I poveri sono stupidi? Disuguaglianze cognitive e reddito

by gabriella

sinapsi

Quella descritta in questi articoli di Stefania Medetti e di Jan Mazza è la nuova frontiera della diseguaglianza cognitiva.

Dopo gli studi degli anni 60 e 70 sul divario cognitivo basato sulla parola e sull’uso di codici linguistici estesi o ristretti, si apre oggi un altro scenario, potenzialmente distopico, inaugurato dalla diminuzione delle possibilità di accesso all’alta formazione e dominato dalla disponibilità futura di mezzi chimici, genetici e informatici di potenziamento della performance intellettuale.

Sotto, una riduzione didattica dell’articolo uscito su Pandora. Rivista di Teoria e Politica: indice, titoli, immagini e facilitatori di lettura sono miei.

Vedi anche il classico di Richard Thompson, Lo sviluppo del cervello.

Indice

1. Stefania Medetti, Soldi e capacità cognitive: ecco come il reddito influenza il cervello

1.1 La ricerca dell’Università del Texas
1.2 La preoccupazione influenza le funzioni cognitive
1.3 Il reddito della famiglia conta più dell’istruzione

 

2. Jan Mazza, I poveri sono stupidi? Diseguaglianze cognitive, una minaccia per la democrazia?

2.1 Il tema della disuguaglianza
2.2 Le diseguaglianze cognitive

2.2.1 Meritocrazia e diseguaglianze «giuste»
2.2.2 Diseguaglianze cognitive e smartdrugs
2.2.3 Diseguaglianze cognitive e ingegneria genetica
2.2.4 Diseguaglianze cognitive e protesi esterne

2.3 Uno scenario distopico e una possibile alternativa

 

1. Soldi e capacità cognitive: ecco come il reddito influenza cervello

Articolo pubblicato su D di Repubblica il 31 ottobre 2018.

 

1.1 La ricerca dell’Università del Texas

La povertà comporta paura, stress e talvolta depressione. Lo ha detto J.K. Rawling durante il suo celebre commencement speech all’Università di Harvard.

Adesso, una ricerca firmata dal Center for Vital Longevity dell’Università del Texas conferma le parole della “mamma” di Harry Potter.

Attraverso la risonanza magnetica, infatti, gli studiosi hanno analizzato la “composizione” del cervello di trecento persone di età compresa fra 20 e 89 anni e, in particolare, hanno correlato due dati: l’organizzazione dell’attività neurale e il volume del tessuto di materia grigia.

Nel cervello, infatti, le aree dedicate a una specifica funzione tendono, per così dire, a stringere dei legami. Per esempio, quelle che governano la parola interagiscono maggiormente fra di loro e meno con parti che regolano altre attività corporee, in una sorta di segregazione delle competenze.

La materia grigia, invece, è l’area in cui il cervello processa le informazioni e i segnali ed è associata all’intelligenza e alle abilità cognitive.

 

1.2 La preoccupazione condiziona le funzioni cognitive

Le immagini del cervello dei partecipanti allo studio, dunque, sono state messe in relazione con il loro status socio-economico. Risultato: nei soggetti di età compresa fra i 35 e i 64 anni, una migliore condizione economica è correlata positivamente sia con la segregazione dei network cerebrali sia con il volume della materia grigia.

Due misure collegate direttamente alla memoria e considerate protettive nei confronti dell’invecchiamento cerebrale.

Il dato, a quanto pare, è indipendente dal modo in cui i soggetti sono stati cresciuti, ma una volta adulti, le cose cambiano. Perché la preoccupazione di fare quadrare i conti, magari con dei figli a carico, impatta negativamente sulle funzioni cognitive.

Ippocampo e memoria

Si tratta di una forma di stress che pesa sul corpo come la perdita di una notte di sonno.

“Sappiamo che l’esposizione allo stress si traduce in un più piccolo ippocampo, la parte del cervello situata nel lobo temporale che gioca un ruolo chiave nella formazione della memoria”,

fa sapere la dottoressa Kimberly Noble, professore associato di neuroscienze e istruzione alla Columbia University.

 

1.3 Il reddito della famiglia conta di più dell’istruzione

Dal “Neurocognition, Early Experience and Development Lab”, la dottoressa Noble e il suo team hanno scoperto che l’effetto della povertà si può leggere già nello sviluppo del cervello del bambino.

Il team di ricercatori, infatti, ha notato che i bambini provenienti dalle famiglie più povere e meno acculturate tendono ad avere subregioni della corteccia pre-frontale più sottili.

In pratica, quella parte del cervello associata con la capacità di attenzione, iniziativa, memoria, flessibilità cognitiva, problem solving risulta meno sviluppata e questo chiama in causa anche una serie di funzioni legate alle emozioni, alla motivazione e al comportamento.

“Abbiamo notato una relazione fra il livello di istruzione dei genitori e la struttura cerebrale dei figli e fra il reddito e la struttura cerebrale. Nel primo caso, la relazione è lineare: per ogni anno di formazione in più dei genitori, le aree del cervello dei figli sono più sviluppate. Lo stesso avviene per il reddito della famiglia d’origine, con la differenza, però, che in questo caso la relazione è logaritmica: gli effetti sono più ampi nella parte bassa della curva di distribuzione del reddito”, fa sapere la dottoressa Noble.

I segnali si colgono già prima dei due anni di età.

C’è anche un dato economico: i bambini nati in famiglie con un reddito inferiore alla soglia della povertà (25mila dollari l’anno per una famiglia di quattro persone negli Stati Uniti), hanno dall’8 al 10% meno volume di materia grigia nelle aree del lobo frontale, temporale e dell’ippocampo.

“In base ai nostri studi comportamentali, ci sono differenze significative nello sviluppo del linguaggio e della memoria già a partire dai 21 mesi di età”,

prosegue Noble. Essere oltre la linea della povertà, non è sufficiente. Anche i bambini di famiglie con un reddito del 50% superiore al limite federale della povertà si trovano al 3-4% nel limite inferiore dello sviluppo cognitivo della norma. A quanto pare, però, un incremento del reddito di circa 350 dollari al mese nei primi anni di vita del bambino può fare la differenza nel lungo termine sotto forma di sensibile miglioramento nella capacità di guadagno, di impiego e nella salute da adulto.

Mentre il dibattito sul reddito di cittadinanza non si placa e negli Stati Uniti si continua a parlare di tagli alla spesa pubblica, Noble e i suoi colleghi sono impegnati a dimostrare attraverso uno studio quinquennale la relazione fra condizione economica e sviluppo cerebrale.

Come avviene negli esperimenti in ambito farmaceutico, alle neo-mamme sarà fornito un sussidio da quattromila dollari o un contributo-placebo da poche decine di dollari. Secondo la ricercatrice, il contributo più generoso si tradurrà in un miglioramento in grado di impattare positivamente e significativamente sullo sviluppo del cervello del bambino. E questo, auspicabilmente e a sua volta, dimostrerà l’importanza di programmi a sostegno dell’infanzia di cui potrà beneficiare tutta la società.

 

2. Jan Mazza, I poveri sono stupidi. Diseguaglianze cognitive, una minaccia per la democrazia?

2.1 Il tema della disuguaglianza

Il tema delle disuguaglianze è tornato prepotentemente di attualità nel dibattito politico ed economico, dopo decenni di prolungato torpore […]: non più indispensabile corollario di un sistema capace, nel medio periodo, di beneficare tutti come la famosa marea che solleva sia zattere che velieri; ma attributo intrinseco di un modello di produzione e distribuzione basato su iniquità non (solo) legate a differenze di valore aggiunto, né destinate a livellarsi nel corso del tempo.

Anthony Barnes Atkinson (1944-2017)

Il lavoro pionieristico di Sir Anthony Atkinson, economista britannico recentemente scomparso, impegnato in decennali studi su cause e rimedi della disuguaglianza e autore di un monumentale Inequality (2015), ha rappresentato le fondamenta di una riscoperta incarnata simbolicamente dal successo planetario di Thomas Piketty e del suo Capitale nel XXI Secolo.

Opera imponente e di lungo respiro, capace di tracciare l’evoluzione di capitale e reddito attraverso gli ultimi tre secoli nei maggiori paesi occidentali, il libro dell’economista francese ha radicalmente influenzato il dibattito politico ed economico. Il suo giovane collaboratore Gabriel Zucman si è concentrato sull’aspetto tecnico ma cruciale dei paradisi fiscali con The Hidden Wealth of Nations (2015).

Branko Milanovic, infine, si è occupato a più riprese dell’analisi della disuguaglianza a livello globale, con i suoi The Haves and the Have-Nots: A Brief and Idiosyncratic History of Global Inequality (2010) e Global inequality: A New Approach for the Age of Globalization (2016), uno dei saggi più acclamati dell’anno passato.

Thomas Picketty

Gabriel Zucman

Branko Milanovic

[…] Come se non bastasse, c’è un ulteriore meccanismo che potrebbe rivelarsi sempre più rilevante nel motore delle disuguaglianze.

Un meccanismo che da freno rischia di diventarne acceleratore nell’arco di pochi decenni, e che giocherà un ruolo cruciale nella nostra comprensione ed eventuale capacità di fornirvi risposte adeguate.

Mi riferisco a quelle che potremmo definire disuguaglianze cognitive, e alle potenziali conseguenze del cognitive enhancement (letteralmente “potenziamento cognitivo”).

 

2.2 Le diseguaglianze cognitive

2.2.1 Meritocrazia e diseguaglianze «giuste»

Le disuguaglianze cognitive, in principio, ricalcano null’altro che la distribuzione delle facoltà intellettive nella popolazione, le quali per decenni, grazie a un vasto e democratico sistema di istruzione pubblica, hanno agito come principale ascensore sociale.

Rigettate tutte le ambizioni di riforma strutturale dell’organizzazione di produzione e distribuzione, i riformisti hanno fatto della meritocrazia il proprio vessillo: un principio volto a garantire uguali condizioni di partenza per tutti (grazie a un’istruzione di qualità), così da assicurare disuguaglianze “giuste”, basate su valori fondamentali anziché su privilegi e rendite (altra buzzword di primo piano nel vocabolario della sinistra contemporanea).

 

 

2.2.2 Diseguaglianze cognitive e smart drugs

A prescindere dall’intrinseca fragilità del concetto di meritocrazia (termine peraltro coniato con accezione dispregiativa) e le critiche alla sua presunta azione mitigatrice rispetto alle disuguaglianze di censo, nuove insidie ne minacciano l’efficacia nei decenni a venire. Non mi riferisco qui all’istruzione d’élite e alle ormai documentate crescenti iniquità nei tassi di ammissione alle università più prestigiose, e più attive nella retorica meritocratica, del mondo1, bensì a nuove o nuovissime forme di potenziamento cognitivo che potrebbero giocare un ruolo ancora più importante rispetto a quello dell’istruzione: la diffusione delle smart drugs, la selezione genetica e l’integrazione con device esterni.

L’utilizzo di sostanze volte a migliorare le prestazioni umane, in termini fisici o mentali, non è una recente novità, né si limita all’ambito cognitivo (pensiamo al doping nello sport).

È vero tuttavia che l’assunzione di psicofarmaci in contesti accademici altamente competitivi è aumentata in modo sostanziale, in particolare nel mondo anglosassone, così come l’efficacia di questi prodotti (British Medical Association 2007).

I quesiti etici hanno dominato la discussione intorno a questo fenomeno, con pareri sia favorevoli che fortemente contrari alla legalizzazione o promozione dell’uso di smart drugs.

Un aspetto sottovalutato nel dibattito, però, riguarda l’effetto “redistributivo” di questa sempre più diffusa abitudine, ancora una volta favorevole agli studenti economicamente più facoltosi e quindi in grado di permettersi il maggior numero o la maggior qualità di smart drugs (al di là di ogni disposizione etica).

Un fattore che, sommato al filtro classista nelle procedure di ammissione, rischia di aggravare sensibilmente il divario socio-economico tra laureati di successo e il resto della popolazione.

Lo stesso discorso potrebbe ben presto applicarsi a tutte le professioni che richiedono performance cognitive cruciali in condizioni di stress (per esempio cardiochirurghi o piloti di aereo) – in questo caso con implicazioni etiche più che politico-economiche.

 

2.2.3 Diseguaglianze cognitive e ingegneria genetica

Il potenziamento per via genetica è una via più impervia in ragione delle attuali stringenti regolazioni (principalmente dovute a drammatiche esperienze storiche) ma anche molto più “promettente” in termini di risultati e in vista della probabile deregulation che investirà il campo nei prossimi decenni – in particolare per timore del sorpasso di una Cina concentrata su politiche demografiche a lungo-termine e molto più impermeabile a premure etiche (si veda Bostrom 2014).

La selezione di embrioni sarebbe uno dei metodi di potenziamento cognitivo (e non solo) più efficaci, ed è consentita, entro certi limiti, in sempre più paesi: in Italia, per esempio, la Consulta l’ha resa possibile quando finalizzata a evitare l’impianto di embrioni affetti da gravi malattie trasmissibili.

Nel febbraio 2016, il Ministero della Salute britannico ha concesso l’autorizzazione a un gruppo di biologi di sperimentare l’editing genetico su un gruppo di embrioni umani, per la prima volta in Occidente – con il divieto di impiantarli nelle pazienti.

E le paure di una deriva “eugenetica” sembrano se non altro fuori tempo massimo, considerata la florida esistenza di aziende come California Cryobank o Cryos International, attive banche del seme con tariffe altamente variabili a seconda delle caratteristiche fisiche e intellettive del donatore.

Senza bisogno di considerare più esotici percorsi alternativi per il potenziamento cognitivo per via genetica (come la clonazione, o il design di nuovi geni sintetici), è ancora più evidente che nel caso precedente come la distribuzione delle qualità cognitive rischi di essere sempre più positivamente correlata alla distribuzione della ricchezza, visto che genitori più ricchi saranno più inclini a investimenti più corposi sulla determinazione delle caratteristiche genetiche dei propri discendenti.

 

2.2.4 Diseguaglianze cognitive e protesi esterne

L’integrazione con device esterni, infine, è forse la prospettiva più prossima seppur più trascurata.

L’ipotesi della mente estesa (hypothesis of extended mind, Clark e Chalmers 1998) invita a considerare gli elementi dell’ambiente esterno che integrano o realizzano un processo cognitivo come parte della mente stessa. Il classico esempio è quello di un malato di Alzheimer che affida a un quaderno tutti i propri appunti da utilizzare in futuro – in questo caso, il quaderno equivale, né più né meno, alla sua memoria (per i più cinefili, qualcosa di simile vale per il corpo e le fotografie del protagonista di Memento, il film diretto da Cristopher Nolan).

Dapprima vivacemente combattuta, l’ipotesi ha preso sempre più piede, anche grazie alla diffusione e alla rilevanza degli smartphone nella nostra vita quotidiana. A prescindere dalla validità di questa teoria (e della sua parente più “moderata” detta ipotesi della cognizione integrata, hypothesis of embedded cognition), il ruolo giocato da fattori esterni nelle nostre capacità cognitive, non solo mnemoniche, è sempre più preponderante, e sempre più legato a device cui facciamo costante affidamento.

Le disuguaglianze rimangono relativamente ininfluenti finché pensiamo a strumenti come Wikipedia o Google Maps (il cui proficuo utilizzo è comunque circoscritto a possessori di smartphone con adeguata connessione), ma è facile immaginarne l’impatto con l’arrivo dei primi wearable devices e più in generale della cosiddetta Internet of Things.

Quando, cioè, l’integrazione tra uomo e macchina raggiungerà livelli senza precedenti, e potenza ed efficacia cognitive dipenderanno in maniera cruciale dalla qualità e dall’estensione degli strumenti a disposizione.

Strumenti con un costo adeguato alle potenzialità, così che è facile immaginare come la distribuzione delle potenzialità cognitive potrebbe rispecchiare fedelmente la distribuzione delle capacità di spesa.

 

 

2.3 Uno scenario distopico e una possibile alternativa

Questi tre filoni di potenziamento cognitivo rappresentano quindi un salto di qualità a dir poco cruciale per l’evoluzione delle nostre società, e di conseguenza per l’analisi di cui la politica dovrà essere capace di farsi carico.

Se (o semplicemente quando) le disuguaglianze cognitive passeranno da principale livellatore sociale in grado di riequilibrare il carico del privilegio a tratto distintivo e auto riproduttivo di quel privilegio, la politica “riformista” si troverà completamente priva di strumenti adeguati di fronte a questo cambiamento epocale.

Aggiungiamo a questo il probabile impatto dirompente che l’intelligenza artificiale avrà sull’occupazione almeno nel medio termine2, e capiamo come la prospettiva di un mondo sempre più polarizzato, con da una parte lavoratori sottopagati per occupazioni troppo economiche per essere meccanizzate e disoccupati magari percettori di un reddito di base, e dall’altra un’élite composta da professionisti ad alto valore aggiunto e semplici rentier, rischi di trasformarsi da scenario pessimista a distopia in cui alla divisione economica si aggiunge un divide cognitivo capace di autoperpetuarsi (persino più del capitale, se non altro sottoposto al “rischio”).

Parte della discussione, è bene ricordarlo, si basa su ipotesi di scenari futuri, ovviamente subordinati a una serie di innovazioni tecnologiche e legali e all’assenza di conseguenti reazioni sociali e politiche.

Le stesse tecnologie potrebbero trasformarsi in potenti strumenti democratici ed egualitari, capaci di individuare i talenti di ciascuno in maniera molto più efficace e gratificante per lo sviluppo e la realizzazione delle persone, o di connettere gli eventuali losers in modo tale da rendere inevitabile un potenziamento cognitivo più equo.

Il rischio concreto, tuttavia, è che il ritmo esponenziale non riguardi solamente lo sviluppo tecnologico e le sue conseguenze sulle vite delle persone, ma anche, se non soprattutto, il divario tra questo dirompente processo di cambiamento e la capacità della politica democratica di proporre un’elaborazione teorica e programmatica (cioè pratica) in grado di gestire il mondo che verrà.

Una capacità che, pur già gravemente degradata, rappresenta la speranza migliore per uno sviluppo consapevole e giusto, anche delle nostre abilità cognitive.


Note

[1] Le iniquità si riferiscono ad area di provenienza, etnia, genere, o al fenomeno americano delle legacy admissions (il trattamento di favore ricevuto da figli di alumni, in particolare se anche finanziatori): https://www.forbes.com/forbes/welcome/?toURL=https://www.forbes.com/sites/joshfreedman/2013/11/14/the-farce-of-meritocracy-in-elite-higher-education-why-legacy-admissions-might-be-a-good-thing/&refURL=&referrer=#6618f0633012

[2] 54% degli attuali impieghi europei a rischio secondo il think-tank Bruegel, 47% negli USA secondo Frey e Osborne.

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