinamiche culturali della globalizzazione e i sussulti geopolitici che interessano il Medio Oriente e l’Asia generano quindi nei paesi islamici una forte reazione che porta con sé irrigidimento e chiusura identitaria.
Ironicamente, il fondamentalismo islamico è, oltre che antagonista, anche figlio della globalizzazione, che lo provvede di reti di comunicazione con cui alimenta le proprie attività di proselitismo. La qualità dei video (per tecniche di comunicazione, ripresa e montaggio) prodotti dai numerosi mediacenter legati all’ISIS, spinge ancora più avanti un’ibridazione culturale, negata nei sentimenti, più che mai evidente.
5. Gli aspetti politici
5.1 Il declino della politica e la post-democrazia
Da circa tre decenni, i sociologi stanno osservando l’indebolimento della sfera pubblica e della capacità degli stati nazionali di influire sulle scelte di altri organismi anche in caso di decisioni vitali per le proprie collettività.
Alcuni autori hanno fatto notare l’emergere di un policentrismo politico-istituzionale nel quale attori non statali – mercati, portatori d’interesse (stakeholder) internazionali, organizzazioni non profit – e organismi internazionali – ONU, UE, OCSE, ecc. – intervengono e decidono in politica.
Altri, più criticamente, hanno evidenziato il sovvertimento del rapporto tra politica ed economia, nel quale non si realizza più il governo politico dell’economia, ma quello privato ed economico della politica; dove cioè i mercati – poche decine di migliaia di operatori finanziari e alcune agenzie di rating – controllano gli stati condizionandone le scelte, attraverso prassi sempre meno segrete e più esplicite.
Per portare un esempio italiano di questa evoluzione, si consideri il passaggio dalla riunione informale sul panfilo della Regina Elisabetta del 2 giugno 1992, nella quale banchieri pubblici e privati decisero con i banchieri anglo-americani le privatizzazioni di SIP (telefoni di stato), autostrade, ENI, Ferrovie dello Stato, Poste, (e perfino della) Banca d’Italia, al memorandum di JP Morgan del 2013, un documento ufficiale con cui una banca straniera ha chiesto riforme costituzionali ad uno stato sovrano (l’Italia) – nell’immagine in alto, George Soros, le cui celebri speculazioni finanziarie costrinsero la sterlina britannica e la lira ad uscire dal Sistema Monetario (SME) nel 1992.
Una ragione di questo rovesciamento risiede nell’asimmetria tra il carattere locale dei poteri statali e quello globale dei poteri economici e finanziari.
La politica, soprattutto dei paesi più deboli, è infatti ancorata ai confini degli stati nazionali, entro i quali esercita il potere politico.
Al contrario, i poteri economici e finanziari sono ormai poteri globali che si esercitano al di fuori dei controlli politici, e senza i limiti posti dal diritto (dalle legislazioni e dalle costituzioni) che è ancora prevalentemente statale.
In assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari si sono sviluppati senza limiti né regole, imponendo sempre più apertamente alla politica le loro regole e i loro interessi.
L’altra fondamentale ragione del dominio della sfera economica su quella pubblica è di carattere ideologico e consiste nell’affermazione, da parte delle dottrine neoliberali, del primato dell’economia che si fonda sui due potenti postulati della concezione dei poteri economici come libertà fondamentali (la proprietà è legata da Locke al diritto di autoconservazione) e delle leggi del mercato come leggi naturali (dalla mano invisibile all’ipotesi dell’orda).
Di qui il rifiuto di qualunque intervento statale diretto a limitare l’autonomia degli operatori economici e finanziari e l’assunzione come tesi scientifiche o situazioni di fatto di luoghi comuni ideologici – come il clamoroso errore di Rheinart e Rogoff sul rapporto tra debito pubblico e crescita che ha fatto scandalo nel 2013.
Di qui anche la trasformazione della politica in tecnocrazia, cioè nella sapiente applicazione delle leggi dell’economia da parte di governi “tecnici”, in realtà, politici (nel senso che assumono decisioni e non si limitano ad applicare regole scientifiche o principi tecnici), ma legittimati dai mercati invece che dal consenso elettorale.
La marginalizzazione del consenso e degli strumenti tradizionali della democrazia liberale sfociano così in un modello neo-autoritario che non impone i propri interessi attraverso colpi di stato militari (come i golpe degli anni ’60 e ’70), ma con le attività di lobbying e le commistioni tra mafie, massonerie e poteri pubblici.
La subalternità delle politiche nazionali al volere dei mercati (ai quali gli uomini di governo rispondono più che ai loro elettori), ha svuotato, insieme al ruolo di governo della politica, il ruolo e la stessa legittimità delle istituzioni rappresentative, alle quali i poteri economici impongono interventi antisociali (ad esempio, la legislazione sul lavoro) a vantaggio degli interessi privati, della massimizzazione dei profitti e della privatizzazione dei beni comuni.
Ne consegue un ruolo parassitario della politica e delle istituzioni democratiche e un generalizzato discredito del ceto politico, attestato da tassi sempre più bassi di popolarità dei partiti, dei loro leader e delle stesse istituzioni rappresentative.
A questi fenomeni reagisce il “populismo”, un fenomeno multiforme, dai differenti caratteri sociali ed ideologici, che è il vero protagonista politico degli ultimi anni. A partire dal referendum del 2016 sulla Brexit, le posizioni politiche ritenute anti-estabishment (rifiuto dell’austerità, della globalizzazione economica e delle decisioni tecnocratiche) sono quelle vincenti sul piano elettorale.
Proprio negli Stati Uniti, l’elezione di Donald Trump ha rappresentato una significativa vittoria elettorale ottenuta proprio grazie ai settori di popolazione che si sono sentiti danneggiati dalle delocalizzazioni e dalla perdita di valore del lavoro della globalizzazione economica.
Questa crisi non si limita ai vertici della politica: l’economia forgia tutte le restanti dimensioni.
Nel mondo globalizzato scompare la polis ed è il mercato, come luogo di socializzazione, a sostituirlo, mentre il cittadino perde lo status di portatore di diritti, per diventare consumatore e cliente dei residui servizi pubblici.
L’ansia di consumo è un’ansia di obbedienza ad un ordine non pronunciato [Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari].
5.2 Fake News: tra disinformazione e populismo
[in stesura]
6. Postmodernità vs ipermodernità
Dagli anni ’80, una letteratura filosofica, giuridica e sociologica cerca di comprendere e di definire in modo unitario il passaggio epocale che coincide con la mondializzazione di tutti i principali fenomeni sociali.
Per identificarlo sono state usate le espressioni di post-modernità (Lyotard, 1979; Jameson, 1991), ipermodernità (Virilio, 2004; Lipovetsky, 2004), modernità riflessiva (Giddens, 1989; Beck, 1989), capitalismo maturo (late capitalism) (Jameson, 1991), seconda modernità (Beck, 1986), modernità liquida (Bauman, 2003), società del rischio (Beck, 1986).
Si tratta di definizioni che enfatizzano aspetti diversi della globalizzazione, ma che si distinguono essenzialmente per la prognosi emessa sul nostro tempo, visto come l’epoca dell’accentuazione iperbolica dei tratti della modernità – libertà, individualismo, cambiamento – (dunque iper-moderna), o del tradimento delle sue promesse di libertà ed emancipazione, che fanno dunque della modernità una parentesi e un progetto bruscamente interrotto dal ritorno a fenomeni di rifeudalizzazione e verticalizzazione sociale che accomunano la contemporaneità post-moderna a un Medio Evo pre-moderno (Ziegler, 2004).
6.1 Instabilità, appiattimento sul presente, accecamento della velocità
La difficoltà di racchiudere in una sintesi un’evoluzione tanto rapida e contraddittoria è essa stessa un aspetto della crisi del sapere e delle alterazioni della percezione che il post-moderno reca con sé. Quando Lyotard, tra i primi,
affrontò il problema, fece riferimento al moto browniano delle particelle, la cui direzione ha la stessa probabilità di orientarsi ovunque. Impiegando il linguaggio della teoria delle catastrofi (Réné Thom, 1978), escluse che i sistemi sociali, tanto più in un’epoca di interconnessione e interdipendenza globale, potessero essere compresi con modelli deterministici:
Consideriamo l’aggressività come variabile di stato di un cane; essa cresce in funzione diretta della sua rabbia, variabile di controllo. Supponendo che quest’ultima sia misurabile, arrivata a una soglia essa si traduce in attacco. La paura, seconda variabile di controllo, avrà l’effetto inverso: arrivata a una soglia, si tradurrà in fuga. In assenza di rabbia e paura, la condotta del cane è neutra (picco della curva di Gauss). Ma se le due variabili crescono assieme, le due soglie saranno avvicinate contemporaneamente: la condotta del cane diviene imprevedibile, può passare bruscamente dall’attacco alla fuga e viceversa. In questo caso il sistema è definito instabile: le variabili di controllo mutano secondo valori continui, quelle di stato secondo valori discontinui [Lyotard, La condizione postmoderna, 1979].
David Harvey ha parlato, come si è visto, degli effetti culturali di uno spazio-tempo che si comprime (nei due momenti di accelerazione del 1910 con il modernismo, nel linguaggio artistico, e il taylor-fordismo, in quello economico-organizzativo e del 1973 con la crisi petrolifera e il passaggio al postfordismo) per effetto della diminuzione dei tempi di percorrenza delle distanze, sottolineando che:
dato che lo spazio pare ridursi al “villaggio globale” delle telecomunicazioni e all”astronave-terra” delle interdipendenze economiche ed ecologiche […] gli orizzonti temporali si appiattiscono totalmente sul presente (il mondo dello schizofrenico) [The Condition of Post-modernity. An Inquiry into The Origins of Cultural Change, 1990].
E’ stato l’architetto e filosofo francese Paul Virilio, a chiarire al riguardo che l’individuo contemporaneo è intrappolato nel presente da flussi (finanziari, comunicativi, commerciali) che accelerano, la cui velocità li rende incomprensibili e ingovernabili per chi resta fermo (cittadini e territori) (Virilio, 1977; 1999): velocità e accecamento sono dunque effetti (come direbbe Foucault) della governamentalità (neo)liberale che trattiene in un’immediatezza senza passato e senza futuro gli abitanti del mondo contemporaneo.
Sull’informazione e sul sapere come antidoti all’accecamento, si gioca dunque, come aveva ben visto Lyotard, la principale battaglia per orientare i processi di mondializzazione in senso democratico o in senso autoritario.
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