Jack London, La proprietà privata contro la persona umana
In coda un’illustrazione del contenuto delle studentesse della 4F.
Karl Marx, La cacciata dei contadini dalla terra
Dalle prime recinzioni descritte da Thomas More nel XVI secolo, alla massiccia espulsione dei contadini dalla terra del XVII e XVIII secolo. Marx fotografa questo momento fondativo del capitalismo che, nel primo libro del Capitale (sez. 24), chiama accumulazione originaria.
La sua tesi è che il modo di produzione capitalistico (cioè “moderno”, per usare il lessico attuale della sociologia), basato sullo sfruttamento del lavoro e l’accumulazione del profitto (capitale) si sviluppa sulla base di due condizioni: 1. la liberazione del lavoro dalla servitù feudale (nella quale il contadino era legato alla terra) e la nascita del lavoro salariato (in cui il proletario diventa libero di vendere le sue braccia per un salario) e 2. l’espulsione dei contadini dalla terra (con la prima pauperizzazione delle classi popolari, espropriati della capacità autonoma di reddito, legata al lavoro servile e alle libertà comunali).
«Fu così che i contadini, dapprima espropriati con la forza delle proprie terre, cacciati dalle proprie case, trasformati in vagabondi e poi frustati, marchiati, torturati in base a leggi grottescamente terribili, furono condotti alla disciplina necessaria per il sistema salariale»
Karl Marx, Il capitale, I, VII.
La struttura economica della società capitalistica è uscita dal grembo della struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha messo in libertà gli elementi di quella.
Il produttore immediato, o diretto, cioè l’operaio, poteva disporre della sua persona solo dopo aver cessato d’essere legato alla gleba, e servo di un’altra persona o infeudato ad essa. Per divenire libero venditore di forza lavoro, che porta la sua merce dovunque essa trovi un mercato, doveva inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni di mestiere, delle loro clausole sugli apprendisti e sui garzoni, dei vincoli delle loro prescrizioni sul lavoro.
Luciano Gallino, Cosa alimenta la disoccupazione
Gallino spiega perché le politiche che perseguono l’aumento dell’avanzo primario (contenimento della spesa pubblica e avanzo del prelievo fiscale) aggravino la disoccupazione, in un quadro in cui il pagamento del debito pubblico si rivela impossibile a causa delle politiche recessive e degli effetti perversi dell’interesse composto (lo stato si indebita non solo per pagare il debito, ma anche gli interessi sul debito).
Non è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. È vero invece che lo Stato spende troppo poco rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le risorse che da loro riceve.
Lo stato dell’economia mondo. Disoccupati, sottooccupati e inattivi
A metà 2012 la Banca mondiale ha reso note le stime di crescita dell’economia mondiale. Il risultato atteso è di una crescita del 2,5%, trainata quasi esclusivamente dalle economie emergenti. Si potebbe dunque credere che la recessione mondiale stia finendo e che, seppure a fatica, le economie BRICS continuano ad alimentare il ciclo espansivo su cui si basa l’economia di mercato, tenendo in vita le asfittiche realtà dei paesi sviluppati. In un saggio pubblicato su Connessioni, Antonio Carlo dà una lettura diversa dei dati forniti dalle fonti ufficiali, mostrando che:
i paesi ricchi sono fermi in tendenziale ristagno, e per stare fermi devono continuare ad indebitarsi a ritmo crescente […], se fossero imprese private sarebbero fallite da tempo. Quanto ai paesi emergenti, che sono in netta flessione di crescita, per essi un ritmo del 5% o poco più, rapportato alla modestissima base di partenza (l’India ha un PIL procapite di poco superiore ai 1000 dollari, quello della Cina è più elevato ma enormemente inferiore a quello delle province più povere del sud Italia) è irrisorio; la Cina, il colosso tra gli emergenti, dovrebbe crescere quest’anno del 7,5% (obiettivo del governo cinese fissato in marzo 2012), ma come vedremo l’indice PMI , che misura l’attività manifatturiera centrale per quel paese, si è collocato spesso sotto livello 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione4, in altre parole con 7,5% di crescita del PIL la Cina è in ristagno, ma gli altri paesi emergenti stanno peggio, l’India crescerà quest’anno sotto il 5% e l’anno prossimo rimbalzerà (si fa per dire) al 6%. Il mondo [insomma] è fermo e non sa come ripartire […].
La sovraproduzione di forza lavoro (disoccupazione)
Nel corso dell’anno vengono diffusi i dati dell’OCSE e dell’ILO sulla disoccupazione: 205 milioni a livello mondiale (75 milioni giovani), 50 milioni in più rispetto alla fase pre-crisi, nell’OCSE siamo a 48 milioni, 15 in più rispetto al periodo pre-crisi. Rispetto al picco della crisi (2009) solo una lieve limatura (allora era a 212 milioni), più formale che reale perché è cresciuto il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro e che formalmente non sono considerati disoccupati; solo in USA sono una cifra maggiore della lieve “limatura” realizzata. A questi poi bisognerebbe aggiungere quelli che il lavoro non lo hanno mai cercato, pur essendo in età da lavoro: il tasso di attività media a livello mondiale si colloca intorno al 60%7 (così anche in USA e Giappone), nella UE siamo al 63,9%, in Italia al 56,9% (Eurostat): in sostanza a livello mondiale su 5 persone in età da lavoro ne sono occupate solo 3.
Domenico Moro, Disoccupazione e rigidità salariale
Stralcio la parte relativa a disoccupazione e riforme di un articolo più ampio di Domenico Moro consultabile su Economia e Politica.
La Bce di Mario Draghi ritiene che la principale causa della disoccupazione strutturale non sia la crisi ma l’eccessiva rigidità salariale. La soluzione, quindi, sarebbe garantire maggiore flessibilità salariale proseguendo con le “riforme del mercato del lavoro”, come quelle che si stanno portando avanti in Italia (riforma Fornero), Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna.
Peccato, che ad oggi, il potere d’acquisto dei lavoratori si sia ridotto senza che la disoccupazione abbia smesso di crescere. Il punto è che oggi in Europa, come negli Usa, si tende a ricostituire un ampio “esercito industriale di riserva”, che consiste di lavoratori a tempo che possano essere agevolmente inseriti e dismessi a seconda dei cicli di una economia che è destinata a mantenersi per chissà quanto tempo a un bassissimo tasso di crescita e molto lontana dalla piena occupazione.
Visto che le riduzioni salariali e del costo del lavoro non hanno mai creato maggiore occupazione, l’obiettivo reale delle riforme del mercato del lavoro è quello di contrastare la sempre più agguerrita concorrenza mondiale comprimendo i salari di milioni di lavoratori a livelli di sussistenza o addirittura al di sotto di tale livello. Archiviata la società del benessere e dei consumi, con buona pace dei teorici della “decrescita felice”, fa ritorno sulla scena sociale la figura del working poor o “povero che lavora”, ricattabile e disposto ad accettare condizioni e ritmi di lavoro peggiori. Del resto, che importa se il salario reale cala? Non è il mercato interno che interessa alle grandi imprese multinazionali ma quello mondiale. È il modello tedesco ad affermarsi. Peccato che, se tutti fanno così, sarà il mercato mondiale a crollare, così come sta crollando quello dell’area euro. Uno scenario che potrebbe diventare presto realtà, specialmente se gli Usa, dopo le elezioni presidenziali, rinunciassero allo strumento dello stimolo fiscale per affrontare il fiscal cliff.
La condizione giovanile nella vulgata di destra
La colpevolizzazione e l’odio per chi non ce la fa, in quanto inutile zavorra di una società altrimenti prospera, sono gli elementi che rendono riconoscibile, al di là degli schieramenti, la sociopatia ideologica dei protagonisti degli ultimi governi italiani. Dopo il “capitalismo compassionevole” à la Bush, la stigmatizzazione degli esclusi si adatta meglio ai tempi di crisi.
Vivete coi genitori? “bamboccioni” (Padoa Schioppa);
Siete dei “Neet”? “lazzaroni” (Vittorio Feltri);
Non siete ancora laureati? “sfigati!” (il viceministro Martone);
Siete alla ricerca di prima occupazione? “Andate ai mercati a scaricare cassette” (Brunetta);
Cercate un lavoro? “Non siate choosy” (Fornero);
Volete un consiglio? “L’agricoltura rende le persone sempre giovani…” (Fornero);
Non trovate lavoro? “Per forza, lo cercate accanto a mammà” (Cancellieri);
Ancora non lavorate? “poveri disgraziati” (Brunetta);
Siete precari? “L’Italia peggiore” (Brunetta);
Guadagnate 500 euro al mese? “Sfigati” (Straquadanio);
Cercate un posto fisso? “Che monotonia” (Monti);
Lo avete trovato, ma nel pubblico impiego? “fannulloni!” (Brunetta);
Lo state ancora cercando, non più giovanissimi? “generazione perduta” (Monti).
Luigi Cavallaro, Una Repubblica fondata sull’ozio
Questo bell’articolo di Luigi Cavallaro spiega attraverso la logica economica, spesso controintuitiva, la natura ideologica dei concetti di risparmio e austerità e prende posizione nel dibattito critico a favore di Keynes (qui la tesi contraria).
«Ha una ricetta per salvare le casse dello stato?», chiesero una volta ad Alberto Sordi. «È una ricetta semplicissima», rispose l’Albertone nazionale: «Si chiama risparmio. Si prendono i conti dello stato e si dice per esempio: tu, magistrato, guadagni un milione al mese di meno; tu, deputato, due milioni di meno; tu, ministero, devi diminuire le spese per la carta, il telefono, le automobili (il che sarebbe anche positivo per il traffico e l’inquinamento), e così via, informando mensilmente gli italiani, alla televisione e sui giornali, dei risparmi ottenuti. Allora si potrebbero chiedere sacrifici a tutti: diventerebbe una gara a chi è più bravo».
Era il 1995 e c’era ancora la lira, ma quella ricetta di politica economica ha lasciato il segno. Si dovrebbe chiamarla Sordinomics, in omaggio alla lingua madre della «scienza triste», perché non c’è dubbio che ad essa si ispirano le prescrizioni dell’Unione europea e, qui da noi, il loro esecutore (alias l’esecutivo) e i suoi tanti corifei, che non mancano un solo giorno d’informarci non solo dei risparmi ottenuti, ma soprattutto di quelli che si potrebbero ottenere se solo non avessimo sul groppone una «casta» di nullafacenti affamati e corporativi.
Nel paese delle banane
In effetti, è una constatazione di senso comune supporre che un individuo che si sia indebitato oltre il limite consentitogli dal proprio reddito debba ridurre i propri consumi e risparmiare di più per ripagare gli interessi e il capitale preso a prestito. Ma non sempre il senso comune equivale al buon senso: in generale, anzi, è sbagliato ritenere che ciò che vale per l’individuo singolo debba valere per la società nel suo complesso. Lo spiegò magistralmente Keynes nel 1930, nel corso di un’audizione al Macmillan Committee, ricorrendo ad un paradosso che né il compianto Sordi, né i corifei del governo, né il governo stesso (per non dire dei suoi mandanti europei) debbono aver compreso.
Supponiamo – disse all’incirca Keynes – che si dia una comunità che possieda solo piantagioni di banane. Il lavoro dei suoi membri consiste solo nel coltivarle: essi producono banane e consumano banane, in una quantità tale da garantire l’equilibrio tra le remunerazioni dei lavoratori occupati e il prezzo delle banane vendute. In questo Eden, viene improvvisamente lanciata una campagna per il risparmio: «Se non diminuiamo il consumo delle banane, ipotecheremo il benessere delle generazioni future», ammoniscono alcuni, e altri di rincalzo: «Stiamo distruggendo la capacità del pianeta di produrre banane, di questo passo non dureremo!». I lavoratori sono tipi un po’ bonaccioni e si fidano: il consumo delle banane prenderà quindi a diminuire. Ma siccome sul mercato l’offerta di banane è rimasta nel frattempo invariata, il prezzo di esse scenderà, consentendo ai lavoratori di acquistare esattamente la stessa quantità di banane di prima e per giunta pagandole di meno. A questo punto i lavoratori (e specialmente il loro partito, che è fatto persone altrettanto bonaccione) si convincono che sta andando tutto benissimo: la campagna per il risparmio non solo preserverà le generazioni future e lo stesso pianeta dai rischi di un consumo eccessivo e imprevidente, ma ha pure ridotto il costo della vita: cosa desiderare di meglio?
Sfortunatamente, non siamo ancora alla fine della storia. La diminuzione del prezzo delle banane, infatti, ha causato perdite gravissime agli imprenditori che conducono le piantagioni. Costoro allora cercheranno di rifarsi e allo scopo negozieranno con i sindacati dei lavoratori riduzioni del salario e licenziamenti collettivi. Non riusciranno però a evitare le perdite, perché riducendo le loro spese in salari ridurranno anche i redditi dei lavoratori e la loro possibilità di consumare banane. Il prezzo delle banane scenderà così di nuovo e da capo si avvierà un altro ciclo di perdite, riduzioni dei salari e licenziamenti, fino a quando tutti resteranno senza lavoro, la produzione delle banane si interromperà definitivamente e l’intera popolazione morirà di fame.
Wolfgang Streek, Alle origini politiche del disastro finanziario. La crisi del 2008 è iniziata quaranta anni fa
Dall‘inflazione al debito pubblico al debito privato. Wolfgang Streeck, direttore dell’Istituto Max-Planck per lo studio delle società di Colonia, spiega in un testo chiarissimo le tre tappe della storia del fallimento delle politiche di mercato nel secondo dopoguerra: la Grande Recessione.
Il testo che segue è una versione abbreviata di un’analisi pubblicata sulla New Left Review, n° 71, Londra, settembre-ottobre 2011 (traduzione dal francese di José F. Padova).
Giorno dopo giorno, gli avvenimenti che segnano la crisi ci insegnano che ormai i mercati dettano la loro legge agli Stati. Falsamente democratici e sovrani, questi ultimi si vedono prescrivere i limiti di ciò che possono fare per i loro cittadini e suggerire quali concessioni devono esigere da questi. Per quanto riguarda le popolazioni s’impone una constatazione: i dirigenti politici non servirebbero gli interessi dei loro concittadini ma quelli di altri Stati o di organizzazioni internazionali – quali il Fondo monetario internazionale (FMI) o l’Unione Europea (UER) – al riparo dalle costrizioni del gioco democratico. Il più sovente questa situazione è descritta come la conseguenza di un inconveniente sullo sfondo della generale stabilità: una crisi. Ma è veramente questo il caso?
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