Parmenide di Elea

by gabriella

Parmenide (515-10 – 540 (o 450) a. C.)

Bisogna che tutto tu sappia,
e il cuore che non trema della ben rotonda verità,
e le opinioni dei mortali in cui non c’è vera certezza
.

 

Solo due strumenti ha la mente per conoscere: i sensi e la ragione. Ma i sensi ci mostrano una realtà mutevole e incomprensibile, nella quale ogni cosa, cambiando, diventa il proprio opposto. Di cosa dunque possiamo essere certi? Esiste una realtà stabile che permette una conoscenza certa, relativa a una verità permanente?

Seguendo la ragione possiamo sapere che l’essere è perché il nulla non può essere pensato. Se invece ipotizzassimo che l’essere non è cadremmo in un grave errore perché «la stessa cosa è e pensare che è», quindi, se pensiamo, dimostriamo che l’essere esiste e che il pensiero non può pensare che l’essere (qualcosa che è).

Il non essere, d’altra parte, non è e non può essere pensato. Dunque tra essere e nulla c’è una differenza incolmabile, essenziale: l’uno non può mai diventare l’altro e viceversa.

Eppure i sensi vorrebbero accreditarci proprio questa tesi: che l’essere e il non essere sono entrambi e passano continuamente l’uno nell’altro, come mostrano il divenire (le cose che sono, un tempo non erano e torneranno ad essere nulla) e la molteplicità degli enti (questa cosa è se stessa ma non è quell’altra e viceversa). La ragione vieta però di accogliere questa confusa contraddittorietà, propria degli uomini che nulla sanno, la cui ignoranza dirige l’errante mente ..

Comprendere che divenire e molteplicità sono opinione infondata (doxa), apparenza illusoria, è allora accogliere senza tremare la ben rotonda verità che l’essere soltanto è necessariamente.

sfera1

l’Essere parmenideo

Indice

1. Pensare ed essere: l’ordine logico e l’ordine della realtà
2. Il poema sulla natura

2.1 L’ontologia parmenidea

3. L’essere, il pensiero, il linguaggio

3.1 Le tre vie
3.2 Le caratteristiche dell’essere

 

4. L’interpretazione di Melisso di Samo
5. L’interpretazione di Emanuele Severino

4.1 La negazione del divenire
4.2
L’eternità dell’essere
4.3 L’essere e il molteplice

 

1. Pensare ed essere: l’ordine logico e l’ordine della realtà

Con Parmenide di Elea, vissuto nella prima metà del V secolo a.C., la filosofia giunge ad una prima e radicale soluzione del problema della verità (aletheia) che avrà un’influenza immensa sul pensiero filosofico successivo.

Convinzione fondamentale dell’eleate è che tra la realtà, la ragione umana e il linguaggio usato dagli uomini per descriverla ci sia una sostanziale identità (isomorfismo pensiero e realtà).

Questi ambiti, infatti, pur separati, obbediscono a una stessa legge che è contemporaneamente una legge logica (del pensare) e una legge della realtà (dell’essere): l’ordine del mondo coincide con l’ordine del pensiero che lo pensa.

In questo modo Parmenide pone in primo piano il problema del metodo attraverso cui l’uomo può avere un’esperienza non illusoria e una conoscenza certa di sé e della realtà e può imparare a distinguere il vero dal falso.

Egli individua nell’uomo due forme distinte di conoscenza: il pensiero e i sensi. Solo il pensiero tuttavia, per Parmenide, è in grado di conoscere veramente la realtà (epistéme), mentre i sensi si fermano all’apparenza delle cose (doxa) e forniscono all’uomo una mescolanza contraddittoria di parvenze e illusioni.

 

2. Il poema Sulla natura (Peri Physeos)

Parmenide espose la sua filosofia in un poema in versi che fu indicato dai commentatori posteriori con il titolo Intorno alla natura (al tempo dei presocratici l’abitudine di dare un titolo alle opere letterarie era ancora poco diffusa) e di cui ci restano solo 154 versi raggruppati in 19 frammenti (conservatici per la maggior parte dallo scettico Sesto Empirico, vissuto tra il I° e il II° secolo d. C., e dal neoplatonico Simplicio, del VI° secolo d. C.).

Numerosi, tuttavia, sono i riferimenti alla dottrina parmenidea in Platone, Aristotele e Plotino.

La spiegazione delle due vie della ragione secondo Luna (3E)

La spiegazione delle due vie della ragione secondo Luna (3E)

Platone: “ogni volta che parlano questi antichi filosofi tu, per dio, capisci cosa dicono?”

Il poema doveva apparire di non facile comprensione già ai filosofi più vicini a Parmenide. Platone, ad esempio, nel Sofista, fa dire allo straniero di Elea:

ogni volta, Teeteto, che parla qualcuno di questi antichi sapienti, tu, per gli dèi, capisci qualcosa di quello che dicono? (Sofista, 243b).

Probabilmente, poteva essere letto integralmente ancora fino al VI° secolo d. C. ed è sicuramente stato letto da Platone, Aristotele, Teofrasto, Proclo e Simplicio.

In età romana sono ancora numerosi i riferimenti, mentre nel Medioevo anche il poema di Parmenide fu coinvolto nell’oblio che gravò su gran parte della cultura classica e fu riscoperto solo in epoca moderna, a partire soprattutto dalla rivalutazione di Parmenide, e dei presocratici in generale, operata da Hegel.

Nel proemio del poema, Parmenide racconta un viaggio che immagina di compiere in giovane età verso la dimora di Dike (la Giustizia), la dea che possiede le chiavi della verità e che può insegnare al filosofo a riconoscere il discorso vero da quello falso:

Bisogna che tutto tu sappia,
e il cuore che non trema della ben rotonda verità,
e le opinioni dei mortali in cui non c’è vera certezza.

 

2.1 L’ontologia parmenidea

Parmenide individua così due vie di ricerca, due opposti modi di pensare:

uno che dice “che è e che non è possibile che non sia“, l’altro “che dice che [l’essere] non è e che è necessario che non sia”.

Tuttavia, solo la prima è percorribile e conduce alla verità, la seconda, invece, è una via impossibile, falsa e conduce solo all’errore.

Infatti, qualsiasi cosa, per poter essere pensata, deve prima di ogni altra determinazione, essere. Al contrario, pensare ed  esprimere ciò che non è, è impossibile. Il pensiero pensa obbligatoriamente ciò che è (to eon), mai invece, pensa il non essere, cioè le cose in quanto non essenti o il nulla.

In questo modo, esplicitamente con Parmenide, ed implicitamente in Eraclito, la filosofia passa da interrogazione sul principio delle cose (arché) a discorso sull’essere delle cose.

Si interessa cioè, come dirà Aristotele, all’ente in quanto ente, all’essere delle cose, un modo di riferirsi alle cose che la filosofia chiamerà ontologia, che vuol dire appunto, discorso sull’essere.

 

 

3. Pensiero e sensi

Alla contrapposizione tra essere e non essere, Parmenide fa seguire quella tra pensiero e sensi.

Questi si fermano alla percezione di ciò che appare, ma le apparenze si mostrano ora in un modo e poi nel loro contrario, mescolando dunque essere e non essere.

Legati alla mutevolezza del mondo sensibile in continua trasformazione, i sensi offrono all’uomo una visione menzognera della realtà. Il pensiero è invece capace di cogliere l’essere in modo stabile e certo, in virtù della loro identità:

«lo stesso è il pensare e l’essere», «è necessario dire e pensare che l’essere è».

Parmenide connette con insistenza il dire (leghein) e il pensare (noein): la possibilità di pensare trova infatti un riferimento necessario nella possibilità di dire, tanto quanto nell’essere.

 

3.1 Le tre vie

Elea, Porta Rosa

Elea, Porta Rosa. Quale legislatore, Parmenide unificò la città, prima divisa tra la Via della notte e la Via del giorno.

La prima via che rivela

il solido cuore della ben rotonda Verità

è dunque quella che indica che [l’essere] è e non può non essere.

La seconda, la via dell’errore, è quella che dice che [l’essere] non è ed è necessario che non sia.

Ma esiste una terza via che afferma che non solo l’essere, ma anche il non essere è: è la via dell’apparenza che afferma che essere e non essere, contemporaneamente sono e non sono. E’ cioè la via su cui si formano

le opinioni dei mortali.

Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una [che dice] che è e che non è possibile che non sia è il sentiero della Persuasione, giacché questa tiene dietro alla verità;

l’altra che dice che [l’essere] non è e che è necessario che non sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: perché il non essere né lo puoi pensare né lo puoi esprimere. […] infatti lo stesso è il pensare e l’essere.

E’ necessario dire e pensare che l’essere è. L’essere infatti è, mentre il nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.

Da questa prima via di ricerca infatti ti allontanano quella per la quale mortali che nulla sanno vanno errando, gente dalla doppia testa.
Perché è l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati insieme sordi e ciechi, instupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino (DK 6 B 5).

Ovvero:
1) l’essere è necessariamente;
2) il non essere (cioè il nulla) non è;
3) le cose molteplici e divenienti, in quanto appaiono come contraddittoria mescolanza di essere e non essere non sono [poiché prima di essere non erano e divenendo tornano ad essere nulla].

La prima via è dunque quella della Persuasione (l’essere è necessariamente), la seconda è quella dell’indicibile, impensabile errore, (il non essere è necessariamente. Questa via è inesistente sul piano logico, dunque impercorribile), la terza, invece, è quella dello sviamento dalla verità, di cui sono espressione gli uomini comuni che formulano le proprie opinioni in base ai sensi. La realtà diveniente è infatti, per Parmenide, pura apparenza (doxa).

 

 

 

3.2 Le caratteristiche dell’essere

Dalla necessità dell’essere, Parmenide deduce i suoi caratteri, cioè che l’essere è:

  • ingenerato e imperituro: infatti se fosse nato, prima di nascere non sarebbe stato. Ma poiché non può esistere una cosa che non era, allora l’essere è ingenerato e per la stessa ragione, eterno.

“Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo”.

 

  • non ha passato né futuro: infatti, se ammettiamo che “era”, ora non “è” più. Se invece “sarà”, ancora non “è”. Dato che l’essere è diverso dal non essere, si trova in una condizione di presente atemporale: “è” e basta.
  • è senza fine: infatti, se ha una fine, al di là di quella fine non è più, il che è assurdo.
  • è intero, continuo e indivisibile: se non fosse intero, non sarebbe qualcosa; se fosse divisibile, una parte sarebbe e l’altra non sarebbe essere; se non fosse continuo, cosa si frapporrebbe fra le sue parti se non il non essere che non esiste?

Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale.
Né vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità,
né un di meno, ma è tutto pieno di essere.

 

  • sfera1è unico: se ve ne fosse più di uno, dovrebbero essere diversi. Ma se uno è, l’altro, poiché è diverso, non è, il che è impossibile.
  • è immobile: se si sposta, nel posto dove si trovava prima c’è qualcosa di diverso, quindi il non essere; questo non esiste, quindi l’essere è immobile e il pantha rei di Eraclito è un palese errore.
  • è definito da tutti i lati e simile a una sfera: infatti, per Parmenide, che risente del pensiero pitagorico, l’infinito è una mancanza e una imperfezione, quindi un non essere qualcosa, il che è impossibile.

 

4. L’interpretazione di Melisso di Samo

se l’essere è delimitato e finito, al di là di lui c’è il non essere

Melisso di Samo (470 – 430 a. C.)

Nella seconda metà del V secolo, Melisso di Samo trovò contraddittoria l’identificazione parmenidea dell’essere con una sfera finita: se l’essere fosse finito, infatti, avrebbe dei confini al di là dei quali non potrebbe esserci che il non essere, il che è impossibile. Quindi, l’essere è illimitato.

Dalla sua infinità vengono tutti gli altri attributi che Parmenide aveva già indicato: il fatto di non essere nato, di non avere passato né futuro, di essere unico e di essere indivisibile.

Melisso ne dedusse che l’essere quindi non è nessuna delle cose che vediamo e tocchiamo: se vogliamo ammettere la molteplicità degli enti, infatti, ogni ente deve avere quelle caratteristiche.

Negò, perciò, verità al divenire e ai fenomeni naturali. I filosofi pluralisti, come Anassagora e Democrito, invece, non riuscendo a combattere l’inattaccabile logica di Parmenide, salvarono i fenomeni attribuendo i caratteri dell’essere parmenideo a entità invisibili poste alla base dei fenomeni naturali.

 

5. L’interpretazione di Emanuele Severino

Vediamo ora come ragiona Parmenide  secondo Emanuele Severino [La filosofia antica, Milano, 1984, 50-51].

 

4.1 La negazione del divenire

Quando il senso dell’essere viene esplicitamente alla luce, appare insieme la necessità, l’incontrovertibilità, l’innegabilità, la Verità, dunque, del pensiero che dice: l’essere non è non essere (=l’essere non è il niente). Chi presta ascolto alla Verità sa dunque che l’essere è e ed è impossibile che non sia. Se infatti si afferma che l’essere non è, si afferma che l’essere è non essere, e questo è l’impercorribile assurdo che la Verità proibisce di affermare.

Quindi l’essere non può venir generato né andare distrutto. Se, infatti, l’essere fosse generato, allora, prima di essere generato non sarebbe; e daccapo non sarebbe più quando andasse distrutto. Affermare che l’essere si genera e si distrugge è affermare che l’essere è non essere e questo significa negare la Verità innegabile. Quindi l’essere è assolutamente immutabile ed eterno; e la Giustizia dell’essere consiste appunto in questo: nel proibire che esso, in qualche modo, divenga.

Il divenire dell’essere, che sembra incessantemente attestato dalla trasformazioni del cosmo, è quindi un’opinione senza verità, un’apparenza illusoria di cui si convincono i “mortali” allorché, invece di prestare ascolto alla Verità, seguono il percorso della non-Verità, ove ci si persuade che l’essere possa non essere. La phýsis non può dunque essere intesa come ciò da cui provengono e a cui tornano le cose del mondo visibile: questo provenire e questo ritornare sono soltanto opinione illusoria dei mortali.

Già per Anassimandro il divenire cosmico è “ingiustizia”, perché la prevaricazione di qualcosa (il suo distacco dall’Uno) fa sì che le altre cose non siano; ma per Anassimandro, l’ingiustizia del divenire esiste realmente; non solo, ma nel divenire è presente anche il ristabilimento della Giustizia, che riporta le cose là donde sono venute – si che Eraclito può affermare che “la contesa è giustizia” – e il divenire è per lui la forma più manifesta della “contesa” in cui consiste la giustizia dell’essere.

Ma Parmenide scorge ora che l’ingiustizia è che l’essere non sia, e che quindi nasca, muoia, si trasformi, si separi negli opposti che formano il divenire cosmico, sia origine e termine di tale divenire. Sì che l'”ingiustizia” non solo resta “punita” (come pensa Anassimandro) ma non può nemmeno realmente accadere: appunto perché il divenire – dove l’ingiustizia , per quanto punita, accade realmente – è soltanto il contenuto dell’opinione illusoria secondo cui gli uomini dirigono costantemente la loro vita.

 

4.2 L’eternità dell’essere

Sin dal suo inizio, la filosofia pensa che la phýsis è eterna, “si conserva eternamente” è “eternamente salva” dal niente. Come origine e termine di ciò che nasce e muore, non nasce e non muore: quando la phýsis è esplicitamente intesa come ápeiron, l’illimitato, si rileva che solo ciò che è limitato nasce e muore, e che quindi l’illimitato è eterno.

Ma è con Parmenide che l’eternità della phýsis si mostra in modo perentorio, cioè come sentenza della Verità innegabile – ina base alla considerazione del senso dell’essere e del non essere. Prima di Parmenide si può dire che l’eternità della phýsis sia soltanto intravista, presentita. Non solo, ma è ancora con Parmenide che l’assioma “dal niente non si genera niente” viene per la prima volta esplicitamente formulato proprio nell’atto in cui si dimostra l’illusorietà del suo contenuto. Quell’assioma afferma infatti che ciò che si genera si genera dall’essere (cioè dalla phýsis); ma Parmenide, dimostrando che ogni generazione è impossibile, mostra che non solo è impossibile la generazione di qualcosa dal niente, ma la stessa generazione di qualcosa dall’essere (cioè dalla phýsis).

 

4.3 L’essere e il molteplice

Ma sin dai più antichi interpreti il pensiero di Parmenide è stato inteso non solo come negazione dell’esistenza del divenire, ma anche come negazione dell’esistenza di quello stesso molteplice (il molteplice è l’insieme delle cose in quanto tra loro differenti), di cui l’essere dovrebbe essere l’elemento unificatore.

Se il significato dei passi di Parmenide rispetto al molteplice rimane per noi ambiguo, è tuttavia fuori dubbio che il modo in cui Parmenide testimonia il senso dell’essere consente il costituirsi della negazione dell’esistenza del molteplice, perché questa testimonianza non porta esplicitamente alla luce quegli elementi (su cui invece si soffermerà esplicitamente il pensiero di Platone) che impediscono alla conoscenza di giungere a tale negazione.

Pertanto, nella tradizione storica, Parmenide rimane il filosofo che ha inteso negare l’esistenza del molteplice in base alla considerazione che l’affermazione di tale esistenza equivarrebbe all’affermazione che il non essere è (la quale nega la Verità, tanto quanto la Verità è negata dall’affermazione che l’essere non è).

Infatti, solo l’essere è perché il non essere non è. E se solo l’essere è, allora ogni cosa determinata, proprio perché è determinata in un certo modo (ossia come colore, forma, suono ..) non è “l’essere”, ossia è non essere […]. Anche la convinzione che il molteplice esista è così il contenuto dell’opinione illusoria dei mortali.

 

 

Esercitazione

1. Spiega quali sono le modalità di conoscenza che Parmenide prende in considerazione e quali ritiene affidabili, indicandone le ragioni.

2. Spiega quale via di ricerca Parmenide giudica erronea e non percorribile, indicando perché.

3. Spiega perché Parmenide dice che dalla via della verità si «allontanano […] i mortali che nulla sanno [e] vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati insieme sordi e ciechi, instupiditi, gente che non sa decidersi, da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino».

 

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