Archive for ‘Filosofia’

28 Novembre, 2013

I caffé filosofici 2013/14

by gabriella

caffefilosofico Caffé filosofico a Villa Urbani dalle 14,00 alle 15,30.

Sono iniziati il 28 novembre i caffè filosofici organizzati alla Biblioteca di Villa Urbani, rivolti agli studenti, quest’anno nella veste inedita che coniuga filosofia e teatro.

Il calendario prevede una decina di caffé + laboratorio espressivo dal quale gli studenti ricaveranno una sceneggiatura da mettere in scena a maggio.

Date previste: 28 novembre e 12 dicembre 2013; 9 e 23 gennaio; 6 e 20 febbraio; 6 e 20 marzo; 3, 10 e 17 aprile 2014.

SFI

Villa Urbani

22 Novembre, 2013

La professione di fede del Vicario savoiardo

by gabriella

émileQuesto passo dell’Émile (1762) costò a Rousseau invettive dal pulpito e aggressioni fisiche. Il filosofo lo aveva scritto probabilmente alcuni anni prima, in occasione della sua ri-conversione al calvinismo (1756). [J.-J. Rousseau, Emilio, Bari-Roma, Laterza, 2003, pp. 193-205].

La prima parte della professione è dedicata alla presentazione dei principi su cui si regge la religione naturale, con la quale Rousseau si oppone al radicalismo scettico di molti philosophes. La seconda parte contiene la critica alle religioni rivelate (o positive), considerate come causa di conflitti tra gli uomini.

 La professione di fede nella religione naturale:

Il primo frutto che trassi da queste riflessioni fu d’imparare a limitare le mie ricerche a ciò che m’interessava immediatamente, ad accettare con serenità una profonda ignoranza su tutto il resto e a non lasciarmi tormentare dal dubbio, se non per ciò che realmente m’importava sapere.

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22 Novembre, 2013

Il deismo

by gabriella

Traggo dalla voce “deismo” dell’Enciclopedia Treccani e del Dizionario storico della Svizzera questa efficace presentazione della religione naturale e della versione offertane da Rousseau.

Viene chiamata deismo, in senso stretto, quella corrente di pensiero fiorita tra il Sei e il Settecento in Inghilterra, iniziata con E. Herbert of Cherbury (1581-1648), detto “il padre del deismo”, e sviluppatasi con F. Toland (1670-1722), A. Collins (1676-1727), M. Tindal (1656-1733), T. Chubb (1679-1747), H. Bolingbroke (1698-1751) e altri.

Campanella

Tommaso Campanella

I precedenti storici di questo movimento vanno indubbiamente ricercati nella filosofia religiosa del Rinascimento italiano, specie del Campanella, alla cui dottrina si riannoda per più rispetti quella herbertiana, mentre d’altra parte, mutati molti altri termini, un certo deismo si trova nella filosofia religiosa di Hume, di Voltaire, di Rousseau, di Lessing e Leibniz, e, in fondo, dello stesso Kant.

Hume

David Hume

voltaire

François-Marie Arouet, detto Voltaire

Caratteristica del deismo in senso stretto è la contrapposizione alle religioni positive di una religione “naturale”, fondata cioè su quel conato verso l’infinito che attraversa tutta la natura, come semplice oscura tendenza alla conservazione nell’essere, e che nell’uomo diventa luminosa consapevole aspirazione alla divinità (Campanella e Herbert).

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14 Novembre, 2013

Paolo Ercolani, Le metamorfosi del potere

by gabriella

leviathanParafrasando un celebre frammento di Eraclito, in cui il grande filosofo antico si riferiva alla natura, potremmo dire che l’epoca della società in rete, o della globalizzazione, è quella in cui il potere ha subito una trasformazione tanto poco percettibile quanto sostanziale e profonda: siamo infatti passati dal potere che nasconde, censura, manipola o coarta il flusso delle informazioni (o disinformazioni), a quello che ama nascondersi, trasfigurare i propri meccanismi di funzionamento e influenza, mascherare i luoghi del proprio abitare e operare. Lo scopo è sempre lo stesso, la perpetuazione del potere stesso, ma le modalità mutate debbono indurre a più di una riflessione. Dal Rasoio di Occam.

 

 

1. Luci e ombre

Il Potere che ama nascondersi è quello a cui non importa più se e quanto la popolazione possa o debba sapere, perché il suo essere nascosto, tale per cui non si sa bene chi lo detiene, da dove e con quali modalità di esercizio, gli consente comunque di attuare un dominio sulla pubblica opinione (nonché sulle menti e sui corpi degli individui), ancora più capzioso perché in grado di inserirsi nei meandri della mente collettiva e assurgere al rango di senso comune consolidato, pensiero unico difficilmente smentibile se non al prezzo di essere tacciati di follia o paranoia.

 A un livello squisitamente tecnico la questione non deve sorprendere più di tanto, se è vero che già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause:

«il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce»[1].

 Tanto l’oscurità più totale, quanto un eccesso di luce producono degli esseri umani incapaci di pervenire alla distinzione chiara delle cose e quindi alla conoscenza, limitandoli bene che vada a una pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. E qui entra in gioco la Rete, onnipotente e generosissima dispensatrice di informazioni infinite e di ogni genere, in cui è possibile rintracciare l’avallo a qualsiasi ipotesi anche strampalata e al suo contrario. Il risultato, ovviamente, è quello di una impossibilità di approssimarsi a delle verità nitide, abbagliati dalla troppa luce dell’«opulenza informativa» e dimentichi che il tutto confina paurosamente con il nulla.

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13 Novembre, 2013

Roberto Lolli, La filosofia è davvero occidentale?

by gabriella

SocrateRiporto la trattazione del tema affrontata da Treccani.it globalmente, seppure al costo di notevoli semplificazioni. La tesi di Lolli è infatti che il “pensiero” non può essere detto solo occidentale, perché in tal caso si riprodurrebbe il paradosso fine-ottocentesco di disconoscere il contributo della storia non occidentale al progresso umano. Confesso di trovare tale approccio poco convincente perché, sgombrato il campo dagli equivoci dell’evoluzionismo sociale, identificare le specificità (nello stile dell’antropologia novecentesca) delle culture umane è tutt’altro che in conflitto con il riconoscimento della loro uguale dignità.

In relazione all’originalità dei greci, né Vernant, né Jaeger, fondarono la tesi della specificità della filosofia sul presupposto di una superiorità occidentale, intesa quale punto d’arrivo di un cammino umano presunto unitario. Entrambi insegnarono a riconoscere l’unicità e originalità dei greci nella nascita di un pensiero che si ritenne capace di comprensione del mondo al di là delle narrazioni mitiche (fu dunque laico) e si mostrò capace di decostruire le narrative dei potenti (democratico), identificando un modello di autonomia e libertà tipico, in effetti, della weltanshauung di questa parte di mondo [si veda, per approfondire, la ricostruzione di Jaeger da me utilizzata per realizzare le lezioni su Esiodo e Solone]. In sintesi, ciò che può dirsi unico della filosofia greca è il suo inizio che resta straordinario nonostante i suoi infiniti sviamenti ed esiti successivi.

 

Oriente e Occidente. La nascita della filosofia

Il “miracolo greco”

In primo luogo, si tratta di stabilire cosa sia filosofia e cosa non lo sia. L’atto di forza è stato compiuto nell’Ottocento dai filosofi (Hegel) e dagli studiosi (Zeller) che hanno identificato la tradizione occidentale scaturita dal pensiero positivo apparso in Grecia nel VI secolo a.C. come ‘la’ filosofia. La celebre tesi di Eduard Zeller nella sua opera monumentale Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung dargestellt (La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, 1844-1852) è sintetizzata come il “miracolo greco”: questo popolo – nel quale gli intellettuali tedeschi del XIX secolo vedevano la propria prefigurazione – per le specificità proprie elaborò un sapere nuovo, originale, un nuovo modo di interrogarsi razionalmente sul mondo, mentre gli altri popoli restavano immersi in forme più o meno complesse di superstizione, tutt’al più erano stati capaci – Cina e India – di elaborare alcune dottrine, vincolate però alle tradizioni o alle religioni.

Alla tesi “nazionalista” occidentale appare contrapporsi negli stessi anni quella “orientalista” elaborata da Friedrich Schelling e da August Gladisch: solo che l’affermazione sulle origini indiane, egizie, persiane degli spunti di riflessione poi rielaborati dai primi filosofi non faceva, in effetti, che ribadire che il pensiero autenticamente filosofico fosse quello greco e occidentale, mentre all’Oriente si riconosceva il ruolo di riserva e miniera di miti.

La tesi occidentalista include un curioso paradosso: se il pensiero orientale non è filosofico, in quanto limitato nel suo sviluppo dalla religione, perché la filosofia medievale e quella cristiana dovrebbero essere incluse nella tradizione occidentale? Quale criterio non contraddittorio può legittimare l’esclusione di Kŏngfūzĭ (Confucio) o delle Upanishad e l’inclusione di Agostino d’Ippona o di Tommaso d’Aquino? Un mero criterio geografico che fa decidere che tutto ciò che si pensa a ovest degli Urali e a nord di Tunisi è filosofia e il resto superstizione o mito?

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13 Novembre, 2013

John R. Searle, Oggetti sociali e atti linguistici

by gabriella

John Searle, tra i protagonisti del dibattito filosofico internazionale, ha elaborato un’influente teoria degli atti linguistici ruotante attorno al concetto di “intenzionalità”. Estendendo l’analisi del linguaggio alla costruzione della realtà sociale, è giunto a una compiuta teoria delle convenzioni, delle istituzioni e degli oggetti sociali. Tra i suoi libri in italiano: Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale (Milano 2000); La riscoperta della mente (Torino 2003); La costruzione della realtà sociale (Torino 2005); Atti linguistici. Saggi di filosofia del linguaggio (Torino 2009); Creare il mondo sociale. La struttura della civiltà umana (Milano 2010).

 

12 Novembre, 2013

Leonardo Daddabbo, Il potere

by gabriella

Oltre il Leviatano 1. Hannah Arendt, potere, relazione, azione

Una nuova visione della politica

“Il potere scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svanisce appena si disperdono” scrive Hannah Arendt in Vita activa (p. 147, edizione citata in bibliografia). Questa breve citazione è forse già sufficiente a spiegare la presenza di Arendt fra gli autori che hanno sperimentato, nella seconda metà del Novecento, nuovi modelli di pensiero politico. Il potere non è qui un comando proveniente dall’alto, ma un’attività generata dal basso, qualcosa che gli uomini fanno nascere agendo insieme. Ci troviamo di fronte a un pensiero che fonda la politica su elementi assai diversi da ogni precedente tradizione e afferma che la natura del politico può essere compresa solo ponendola in rapporto con la pluralità concreta degli uomini, con la loro capacità di stabilire relazioni, con le parole e le azioni che fanno apparire nel mondo qualcosa di nuovo. L’universo del Leviathan, fatto di obbedienza, rinuncia, autorità e gerarchia sembra quanto mai lontano.
Uno dei testi in cui questa impostazione si sviluppa è Vita activa (The human condition, 1958).

Vita activa

Nel termine ‘vita activa’ Arendt riassume le tre attività umane fondamentali: il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro è l’attività che produce i mezzi necessari a mantenere e riprodurre la vita. Il rapporto tra lavoro e vita è però di tipo ciclico: lavorare produce ciò che permette di vivere, ma una volta riprodottasi, la vita è nuovamente pronta al lavoro. La causa del processo ciclico risiede nel metabolismo dei processi vitali, che obbliga gli uomini a una continua attività il cui unico scopo è quello di alimentare un processo biologico che non può essere interrotto. In ultima analisi, il movimento logorante, ripetitivo e senza fine del lavoro dipende dal fatto che gli uomini hanno un corpo:

“il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo” (Vita activa, p. 81).

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12 Novembre, 2013

Roberto Lolli, Il contrattualismo

by gabriella

Pacta sunt servanda

Cielo

La nozione politica di “Contratto” nelle forme del pensiero antico è connessa al rapporto tra sfera religiosa e mondo umano. Il Patto – lo si chiami “Alleanza” nell’Antico Testamento, Eusébeia in Grecia o Pax Deorum a Roma – si prospetta come una relazione di potere nella quale l’ordine politico discende originariamente dalla volontà divina ed è mantenuto in virtù del rispetto da parte degli uomini di regole e rituali di origine sacra. A fondamento del potere era assunto un mito o una narrazione religiosa, in grado di conferire legittimazione a una casa regnante o al governo libero delle città. In ogni caso, era come se le istituzioni politiche sgorgassero dalla volontà di un dio, dalla natura o da se stesse, venendo a oscurarsi così l’idea che fossero gli uomini e non gli Dèi o il Fato a plasmare le leggi della città.

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12 Novembre, 2013

Roberto Lolli, Dubbi e certezze nel 600

by gabriella

La realtà e il suo specchio

Il Seicento è un’età di forti contraddizioni: è il secolo della Rivoluzione scientifica e della caccia alle streghe, delle teorie politiche innovative di Thomas Hobbes e John Locke e della Guerra dei Trent’Anni, delle arti barocche e della censura religiosa. Nessun secolo quanto il XVII si presta altrettanto bene a testare lo schema interpretativo dell’epoca contrassegnata dalla ‘crisi delle certezze’ che poi si dispiega in tutta la sua ampiezza per descrivere il Novecento.

Di questa situazione di transizione, di questa impotenza dell’individuo di fronte a qualcosa che eccede le capacità di comprensione o le possibilità di azione la massima espressione è il dubbio.

Il dilemma di Amleto

Amleto è un personaggio già moderno, come del resto altre grandi figure shakespeariane. La modernità del suo carattere si coglie in molti aspetti. Per esempio, la rivelazione da parte dello spettro di suo padre (freudianamente Amleto pure lui) delle modalità dell’avvelenamento subito e l’affidamento di una missione di “sacra vendetta” non vengono recepite con entusiastico vigore dal giovane principe. Amleto tituba, tentenna, lo spettro deve apparire una seconda volta per spronare il principe di Danimarca a compiere il gesto riparatore, l’atto che restituisca al mondo un equilibrio arcaico, barbaro, basato sul ripagare ferocia con ferocia. L’accettazione di questo compito, rimettere in sesto un mondo ‘fuor di quadro’, implica però dover affrontare la più drammatica tra le alternative: “essere o non essere”, cioè agire – e morire o essere comunque dannati – o non agire e sopravvivere disattendendo la voce dello spettro? Non si tratta di un dilemma del quale si conosca già la risposta: dalla terra dei morti nessuno è mai tornato per dirci se e quale sia la pena per l’anima peccatrice.

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12 Novembre, 2013

Roberto Lolli, La quaestio de universalibus

by gabriella

Un ‘campione medievale’

 Nel Medioevo, il ‘campione’ era colui che partecipava a un torneo cavalleresco e rappresentava se stesso o la casata o addirittura il suo signore e il suo sovrano. Era colui che stava sul campo, che affrontava il combattimento (in spagnolo Rodrigo Diaz de Bivar, lo storico e leggendario Cid, era detto, appunto, ‘Campeador’). Nel linguaggio moderno ‘campione’ ha assunto fondamentalmente due significati: ‘atleta vittorioso’ ed ‘esempio statistico, parametro di misurazione’.

 Ecco allora il ‘campione medievale’: la disputa sugli universali. Si tratta di un tema significativo, trasversale, che implica, infatti, anche la possibilità di collegarsi sul versante storico alla quaestio e al ruolo dell’università rispetto alla città; dall’altro, sul versante scientifico, alle forme del ragionamento logico. Soprattutto, consente di concentrare in un argomento gran parte del dibattito filosofico medievale mostrando il passaggio dalle prime soluzioni platoniche – che si delineano nell’Alto Medioevo e, dopo la svolta del Millennio, con l’affermarsi delle prime elaborazioni della Scolastica – fino a quelle più audaci, razionaliste e per molti versi moderne dei secoli XIII e XIV, quando, per citare Johan Huizinga, si profila “l’Autunno del Medioevo”.

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